Arrigo Boito

Falstaff

Giuseppe Verdi, Falstaff

★★★★☆

New York, Metropolitan Opera House, 14 dicembre 2013

(live streaming)

Hotel Falstaff

Si ride molto nel Falstaff di Carsen che dopo Londra e Milano approda a New York per il sollazzo del pubblico americano, che infatti non risparmia su risate e applausi a scena aperta. Il regista sceglie la strada della commedia brillante con tempi teatrali perfetti, continue gag e uno splendido gioco attoriale. Le sfumature di malinconia sono appena accennate, qui si tratta di un umorismo massiccio, quanto lo sono il protagonista, Alice e Mistress Quickly.

Ambientato in una nostalgica Inghilterra anni ’50, le splendide scenografie di Paul Steinberg ci portano in interni di hotel di lusso (altro che “osteria della Giarrettiera”!) con stuoli di valet e carrelli per il pranzo e la biblioteca dalle pareti in pannelli di legno; in una moderna cucina tutta formica a tinte pastello come luogo della burla in casa Ford; il parco di Windsor è invece un non-luogo notturno dove la quercia di Herne è finita nella boiserie e la foresta è quella delle corna di cervo in testa a tutti i personaggi. C’è poi il risveglio del cavaliere dopo il tuffo nel Tamigi: sulla paglia di una stalla compresa di cavallo, vero, che mastica tranquillo il suo fieno.

Il decadimento di Falstaff è il decadimento della vecchia Inghilterra: il cavaliere vive in un lusso provvisorio ma nella sporcizia: la sua biancheria intima è lurida sotto l’impeccabile tenuta da caccia, la giacca rossa, il cilindro; luride le lenzuola del letto sfatto. Falstaff è l’ultimo esempio di nobiltà decaduta, gli altri personaggi sono la borghesia che avanza, anche in maniera grossolana e invadente: il cicaleccio delle comari scandalizza i clienti del ristorante dell’hotel in cui esse si sono date appuntamento per il tè e in cui Fenton è uno dei camerieri. Per non parlare del Ford travestito da volgare petroliere texano che fa scappare gli altri ospiti. I costumi di Brigitte Reiffenstuel sono capolavori di realismo e ironia, soprattutto quelli delle donne.

L’attualizzazione di Carsen funziona a meraviglia ed è perfettamente integrata nella sua ironica lettura. Nel secondo atto il paravento non c’è, ma la tovaglia del tavolo della cucina serve perfettamente come nascondiglio per i due giovani. E come fare col liuto con cui si accompagna Alice? Va benissimo una radio a transistor! Prima il sacco di monete di Ford era diventato una più moderna valigetta di banconote, tanto il tintinnio dei pezzi di metallo è nella musica! Ogni nota della partitura trova un esatto corrispettivo visivo in questa attentissima regia.

Questa era la 56esima volta che James Levine affrontava l’ultima opera di Verdi. Dopo il lungo periodo di inattività per motivi di salute, il maestro è ritornato con baldanza sul podio e la sua è una direzione orchestrale che ha stupito per freschezza, vivacità, senso della musica e tenuta nelle difficili pagine contrappuntistiche. Nel fluido canto di conversazione Ambrogio Maestri si dimostra il Falstaff par excellence dei nostri tempi, il personaggio che ha portato in scena più volte. Degno concorrente della sua imponente presenza fisica è Stephanie Blythe, vocalmente autorevole e scenicamente auto-ironica Mistress Quickly. Sontuosa la vocalità di Angela Meade (Alice), forse troppo, e vivace la Meg di Jennifer Johnson Cano. Lisette Oropesa e Paolo Fanale formano l’adorabile coppia di giovani amanti. Discutibile il Ford di Franco Vassallo la cui interpretazione vocale è spesso sopra le righe e manca di finezza. Carlo Bosi delina da par suo un dott. Caius da caricatura senza eccessi, mentre Keith Jameson e Christian van Horn formano un Bardolfo e un Pistola da antologia, tra i migliori mai visti e sentiti in scena.

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Otello

Giuseppe Verdi, Otello

★★★★☆

Genova, Teatro Carlo Felice, 4 gennaio 2014

Tra Globe Theatre e Star Wars: l’Otello di Livermore

La collaborazione tra il regista Davide Livermore e la Giò Forma continua a dare i suoi frutti. Da Valencia arriva a Genova la loro produzione dell’Otello verdiano: «Uno spettacolo mastodontico la cui particolarità e complessità delle scene offre allo spettatore una visione tridimensionale unica, con proiezioni ed effetti luminosi sorprendenti realizzabili soltanto in teatri con tecnologie sceniche avanzate come è il Carlo Felice. […] L’impianto scenico ispirato al ‘wooden O’ di shakespeariana memoria è uno spazio vuoto circolare e pendente, sormontato da un anello e con una pedana centrale circolare sovraelevabile. Su quella pedana si sviluppano le scene clou, i passaggi più forti, i dialoghi più intensi arrivando alla tragedia della morte. Mentre sullo sfondo spesso alcune proiezioni traducono gli avvenimenti raccontati, come la coinvolgente tempesta iniziale. Il più è affidato all’immaginazione e all’emozione che arriva da una regia densa di significati metaforici. I costumi, il trucco e le acconciature oscillanti tra il gusto punk e quello metallaro di Marianna Fracasso hanno un effetto intenso e vagamente conturbante che ben si confà con lo stile Guerre Stellari che caratterizza tutta la messa in scena». (Francesca Camponero)

«Nessun gesto, nessun movimento, nessuna interpretazione diverge dal libretto di Boito: Livermore riesce nell’impresa di coniugare la moderna concezione cinematografica dell’intrattenimento con la tradizione dell’opera, rinnovandola in modo garbato e non invasivo, al punto che gli eventi sono chiari e definiti anche quando la scena brulica di elementi e non sono necessarie lunghe elucubrazioni per comprendere anche i significati più reconditi di questa rappresentazione. Tutto ciò è chiaro fin dalla spettacolare scena della tempesta che apre la serata: la nave in lontananza in balia dei feroci cavalloni delle onde proiettate sul fondale approda a Cipro mentre il glorioso Otello fa capolino sulla scena dall’alto e, grazie al sapiente gioco di video-tecnologia, sembra esortare i suoi dalla prora della nave. Ottima la gestione dei movimenti delle masse nelle scene del coro, mai eccessivamente statiche, mentre l’immagine degli amanti sospesi nell’immensità stellata nel duetto che chiude il primo atto rende l’intera sala partecipe di quell’estasi che, non a torto, Otello teme di non poter rivivere mai più. Il celebre “Credo” antitetico di Jago tinge la scena di una diabolica tinta rossa che ritroveremo anche al termine del concitato giuramento finale tra Otello ed il suo aguzzino, col moro chinato ai piedi dello spietato alfiere. Nel mezzo, il ramo cui si faceva prima riferimento, dapprima simbolo fiorito dell’idillio degli amanti, perde via via il fogliame mentre Jago insinua in Otello il seme della gelosia, fino a rimanere spettralmente spoglio ed arido così come l’animo smarrito del condottiero. La regia di Livermore ha inoltre il grosso pregio di rispettare, oltre al libretto, anche la partitura di Verdi, sicché la triplice coerenza tra azione visiva, parola cantata e suono orchestrale non viene mai meno». (Luca Baracchini)

Il giovane e irruente Andrea Battistoni con la sua gestualità teatrale tiene salda l’orchestra del teatro in una lettura vibrante e piena di slanci. Talora il volume sonoro è eccessivo con uno squilibrio della buca rispetto al palcoscenico, ma non ci sono soverchi problemi grazie anche a un cast di eccellenza. Potenza, espressività ed eleganza contraddistinguono la performance di Gregory Kunde, l’Otello di riferimento oggi come lo era stato Jon Vickers decenni fa. Jago di grande personalità seppure troppo truce è quello di Carlos Álvarez, sensibile e intensamente drammatica l’interpretazione di Maria Agresta, Desdemona.

Falstaff

Giuseppe Verdi, Falstaff

★★☆☆☆

Amburgo, Staatsoper, 19 gennaio 2020

(video streaming)

Fat shaming ed eurotrash: il Falstaff di Bieito

Mentre a Piacenza sale sul palcoscenico un nuovo Falstaff con la voce e le fattezze di Luca Salsi, ad Amburgo ritorna il Falstaff per antonomasia dei nostri tempi, il collaudato Ambrogio Maestri. Ma qui la curiosità è per la messa in scena di Calixto Bieito, che per la prima volta si cimenta con una commedia venata sì di malinconia, ma sostanzialmente comica. I risultati, ahimè, non sono mirabili.

Seduto su una poltrona, solo nel buio, il cavaliere si gusta un intero vassoio di ostriche. Nel silenzio si sente solo il risucchio soddisfatto per i molluschi avidamente gustati. Solo quando il vassoio è vuoto attaccano le prime note. Nel frattempo dal buio si evidenzia la struttura scenografica di Susanne Gschwender sulla immancabile piattaforma rotante: l’esterno e l’interno di un pub con tristi decorazioni natalizie mentre sullo schermo della televisone del locale passano i video youtube della passione del cantante per la cucina.

L’uomo è un pancione che neanche per le sue imprese amorose rinuncia alla t-shirt taglia XXXL (costumi di Anja Rabes) – ed è il regista che rinuncia a un momento comico che nessun altro finora si era lasciato scappare: qui l’uomo non si cura dell’abito e prende per la gola delle sue vittime presentandosi con un piatto da lui cucinato. D’altronde anche Miss Quickly si era presentata con tatuaggio sul collo e guantoni da box. L’ambientazione è ovviamente contemporanea – nessuna sorpresa – ma le gag trucide non reggono il ritmo e tanto meno lo spirito della musica. E tutte le indicazioni del libretto cadono nel vuoto, una per tutte la cesta che finisce nel Tamigi: qui il grassone riceve una secchiata di escrementi sulla testa e nella scena successiva lo troviamo in una latrina che beve vino nel cartone e fino alla fine non troverà il tempo di farsi una doccia. La dimensione fiabesca del terzo atto è ovviamente del tutto assente per trasformarsi invece in una scena da film horror con atmosfera da La notte dei morti viventi e con le nudità di Falstaff messe impietosamente in mostra («uom vecchio, sudicio e obeso») – Bieito è riuscito a spogliare anche Ambrogio Maestri! La lettura del regista spagnolo questa volta non aggiunge nulla alla comprensione dell’opera e manca del tutto l’aspetto malinconico. Anche l’idillio tra i giovani Fenton e Nannetta è ridotto a una scopata e a un test di gravidanza effettuato dal vivo.

Ancor più greve è la componente musicale, non tanto per la mediocrità delle voci, quando per la dizione che fa strame delle sottigliezze linguistiche di Boito e del carattere di conversazione del lavoro. Oltre ad Ambrogio Maestri, che ormai gigioneggia e interpreta la parte a occhi chiusi – talora anche troppo chiusi –, tra i pochi nomi che merita di riportare ci sono quelli di Markus Brück, un Ford un decisamente sopra le righe, Maija Kovalevska, efficace Alice ed Elbenita Kajtazi Nannetta, vocalmente pregevole. Direzione senza particolari bellurie quella di Axel Kober, ma sarebbero comunque passate inosservate con quello avviene in scena.

La Gioconda

Amilcare Ponchielli, La Gioconda

★★★☆☆

Bruxelles, Théâtre Royal de la Monnaie, 12 febbraio 2019

(diretta streaming)

Aqua alta a Bruxelles

Una delle crtiche più frequenti verso le riegie “moderne” è che l’attualizzazione è inutile poiché il messaggio è sempre comprensibile per il pubblico. Io invece dubito che una Gioconda ambientata tradizionalmente all’epoca (la Venezia del Seicento) possa veicolare un messaggio forte, come quello della messa in scena di Olivier Py ora alla Monnaie di Bruxelles, a un pubblico distratto e avvezzo alle nefandezze che gli vengono servite all’ora di cena dai telegiornali. La minaccia di bruciare con la benzina la povera madre cieca, denudata e maltrattata ha un impatto così violento perché fa appello ad immagini di una cruda realtà contemporanea.

Nella Gioconda di Py non c’è Venezia, ma l’acqua comunque c’è – scura, putrida, da «canal morto» – in cui tutti sguazzano con i loro mantelli e abiti neri. La scenografia di Pierre-André Weisz costruisce infatti un ambiente chiuso e claustrofobico illuminato da Bertrand Killy da lividi neon o da una luce rossa nel duetto Laura-Gioconda e verde nella scena della festa. Siamo in un tunnel senza uscita in cui si compie il destino sadicamente previsto da Victor Hugo (nel suo Angelo, tyran da Padoue) e poi da Arrigo Boito, il librettista che qui si firma Tobia Gorro. L’atmosfera di oppressione e delazione è completata dai costumi dello stesso Pierre-André Weisz, le solite divise parafasciste nere per la maggior parte dei personaggi e per il coro. Fin dall’inizio domina una maschera di clown dell’orrore («l’orribile sua faccia» esclama Gioconda di Barnaba) simile a quella dell‘It di Stephen King, indossata prima da un uomo nudo in una vasca da bagno durante l’ouverture, poi dallo scagnozzo di Barnaba, poi da tutto il coro, infine ingigantita fino a riempire tutta la scena con Barnaba che fa capolino da un suo occhio prima della tragica scena finale.

Passione e morte denotano anche le coreografie, qui anonime, nel senso di non firmate, della celeberrima “danza delle ore”, con i ballerini che sguazzano nell’acqua sollevando grandi spruzzi, la parte migliore di un balletto fatto di stupri, ammazzamenti e bare che arrivano vuote e ripartono piene.

Nella lambiccata regia di Py – a un certo punto entra in scena una donna nuda con una padella di fritto – non mancano momenti incisivi, come la pioggia di scintille nella scena che conclude il secondo atto per rappresentare la nave di Enzo che affonda tra le fiamme, ma nel complesso convince poco poiché non prende partito con la drammaturgia di quest’opera strampalata.

A capo dell’orchestra Paolo Carignani rende con precisione la magniloquente partitura ma non manca di cesello nelle pagine più liriche. Tutti debuttanti nelle rispettive parti sono i cantanti: Béatrice Uria-Monzon è grande attrice e delinea perfettamente la figura di Gioconda anche se l’emissione è affetta da un vibrato eccessivo e da un registro medio non ben proiettato; Silvia Tro Santafé è una Laura appassionata che rende con grande temperamento e con il suo caratteristico colore brunito e vibrato stretto; Stefano La Colla è un Enzo più eroico che romantico, talora l’intonazione è traballante e gli acuti forzati; Franco Vassallo incarna Barnaba con grande efficacia ma senza esagerare nei toni truculenti cui propenderebbe il personaggio sadico e crudele; Ning Liang è la madre cieca, voce un po’ troppo chiara, talora più chiara della figlia; nel marito tradito e vendicativo Alvise si impegna con onore Jean Teitgen.

Simon Boccanegra

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Giuseppe Verdi, Simon Boccanegra

★★★★☆

Parigi, Opéra Bastille, 13 dicembre 2018

(diretta streaming)

Il vascello fantasma di Simon

Vicenda truce e senza speranza quella narrata dal Piave e messa in musica da un Verdi che ritornava a Venezia dopo l’esperienza parigina del suo grand opéra, Les Vêpres siciliennes.

Alla Fenice Simon Boccanegra fu un fiasco «quasi altrettanto grande di quello della Traviata», scrive il compositore. Il pubblico non era preparato a un dramma politico di tono scuro e uniforme, «triste e di affetto monotono» – stavolta le parole sono di Giulio Ricordi – quasi senza risvolti sentimentali. Occorrerà un quarto di secolo e una profonda revisione del libretto da parte di Arrigo Boito perché il lavoro si potesse affermare definitivamente nei teatri.

È la versione del 1881, andata in scena alla Scala il 24 marzo diretta da Franco Faccio, quella che comunemente si ascolta oggi. E quindi è quella concertata da Fabio Luisi per l’Opéra Bastille. La sua lettura è giustamente tenebrosa, ma il maestro non manca di sottolineare, con i fremiti degli archi, gli squarci atmosferici e marini di interludi che, se non si trattasse di quasi un secolo prima, sembrerebbero anticipare quelli del Peter Grimes di Britten.

Eccezionale il cast di interpreti: Ludovic Tézier debutta come Simon in scena dopo averne data una versione memorabile in concerto. Timbro, fraseggio, legati sono magistralmente esibiti dal baritono francese che dimostra ogni volta una maturità espressiva supriore a quella della volta precedente. Autorevole e nobile il Fiesco di Mika Kares, con il suo duetto finale con Tézier uno dei momenti più emozionanti della serata. Parte molto bene nel Prologo Nicola Alaimo, il perfido Paolo, per perdere poi un po’ di incisività. Francesco Demuro non conosce altro che il tono forte e stentoreo ed è un peccato perché col suo bel timbro potrebbe essere un magnifico Adorno e invece finisce per essere insopportabile. Unica donna in tanta maschilità, Amelia trova in Maria Agresta la sensibilità e la vocalità sicura del soprano lucano. Mikhail Timoshenko è un Pietro di lusso.

Maria, la madre di Amelia e la moglie di Simon Boccanegra, è il personaggio chiave dello spettacolo allestito da Calixto Bieito: trascinata in scena ancora viva da Jacopo Fiesco su un telo di plastica, è una delle tante donne che ogni giorno soffrono la violenza dei maschi. Da morta il suo spirito vagherà tra i vivi fino a riprendesi alla fine il Simon avvelenato per invidie e brame di potere. Bieito sfronda la vicenda del contesto storico, concentrando tutto sulla psicologia dei personaggi con un particolare gioco attoriale in cui viene tolta quasi ogni interazione personale. Le figure sono chiuse in sé stesse, monadi in balia del destino, nonostante questa sia un’opera di duetti. Proiezioni video del viso di Simon fanno talora da sfondo, mentre nell’intervallo, che separa le due parti in cui è stata divisa l’opera, un video un po’ macabro se non truculento, di cui non si sentiva il bisogno, dimostra la sotterranea propensione alla provocazione del regista spagnolo, che invece qui questa volta propone uno spettacolo coerente con la psicologia del dramma verdiano.

Unico elemento scenografico è uno scheletro di battello, in demolizione più che in costruzione, il “Vascello fantasma” del corsaro Simon su cui egli salirà un’ultima volta alla morte. Ruotando di 360° la struttura mostra lati diversi del suo interno suggerendo i vari ambienti. Ma non è l’ambientazione che interessa il regista, che fa agire i personaggio sempre al proscenio, con grande vantaggio delle voci.

Momento molto toccante il duetto finale dei vecchi Simon e Fiesco, con il secondo che sostiene tra le braccia il doge morente e come atto d’affetto gli deterge la fronte col suo fazzoletto.

Simon Boccanegra / Verdi / Calixto Bieito

Otello

Giuseppe Verdi, Otello

★★★★☆

Monaco di Baviera, Nationaltheater, 2 dicembre 2018

(diretta streaming)

Dal punto di vista di Desdemona

Ottima occasione questa dello spettacolo dalla Bayerische Staatsoper per verificare quanto scritto da Roberto Brusotti sull’ultimo numero della rivista “Musica” a proposito di uno dei maggiori interpreti di Otello dei nostri giorni, Jonas Kaufmann.

In un lungo articolo infatti viene esaminato l’Otello del tenore bavarese che «si discosta dalla linea interpretativa basata sulla stentoreità e sul parossismo per offrire, sulla scia di Jon Vickers (che, in parte, è anche quella di Placido Domingo), un Otello sofferto e contraddittorio, che alterna slanci d’ira ad angosciosi ripiegamenti interiori e che ben esprime la vera tragedia di quest’uomo, irretito da Jago a tal punto da essere trascinato nell’abisso della gelosia e della follia omicida. Nel mettere il suo timbro denso e virile al servizio di un fraseggio articolato, Kaufmann incarna un Otello affettuoso e tormentato, decisamente umano e, in quanto tale, psicologicamente fragile».

Patologicamente fragile, addirittura, nella messa in scena della regista Amélie Niermeyer e come vissuto dal punto di vista di Desdemona. Le note dissonanti della tempesta e il coro sembrano fuoriscena: noi vediamo un ambiente borghese dalle boiserie chiare, e si capisce subito che la tempesta è quella nell’animo di Desdemona, inseguita dal fascio di luce di un occhio di bue che ne isola l’angoscia. Il militare Otello ritorna, ma non è un condottiero vittorioso, bensì un soldato Švejk disturbato, traumatizzato dalla guerra che si è lasciato alle spalle. E il suo canto non ha nulla dell’esultanza proclamata nei versi di Boito.

Nella ripresa televisiva vediamo la stanza arretrare verso il fondo e in primo piano apparire lo stesso ambiente, ma in colori cupi e in scala maggiore. Ad ogni atto la struttura scenografica di Christian Schmidt ruota di un quarto di giro: alla fine dell’opera il giro sarà completo e noi, dalla “quarta parete”, avremo assistito al dramma da tutte le angolazioni. In questo doppio ambiente (uno reale e l’altro mentale) si sviluppa la vicenda che vede protagonista Desdemona, quasi sempre presente e muta, chiusa nei suoi pensieri. Una Desdemona che quando insiste incoscientemente sul caso di Cassio con il marito “scherza col fuoco”, letteralmente ma anche realmente: la regista nella prima scena ci aveva mostrato il braccio del suo alter-ego avviluppato nelle fiamme del caminetto. Questa è una delle ingenuità di una regia che altrove invece ha un suo convincente rigore, come il momento della preghiera di Desdemona che non ha nulla del conforto religioso ma è il canto angosciato di una condannata. Poi Otello entra e cosparge il letto di fiori con la freddezza di un serial killer prima di uccidere la donna e infine morire solo, l’ultimo bacio anelato verso un letto vuoto – il cadavere di Desdemona era rimasto nella sua camera “fantasma”.

Per uno spettacolo così diverso dal solito occorrevano degli artisti fuori del comune e a Nikolaus Bachler, il sovrintendente del teatro, l’impresa è riuscita in pieno. A cominciare dalla direzione orchestrale affidata a un Kirill Petrenko che stupisce ogni volta per la profondità e densità della lettura. Al suo debutto verdiano, la partitura della penultima opera del maestro di Busseto dimostra una modernità stupefacente: come se si trattasse di Mahler il direttore russo ne mette in evidenza gli scoppi lancinanti, i momenti dolenti, i colori scuri con una lucidità e un trasporto miracolosi. Mai come sotto la sua bacchetta la scena dell’assassisinio si era caricata di suoni così angosciosi, tali da trasformare la morte di Desdemona in un horror tagliente. Grande merito va all’interpretazione di Anja Harteros, intensa ma mai stucchevole Desdemona nei duetti col marito come nella scena della preghiera di cui s’è detto. Gerald Finley si dimostra come sempre elegante ed espressivo interprete e il suo Jago perde ogni truculenza per acquistare una verità teatrale inusuale. E infine lui, Jonas Kaufmann, stranamente imbolsito (spero sia colpa della costumista Annelies Vanlaere che lo costringe in pantaloni taglia 54 e bretelle o un’idea registica). Alla sua ripresa del ruolo dopo il debutto a Londra con Pappano, il tenore offre un’interpretazione più complessa e con una prestazione attoriale che fa dell’introversione il suo punto di forza. Ora la voce, pur nei limiti conosciuti – vocalità non ortodossa, arretrata nella posizione, un po’ forzata negli acuti – presenta un timbro meno ingolato e più brunito.

Comunque il pubblico di Monaco ha riservato al suo beniamino applausi un pelo meno fragorosi di quelli tributati agli altri tre artisti (nell’ordine Petrenko, Harteros, Finley). Efficaci si sono dimostrati i comprimari: Evan Leroy Johnson (Cassio), Galeano Salas (Roderigo), Bálint Szabó (Lodovico) e Rachael Wilson (Emilia).

Brutta la regia video con inquadrature sbagliate e difettosa la trasmissione in streaming con lunghi momenti in cui veniva a mancare la definizione dell’immagine tanto da rendere sfocate le figure e addirittura illeggibili i sottotitoli.

Falstaff

Giuseppe Verdi, Falstaff

★★★☆☆

Vienna, Staatsoper, 30 giugno 2018

(livestreaming)

“Visually sumptuous”. Lo Zeffirelli scozzese

Indubbiamente è l’impatto visivo dei suoi allestimenti l’elemento che più caratterizza le produzioni di Sir David McVicar, Knight Bachelor e Chevalier de l’ordre des arts et des lettres. Ma c’è anche un minuzioso lavoro attoriale dietro le regie dell’ex-attore della Glasgow School of Art e della Royal Scottish Academy of Music and Drama, regie che vengono sempre più apprezzate nei teatri, come il Metropolitan Opera House di New York o la Staatsoper di Vienna, in cui l’eleganza e la grandiosità dell’allestimento – scenografie, costumi, luci – hanno la meglio sulle idee che “stravolgono” le opere o ne danno un’interpretazione problematica.

Partito dalla geniale lettura di lavori quali il Giulio Cesare (Glyndebourne, 2005) ambientato nell’India colonialista o la Salome (Royal Opera House, 2008) vista come una pasoliniana Salò-Sade, ora il regista scozzese mette in scena i maggiori titoli dell’Ottocento e Novecento con un fasto unito a una somma cura per i particolari.

La ricostruzione degli ambienti è inappuntabile: ne sono un esempio il dorato padiglione rococo dell’Andrea Chénier, il teatro-nel-teatro della sua  Adriana Lecouvreur o qui la camera di Falstaff con quella tavola apparecchiata che sembra uscita da una natura morta fiamminga. Charles Edwards disegna anche casa Ford con il suo praticabile superiore e il quadro finale dominato dalla quercia di Herne e da un’immane luna piena. Non sono da meno i sontuosi costumi di Gabrielle Dalton.

Non mancano le idee argute nella regia di McVicar, come il grande letto di Falstaff che si può permettere la compagnia, oltre che di un paggio, anche di una giovane ragazza discinta. Ma pur nella sua eleganza, l’allestimento denuncia una certa mancanza di ispirazione da parte del regista scozzese con alcuni momenti, soprattutto nel finale, che nella loro maniacale adesione al libretto finiscono per risultare stucchevoli.

Due anni dopo il debutto, torna a Vienna questa produzione dell’ultima opera di Verdi. Al posto di Zubin Mehta ora c’è James Conlon e quasi tutti nuovi sono gli interpreti, ad eccezione del titolare, Ambrogio Maestri, che proprio qui festeggiava la sua 250ª recita il 9 dicembre 2016. Ora chissà a che quota è dopo che nel frattempo si sono aggiunte, solo recentemente, Milano, Monaco, Astana e Parigi. C’è poco da aggiungere alla sua performance che rasenta la perfezione con la totale immedesimazione nel personaggio senza mai cadere nella caricatura e nell’umorismo greve. Maestri è anche l’unico italiano, e si sente: in un’opera in cui il canto è conversazione, leggerezza, intelliggibilità, le dizioni impastate di alcuni cantanti e lo storpiamento delle parole (angello, gelloso…) non aiutano. Per di più James Conlon nella buca orchestrale non sempre ha pietà delle voci in scena pur avendo a disposizione il meraviglioso strumento dell’orchestra dei Wiener. Le preziosità della lettura di Zubin Mehta della produzione originale qui mancano pur nella corretta scelta dei tempi e dei colori strumentali. Anche il folto cast non ha punte di particolare eccellenza, deludendo il rozzo Ford di Christopher Maltman, il poco elegante Fenton di Jinxu Xiahou e la Nannetta senza grazia di Andrea Carroll. Meglio il trio delle comari: l’Alice Ford di Olga Bezsmertna, la Mrs. Quickly di Monika Bohinec e la Meg Page di Margaret Plummer. Fastidiosamente sopra le righe Dr. Cajus e Bardolfo.

Le foto di riferiscono alla produzione del dicembre 2016

 

La Gioconda

Amilcare Ponchielli, La Gioconda

★★★☆☆

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Modena, Teatro Comunale Luciano Pavarotti, 25 marzo 2018

Un grand-opéra di provincia

Per nessun’altra opera è così netto il divario tra i giudizi della critica e del pubblico. Dal 1876, quando La Gioconda di Amilcare Ponchielli fu presentata alla Scala di Milano con un successo di inaudite proporzioni, ogni volta che questo drammone viene allestito in qualche teatro italiano si rinnova la sua fortuna popolare. Ma immutate rimangono anche le riserve della musicografia su questo feuilleton a forti tinte tratto da Angelo, tyran de Padoue che Victor Hugo aveva scritto quarant’anni prima. Il pubblico rimane comunque soggiogato dall’opulenza della musica di questo grand-opéra di provincia di sapiente costruzione musicale cui non mancano pagine di indubbio effetto. Il fatto è che i personaggi de La Gioconda hanno uno spessore psicologico minimo, essendo più che altro la rappresentazione in scena di sentimenti estremi più che personaggi dalla drammaturgia credibile.

Solo in parte la trama del dramma storico di Hugo viene rispettata dal librettista Arrigo Boito, che qui si firma Tobia Gorro. Nei suoi ricercati versi e nella musica di Ponchielli protagonista principale è la città di Venezia, «grande e terribile, piena di tenebre, dove non si muore sul patibolo, ma si sparisce» nel Canal Orfano o nel Canal Morto…

Il regista de La Gioconda oggi ha davanti a sé due vie antitetiche per la messa in scena: o una parodia della vicenda mettendo in scena “qualcos’altro” (chissà cosa ne farebbero Claus Guth o Krzysztof Warlikowski o Damiano Michieletto!) o un allestimento del tutto tradizionale con una Venezia da cartolina come scenografia. Federico Bertolani non sceglie la prima via: la sua è una messa in scena comunque semplificata e depurata da orpelli e cartapesta che tiene conto delle esigenze di budget sempre più limitati. Nella scenografia di Andrea Belli si accenna più che descrivere la città lagunare con l’acqua elemento sempre presente, anche se gli spettatori della platea quasi non se ne accorgano se non fosse per i riflessi di luce e gli spruzzi. Passerelle di legno formano gli ambienti del primo e quarto atto; un albero, due vele e cordami formano il brigantino su cui avviene la perdizione di Laura e la trasformazione della Gioconda in donna vendicatrice – ma non sarà l’unica conversione: diventerà poi pietosa e infine martire. Meno efficace la scena del terzo atto, l’interno della Ca’ d’Oro, realizzata con troppi drappi rossi che contrastano con i brutti teli di plastica traslucidi che negli altri atti accennano efficacemente all’elemento liquido della città. Che poi Laura sia costretta a rimanere una buona mezz’ora stesa sul suo catafalco coperta da un telo rosso è difficilmente giustificabile dal punto di vista drammaturgico.

Il direttore Daniele Callegari ripristina tutte le pagine di una partitura complessa, anche quelle che di tradizione vengono tagliate al secondo e al quarto atto, e ne dà una lettura trascinante, sottolinea i momenti crepuscolari, ma non lesina sui volumi sonori quando è necessario, senza mai prevaricare però sui cantanti. Peccato che i tre intervalli diluiscano molto la tensione drammatica e facciano andare a casa gli spettatori dopo oltre quattro ore. Non si giustificano i sessanta minuti totali di intervalli per i cambi di una scena essenzialmente minimalista.

Tre sono i momenti culminanti del personaggio di Gioconda: il duetto con la rivale Laura, il momento del lancinante «Suicidio!» e la scena finale. In tutti e tre Saioa Hernandez ha dimostrato grande temperamento e tecnica vocale assieme a volume sonoro ragguardevole e un timbro particolare che la rende adatta a questo tipo di repertorio. L’altro elemento di punta della serata è il personaggio di Enzo Grimaldo, qui sostenuto dal Francesco Meli di cui il pubblico ha apprezzato il solito impegno con applausi copiosi. Grande esperienza e temperamento sono le doti di Anna Maria Chiuri che, nonostante qualche asprezza nel registro basso, ha delineato con efficacia una Laura sofferta. Strumenti un po’ usurati quelli dell’Alvise Badoero di Giacomo Prestia, la sua è stata una prestazione generosa ma affaticata. Ancora un ruolo da vilain per Sebastian Catana, che dopo il perfido Giovanni de La ciociara di Marco Tutino veste le parti di Barnaba, uno Jago la cui perfidia qui è ancora più irragionevole. Buono il resto dei comprimari così come i cori.

Monica Casadei con la compagnia Artemis ha risolto con efficiacia la celeberrima “Danza delle ore”, una ingenua concessione alle esigenze del grand-opéra transalpino. Nello spazio esiguo tra coro e buca orchestrale i soli sei ballerini hanno illustrato con movimenti allusivi ai movimenti degli ingranaggi o a quelli delle lancette di un orologio i galop e i temi pimpanti di questa pagina il cui carattere è totalmente avulso dalle atmosfere notturne e misteriose del resto dell’opera.

Falstaff

Giuseppe Verdi, Falstaff

★★★☆☆

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Torino, Teatro Regio, 15 novembre 2017

Falstaff a Torino: elegante, ma con poca sostanza

Terzo Falstaff in scena pochi mesi dopo quelli di Milano e di Parma. L’interesse di questa produzione era dato dalla direzione di Daniel Harding più che dallo spettacolo in sé che risale al 2008.

A causa di un incidente occorsogli l’estate scorsa il direttore britannico è stato sostituito da Donato Renzetti, maestro di collaudata esperienza specialmente nel repertorio verdiano, che già aveva concertato l’opera a Cagliari. Con piglio sostenuto egli ha esaltato i momenti più vivaci della vicenda o le chiacchiere delle comari, ma ha saputo sottolineare gli aspetti più lirici della storia d’amore dei due giovani o i momenti  di malinconia del vecchio cavaliere.

La sua è comunque una direzione di tradizione che non svela particolari inediti di una partitura che rappresenta la summa della maestria teatrale di Verdi. L’opera ha avuto una lunga gestazione: già nel lontano 1868 indiscrezioni davano il Maestro intenzionato a scrivere un’opera buffa. Quando la sera del 9 febbraio 1893, il suo terzo lavoro su Shakespeare trionfava alla Scala, era trascorso un quarto di secolo in cui Verdi si era dedicato alla composizione di Aida, Don Carlos, Simon Boccanegra e Otello.

Falstaff trionfa e stupisce: mai fino a quel momento si era sentita un’orchestra così leggera, trasparente, dalla timbrica sempre cangiante, con effetti comici affidati ora a singoli strumenti (i corni…) ora a tutta l’orchestra come nella parodistica fuga del finale. Un’opera all’avanguardia in quel momento, che rappresentava una netta linea di demarcazione tra l’opera dell’Ottocento e i futuri esiti del Novecento. Senza il Falstaff di Verdi sarebbe probabilmente stata impensabile La bohème di Puccini.

La produzione ora al Regio di Torino si avvale di due apprezzabili cast. La sera della prima il ruolo del borioso cavaliere è stato assegnato a un Carlos Álvarez di bella vocalità che ha sottolineato la nobiltà del personaggio rinunciando ad accentuarne gli aspetti farseschi, in tal modo però facendogli perdere un po’ di spessore. Lo stesso si può dire per il composto Ford di Tommi Hakala che per di più ha avuto qualche problema di dizione e si è talora inciampato sugli artificiosi termini del libretto di Arrigo Boito. Entrambi hanno comunque reso con grande classe e con un certo elegante distacco i rispettivi personaggi. Molto ben caratterizzati sono stati i ruoli del Dottor Cajus (Andrea Giovannini) e del comicamente impacciato duo Bardolfo e Pistola (Patrizio Saudelli e Deyan Vatchkov), una sorta di Stanlio e Ollio. Francesco Marsiglia è stato un Fenton di grande corporatura, corretto ma non memorabile.

Nel reparto femminile come Mrs Alice ha cantato Erika Grimaldi, tecnicamente attendibile ma dal timbro ingrato. Più piacevoli la Mrs Meg di Monica Bacelli e la Mrs Quickly di Sonia Prina, un ruolo che quest’ultima ora frequenta spesso dopo aver cantato tanti Händel e Vivaldi. Nannetta ha trovato nel soprano rumeno Valentina Farcaș la grazia vocale e scenica desiderate.

La regia di Daniele Abbado illustra molto linearmente la vicenda senza proporne una lettura problematica e muove con efficacia gli attori – anche se dalla scena del parco di Windsor ci si poteva aspettare qualcosa di meno scontato. La scenografia di Graziano Gregori prevede una grande piattaforma di legno inclinata di forma circolare – che però non ruota! – ed è costellata di tante botole. Da una di questa emerge con uno striminzito parasole ed elegantemente vestito Falstaff in uno dei pochi momenti divertenti della serata. Mobili e pareti scendono dall’alto e sono quindi poco comprensibili i lunghi “cambi di scena” che rallentano il ritmo della rappresentazione. Gli abiti anni 1950 di Carla Teti e le calde luci di Luigi Saccomandi completano uno spettacolo niente più che garbato.

Falstaff

foto © Roberto Ricci

Giuseppe Verdi, Falstaff

★★★☆☆

648126338.png Qui la versione in italiano

Parma, Teatro Regio, 1 October 2017

A melancholy Falstaff at the Festival Verdi

The city of Parma organizes an annual festival to celebrate its most distinguished son, Giuseppe Verdi. For almost a month, operas, concerts and conferences highlight the greatest figure in the Italian music theatre.

Verdi’s final opera, Falstaff, was performed in the ornately decorated 1000-seater opera house that dates back to the first half of the 19th century. Parma’s Teatro Regio is considered to be the true representative of the Italian operatic tradition and is home to fearsome loggionisti – enthusiasts who consider themselves the custodians of Verdi’s legacy…

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