Falstaff

Giuseppe Verdi, Falstaff

★★★★☆

New York, Metropolitan Opera House, 14 dicembre 2013

(live streaming)

Hotel Falstaff

Si ride molto nel Falstaff di Carsen che dopo Londra e Milano approda a New York per il sollazzo del pubblico americano, che infatti non risparmia su risate e applausi a scena aperta. Il regista sceglie la strada della commedia brillante con tempi teatrali perfetti, continue gag e uno splendido gioco attoriale. Le sfumature di malinconia sono appena accennate, qui si tratta di un umorismo massiccio, quanto lo sono il protagonista, Alice e Mistress Quickly.

Ambientato in una nostalgica Inghilterra anni ’50, le splendide scenografie di Paul Steinberg ci portano in interni di hotel di lusso (altro che “osteria della Giarrettiera”!) con stuoli di valet e carrelli per il pranzo e la biblioteca dalle pareti in pannelli di legno; in una moderna cucina tutta formica a tinte pastello come luogo della burla in casa Ford; il parco di Windsor è invece un non-luogo notturno dove la quercia di Herne è finita nella boiserie e la foresta è quella delle corna di cervo in testa a tutti i personaggi. C’è poi il risveglio del cavaliere dopo il tuffo nel Tamigi: sulla paglia di una stalla compresa di cavallo, vero, che mastica tranquillo il suo fieno.

Il decadimento di Falstaff è il decadimento della vecchia Inghilterra: il cavaliere vive in un lusso provvisorio ma nella sporcizia: la sua biancheria intima è lurida sotto l’impeccabile tenuta da caccia, la giacca rossa, il cilindro; luride le lenzuola del letto sfatto. Falstaff è l’ultimo esempio di nobiltà decaduta, gli altri personaggi sono la borghesia che avanza, anche in maniera grossolana e invadente: il cicaleccio delle comari scandalizza i clienti del ristorante dell’hotel in cui esse si sono date appuntamento per il tè e in cui Fenton è uno dei camerieri. Per non parlare del Ford travestito da volgare petroliere texano che fa scappare gli altri ospiti. I costumi di Brigitte Reiffenstuel sono capolavori di realismo e ironia, soprattutto quelli delle donne.

L’attualizzazione di Carsen funziona a meraviglia ed è perfettamente integrata nella sua ironica lettura. Nel secondo atto il paravento non c’è, ma la tovaglia del tavolo della cucina serve perfettamente come nascondiglio per i due giovani. E come fare col liuto con cui si accompagna Alice? Va benissimo una radio a transistor! Prima il sacco di monete di Ford era diventato una più moderna valigetta di banconote, tanto il tintinnio dei pezzi di metallo è nella musica! Ogni nota della partitura trova un esatto corrispettivo visivo in questa attentissima regia.

Questa era la 56esima volta che James Levine affrontava l’ultima opera di Verdi. Dopo il lungo periodo di inattività per motivi di salute, il maestro è ritornato con baldanza sul podio e la sua è una direzione orchestrale che ha stupito per freschezza, vivacità, senso della musica e tenuta nelle difficili pagine contrappuntistiche. Nel fluido canto di conversazione Ambrogio Maestri si dimostra il Falstaff par excellence dei nostri tempi, il personaggio che ha portato in scena più volte. Degno concorrente della sua imponente presenza fisica è Stephanie Blythe, vocalmente autorevole e scenicamente auto-ironica Mistress Quickly. Sontuosa la vocalità di Angela Meade (Alice), forse troppo, e vivace la Meg di Jennifer Johnson Cano. Lisette Oropesa e Paolo Fanale formano l’adorabile coppia di giovani amanti. Discutibile il Ford di Franco Vassallo la cui interpretazione vocale è spesso sopra le righe e manca di finezza. Carlo Bosi delina da par suo un dott. Caius da caricatura senza eccessi, mentre Keith Jameson e Christian van Horn formano un Bardolfo e un Pistola da antologia, tra i migliori mai visti e sentiti in scena.

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