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Nicola Porpora, Germanico in Germania
Cresce l’interesse per l’opera seria settecentesca: dopo Händel, Vivaldi, Hasse e Vinci, anche Porpora guadagna i favori dei teatri d’oggi. Il compositore napoletano era nato nel 1686 e aveva debuttato nella sua città natale con un’Agrippina presentata a Corte nel 1708. Fino al 1721 si era fatto notare come maestro di canto al Conservatorio San Onofrio della sua città, istruendo le voci più famose del tempo e tra il 1726 e il 1733 fu a Venezia quale “maestro delle figlie” nell’Ospedale degli Incurabili mentre è a Roma che avvenne la prima del suo Germanico in Germania al Teatro Capranica l’11 febbraio 1732.
Su libretto dell’abate Niccolò Coluzzi dedicato al cardinale Pietro Ottoboni, la vicenda narra di Nerone Claudio Druso diventato l’imperatore Germanico dopo la vittoriosa campagna di Germania del 10-13 d.C. Immersa nella storia c’è però una famiglia coi suoi drammi: un capo germanico che è sceso a patti con gli invasori romani, due figlie in discordia perché una è innamorata di un nemico e l’altra rinfaccia al padre il suo tradimento.
Atto I. Rosmonda dice a suo marito, Arminio, capo dei Germani, che suo padre Segeste ha tradito e consegnato la città ai Romani; Arminio parte per il campo a pianificare un contrattacco. I romani entrano in città, ma Rosmonda sfida il loro leader Germanico e rimprovera Segeste per il suo tradimento. Germanico ordina al capitano Cecina di incontrare Arminio e offrirgli la pace. Cecina, avvertito da un sogno, rifiuta, così Segeste si offre di andare al suo posto. Germanico rimprovera Cecina per la sua debolezza. Ersinda, sorella di Rosmonda e amata da Cecina, lo rassicura che lei gli è fedele quanto lo è a Roma e al padre. Nella tenda di Arminio, Segeste gli dice che si è alleato con i Romani per evitare spargimenti di sangue e distruzione, ma Arminio risponde con orgoglio che, per amore della libertà, preferirebbe morire. Anche Ersinda cerca di convincere Rosmonda dei vantaggi di diventare romana, ma invano. Germanico la prende in giro dicendo che Arminio accetterà i suoi termini di pace, ma Rosmonda lo disprezza e giustamente perché ora Segeste annuncia che Arminio ha effettivamente rifiutato tutte le aperture. Germanico si prepara alla battaglia. Segeste si rammarica che solo una delle sue figlie gli sia rimasta fedele. Rosmonda rimane sola con i suoi sentimenti contrastanti.
Atto II. Nella battaglia Arminio è sconfitto e pensa al suicidio, ma viene catturato da Cecina. Rosmonda ed Ersinda si preoccupano per la sorte dei loro cari. Segeste ritorna, annuncia la sconfitta e la cattura di Arminio e rimprovera ulteriormente Rosmonda. Germanico guida Arminio in una processione trionfale. Rosmonda desidera morire con suo marito, ma Arminio le dice che deve vivere per prendersi cura del figlio. La riunione di Ersinda e Cecina è felice. Segeste dice a Germanico che avendo il figlio sotto la sua cura può convincere Rosmonda a giurare fedeltà a Roma. Quando viene condotto Arminio, sfida Germanico, così come Rosmonda. Germanico condanna a morte Arminio.
Atto III. Segeste persuade l’ormai vacillante Germanico che Arminio deve morire. Rosmonda ora supplica Germanico per la vita del marito, chiedendogli di poterlo visitare in prigione: forse, se vede la sua angoscia, si sottometterà. Sia Ersinda che Segeste sono turbati dalla sua evidente angoscia, ma non osano aiutarla. Germanico, e poi Cecina, dicono a Ersinda che deve ancora aspettare prima che il suo amore si compia, ma lei non può sopportare il ritardo. In prigione, Arminio si lamenta del suo destino ed è indignato quando Rosmonda, accompagnata da Segeste, lo supplica di fare pace con i romani. Rosmonda dice a suo padre che tutto ciò che ha detto è stato solo uno stratagemma per scoprire la vera profondità del patriottismo di Arminio: ora è rassegnata alla sua morte. Segeste li lascia a cantare un triste addio. Tutti ora si riuniscono per assistere alla morte di Arminio, che accoglie con favore la fine della sua sofferenza. Bacia l’altare e l’ascia sacrificale e maledice il potere di Roma. Impressionato dalla sua orgogliosa sfida, Germanico chiede ad Arminio se gli piacerebbe vedere suo figlio prima di morire. L’orgoglioso addio di Arminio commuove Germanico, e quando Rosmonda minaccia di uccidersi, lui cede: l’orgoglio di Arminio non supererà la sua misericordia. Non morirà, ma sarà portato a Roma come amico di Roma o come prigioniero, deve decidere. Appellandosi agli dèi, Arminio seppellisce la sua inimicizia e tutti lodano l’unione del Reno con il Tevere.
«L’idea dell’autore era di terminare il presente Drama col fine tragico, ma per accomodarsi al gusto del moderno Teatro, glielo dà lieto» si scusa il librettista. E in effetti il finale è quanto mai posticcio dopo tanto discutere di orgoglio patrio.
Lo spettacolo originale ebbe un cast napoletano e tutto maschile in osservanza al divieto papale di ammettere donne sulle tavole dei palcoscenici. Le parti femminili furono affidate a giovani cantori, Angelo Maria Monticelli (Rosmonda) e Felice Salimbeni (Ersinda), mentre due tra i più acclamati castrati dell’epoca furono utilizzati nelle parti di Germanico e Arminio: rispettivamente il Domenichino (Domenico Annibali) e il Caffarelli (Gaetano Majorana), quest’ultimo allievo di Porpora. Completarono il cast il sopranista Agostino Fontana (Cecina) e il tenore Felice Checacci (Segeste). Fu il trionfo dell’opera napoletana, una novità nel conservatore panorama romano, e Germanico ebbe ai suoi tempi un grande successo prima di cadere nell’oblio.
Equamente distribuiti tra i personaggi sono i quasi trenta pezzi musicali: cinque arie per Rosmonda ed Ersilia, quattro per Germanico, Arminio e Cecina, tre per Segeste, il quale però ha per sé un recitativo accompagnato, come Rosmonda mentre Arminio ne ha due, il secondo particolarmente bello. Assieme alla sinfonia tripartita, un duetto, un terzetto e il coro finale si arriva a 3 ore e 40 minuti di musica. Non c’è evoluzione dei personaggi, che rimangono psicologicamente immutabili fino alla fine: dei sei personaggi tre sono “amici di Roma” e tre nemici, ci sono contrasti tra padre e figlia e tra sorelle, ma il tutto è solo occasione per sfoggio di meraviglie vocali. Un settimo personaggio è il figlioletto di Rosmunda e Arminio, personaggio muto che la madre così descrive al padre per convincerlo a non morire: «Dunque morir vorrai, | né crescer mirerai l’amato figlio, | che mostra già ne’ fanciulleschi giochi | la grand’alma d’Arminio aver nel seno; | ei scherza ognor tra aste, e le bandiere, | e si legge negli occhi il bel desio, | che colla voce palesar non puote, | di gire incontro a mille armate schiere. | Gode veder di sangue aperti, e tinti, | elmi ed usberghi, ed in quel sangue intride | la bianca mano, e al minaccioso lume | dell’elmo, si vagheggia, e ride.» Chissà che cosa ne avrebbe detto Maria Montessori…
In tempi moderni Germanico in Germania è stato presentato alle Innsbrucker Festwochen der Alten Musik del 2015: cinque ore e mezza di spettacolo nella messa in scena di Alexander Schulin e la direzione musicale di Alessandro de Marchi alla guida della Accademia Montis Regalis. Nel cast il mezzosoprano Patricia Bardon (Germanico) e il controtenore David Hansen (Arminio).
Qui con la Capella Cracoviensis diretta da Jan Tomasz Adamus, la parte di Germanico è affidata a un controtenore e quella di Arminio a un mezzosoprano, invertendo quindi i generi dei due personaggi maschili principali. L’esecuzione registrata è stata il fulcro del Festival Opera Rara di Cracovia del 2017. La direzione musicale è di grande vivacità e l’orchestra dimostra ottima competenza pur con le evidenti difficoltà dei corni e nel talora farraginoso continuo che accompagna i lunghissimi recitativi qui totalmente mantenuti – c’è un solo taglio: l’ultima aria di Arminio prima del tutti finale.
Cast di eccellenza quello messo in campo. Germanico ha in Max Emanuel Cenčić un interprete autorevole anche se qui è meno pirotecnico del solito e l’aria di bravura «Qual turbine» è altrove affrontata con ancor maggior cipiglio. Il nemico Arminio è nelle mani e nella voce di Mary-Ellen Nesi, convincente ma non esaltante, che ha a disposizione l’aria più lunga dell’opera, quel «Parto. Ti lascio, cara» che sfiora gli undici minuti.
Julia Ležneva è l’interprete migliore per tecnica e stile: la sua Ersinda è l’ingenua entusiasta di Roma: «degli uomini splendor, piacer de’ Numi, | la veneranda maestate, i riti, | i placidi costumi, | e l’ampie strade, e le superbe moli | d’ostro lucente e d’oro, | i senatori, i sacerdoti, i Tempj, | gli archi, i teatri, il Campidoglio e i foro». In forte contrasto è la sorella maggiore e sposa di Arminio, Rosmonda, che invece dichiara: «Me della Patria alletta il sacro orrore, | non la beltà di Roma, e lo splendore: | quel che m’affligge ogn’ora. | onde traggo ogni dì l’ore infelici | è, che scelta tu sei | la stirpe a propagar de’ miei nemici». L’interprete Dilyara Idrisova dimostra eccellente vocalità, eleganza ed espressività. Segeste è Juan Sancho, il tenore spagnolo nel tempo non è migliorato nel timbro, il temperamento è come sempre generoso ma ha acquisito più agilità vocale. Hasnaa Bennani completa degnamente il cast come Cecina. Dizione talora un po’ imprecisa – nessun interprete è italiano – ma l’operazione è sommamente lodevole per aver fatto conoscere nella sua completezza questo importante lavoro.
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