Arrigo Boito

Falstaff

foto © Roberto Ricci

Giuseppe Verdi, Falstaff

★★★☆☆

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Parma, Teatro Regio, 1 ottobre 2017

Un Falstaff umano, molto umano

La città di Parma organizza ogni anno un Festival per celebrare il suo figlio più insigne, Giuseppe Verdi. Per quasi un mese rappresentazioni d’opere, concerti, spettacoli vari, conferenze e incontri esaltano la maggior figura del teatro musicale italiano.

Il suo ultimo lavoro, Falstaff, viene ora allestito nel bellissimo teatro d’opera della città, una sala di oltre mille posti risalente alla prima metà dell’Ottocento ed elegantemente decorata. Il Teatro Regio è considerato uno dei veri rappresentanti della grande tradizione operistica italiana ed è la sede dei temuti loggionisti, appassionati di lirica che si considerano custodi dell’eredità verdiana. Ma non c’è stata alcuna contestazione da parte di questo manipolo di appassionati alla prima di una produzione che, pur nella modernità, non si è scostata da una consolidata consuetudine rappresentativa che non ha fatto mancare nulla alle aspettative del pubblico tradizionale: la pancia di Falstaff, la cesta e l’acqua del Tamigi, le corna dell’ultimo atto.

Nell’allestimento di Jacopo Spirei il sipario rappresenta una bandiera britannica probabilmente usata come tovaglia: macchie e segni dei bicchiere lasciati sulla sua superficie ci ricordano ironicamente la propensione al bere e al mangiare copiosamente del protagonista. Lo stesso sipario calerà ad ogni cambio di scena, purtroppo, con lunghi momenti di attesa che diluiscono il ritmo di questa «corsa folle verso la sua conclusione», come la definisce il regista. Appena Falstaff entra in scena il pavimento della sua camera alla taverna della Giarrettiera cede per il peso e questo elemento obliquo impronterà tutta la scenografia dell’opera, con case e strade sbilenche: una città squilibrata dalla presenza del personaggio che vede crollare il mondo al di fuori di sé. È questa la chiave di lettura scelta dal regista che punta poco sull’aspetto grottesco e umoristico della figura di Falstaff, per sottolineare invece il futile ambiente borghese che non sa far altro che inventare burle grossolane per riderne sgangheratamente, salvo poi alla fine scoprire di essere quello burlato.

Le scenografie di Nikolaus Webern alternano gli interni della camera di Falstaff, con la pila di piatti sporchi e le scarse suppellettili, a quelli della casa di Ford, con il suo mobilio borghese – il caminetto, la libreria, le abat-jours, i tappeti e i ritratti alle pareti damascate. Per la scena finale le facciate delle case si sollevano per rivelare il verde del parco di Windsor, qui un modesto giardino urbano immerso nel funzionale gioco luci di Fiammetta Baldiserri. La contemporaneità dell’Inghilterra di oggi è affermata dal rassicurante ritratto della novantenne Regina sulla parete della camera di Falstaff e dai costumi di Silvia Aymonino, con Fenton in kilt di pelle e Mrs. Quickly in giubbotto nero e vestitino zebrato. In questa ambientazione borghese Falstaff per la sua impresa galante non uscirà ingallonato e impennacchiato come abbiamo visto in cento altre produzioni, ma smetterà l’informe maglione, i pantaloni a sacco e le lerce scarpe da tennis per indossare un impeccabile completo blu che su di lui muove al sorriso solo per la grandezza della taglia.

Non è la prima volta che Roberto de Candia affronta il ruolo titolare e neanche questa volta il baritono ha accentuato il ruolo caricaturale del personaggio, sfruttando le qualità della sua voce per delinearnee invece il tono crepuscolare. Il suo canto è espressivo piuttosto che magniloquente e i momenti migliori sono quelli del ripiegamento su sé stesso, come quando, ancora infreddolito dall’inopportuno bagno nel Tamigi, si conforta con un bicchiere: «Ber del vin dolce e sbottonarsi al sole, dolce cosa!». In una precedente produzione fiorentina de Candia aveva affrontato sia il ruolo titolare sia quello di Ford a serate alterne, un’impresa affascinante e difficile. Qui a Parma il ruolo del marito geloso è invece stabilmente affidato al 37enne Giorgio Caoduro che ha esibito le sue eccellenti qualità vocali, il timbro chiaro e squillante, la perfetta padronanza dell’intonazione e le doti interpretative che lo rendono uno dei più rinomati baritoni italiani di oggi. Ancora una voce dal registro caldo è quella di Sonia Prina, debuttante nella parte di una Mrs. Quickly che qui non nasconde una sua debolezza per il corposo cavaliere. Il contralto che molte volte abbiamo visto interpretare personaggi en travesti nelle opere settecentesche, porta in scena le sue speciali capacità attoriali e una maestria vocale che delineano con efficacia il ruolo della simpatica imbrogliona la cui comicità non trascende però mai nel caricaturale. La moderna coppia di giovani innamorati è qui formata dalla Nannetta di Damiana Mizzi e dal Fenton di Juan Francisco Gatel, entrambi a loro agio nella liricità dei loro interventi. Amarilli Nizza e Jurgota Adamonyte sono le due mogli che si fanno beffe della libido del cavaliere.

La concertazione di questa commedia in agrodolce è affidata alle esperte mani di Riccardo Frizza che ha saputo ben legare l’orchestra con quanto succedeva in palcoscenico risolvendo con chiarezza i complessi concertati del secondo e terzo atto.

In definitiva si è trattato di un Falstaff non particolarmente rivelatore ma comunque piacevole. Da un festival forse ci si poteva aspettare qualcosa di maggior impatto, ma a quello aveva già pensato Graham Vick con il suo Stiffelio la sera prima…

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Otello

Antonio Muñoz Degrain, Otelo y Desdémona, 1880

Giuseppe Verdi, Otello

★★★★☆

Londra, Royal Opera House, 28 giugno 2017

(live streaming)

Forse l’erede di Domingo in Otello deve ancora arrivare

L’atteso debutto di Jonas Kaufmann nella penultima opera verdiana è dunque avvenuto, smentendo le maligne previsioni che davano per inaffidabile il tenore tedesco. Sul palco della Royal Opera House londinese si è verificata l’epifanica apparizione che non ha deluso, ma nemmeno ha sorpreso più di tanto. Il Moro di Kaufmann è stato esattamente quello che ci si aspettava, complice anche un allestimento estremamente tradizionale pur nella sua minimalista modernità.

Per essere un debutto è comunque stato un signor debutto: tecnicamente ineccepibile, perfettamente intonato, con dinamiche sempre ben controllate (mezze voci, pianissimi…), Kaufmann è cantante dalla grande musicalità, ottima dizione e magnetica presenza fisica – questa enormemente apprezzata dal pubblico femminile e da buona parte di quello maschile – e ha sfruttato al meglio le potenzialità della sua voce usandone intelligentemente i diversi registri. Dal punto di vista interpretativo il suo Otello è un giovane ex-eroe che perde il controllo e la ragione per eccessiva emotività e insicurezza, non ci sono altre profonde implicazioni nella sua interpretazione. La figura manca poi di una maggiore autorevolezza, che sicuramente verrà col tempo. Il suo è un Moro introverso, ripiegato su sé stesso, che accetta passivamente il processo di autodistruzione innescato dal suo “onesto” alfiere ed è coerente con la sua lettura del personaggio il registro scuro scelto dal cantante, piuttosto che i toni squillanti. Encomiabile come sempre la sua fedeltà alle indicazioni dell’autore, tanto che sembra “nuova” la sua interpretazione dopo tanti arbitrii perpetrati dalle grandi voci del passato.

L’altro protagonista – quello che nelle originali intenzioni di Verdi doveva dare il titolo all’opera – è Jago, che tesse i fili della rovina del Moro riducendolo a una marionetta senza energia. All’alzarsi del sipario lo vediamo solo in scena impugnare due maschere, una nera e una bianca. Ed è la bianca che getta a terra spezzandola, mentre solleva sprezzante quella nera, che imporrà a un Otello annientato dalla gelosia nel finale del terzo atto. Nel ruolo abbiamo Marco Vratogna, subentrato all’inizialmente previsto Ludovic Tézier. Probabilmente il baritono francese avrebbe affrontato il suo ruolo limando e togliendo il più possibile da una figura che già nel testo e nella musica ha una presenza teatralmente cospicua, il baritono italiano sceglie invece la strada opposta e declina la lucida perfidia del personaggio non solo nei mille colori della voce (parlato, falsetto, sussurri, ringhi…), ma anche con gli sguardi, le espressioni della bocca, l’uso del corpo – dei tre interpreti è certamente quello con la maggiore fisicità, pur muovendosi meno di Otello. Non nuovo nel ruolo (già affrontato nel 2013 a New York e a Tel Aviv; 2014 a Houston e  2016 a Barcellona) il cantante spezzino ha conteso la scena all’attesa star ricevendo la sua abbondante dose di applausi dal pubblico alla fine della rappresentazione. Applausi che sono stati equamente divisi con Maria Agresta, una Desdemona più lirica che drammatica, che infatti dà il meglio nella canzone del salice e nella preghiera. Anche lei comunque piega la sua voce a colori diversi e non delude nella sua espressiva interpretazione. Efficace è Frédéric Antoun, tenore canadese che delinea un non troppo azzimato Cassio.

Su tutti domina la mano ferma e possente di Antonio Pappano, neanche lui nuovo alla partitura che aveva eseguito qui a Londra nel 2012. Fin dalle prime note della tempesta iniziale si capisce che non sarà una serata musicalmente trascurabile: la vividezza della direzione nei momenti più drammatici si allea alla rarefatta, cosmica pittura orchestrale del finale dell’atto primo, ai sinistri accordi dell’ingresso di Otello nella camera di Desdemona. La musica esce ancora più intensa poiché in scena c’è poco che distragga la vista: la regia di Keith Warner dipana con chiarezza la vicenda facendone di Jago il motore principale ed è lui che talora fa scivolare le enormi quinte nere delle scenografie firmate da Boris Kudlička. Semplici ma efficaci, queste quinte si trasformano nella tenebrosa gabbia che chiude l’anima di Otello ma anche nelle pareti perforate dalla luce di una cattedrale durante il “Credo” di Jago o si scostano per farci vedere l’arrivo della nave di Otello. Alcune trovate teatrali punteggiano l’allestimento: la statua marmorea del leone di san Marco arrivata con gli ambasciatori risulterà spezzata, eco del testo di Boito: «Jago (ritto e con gesto d’orrendo trionfo, indicando il corpo inerte d’Otello) Ecco il leone!». Graffite sulle pareti appaiono talora le parole di Otello e una concessione splatter è il sangue copioso che tinge di rosso le bianche coltri del letto di Desdemona, il muro,  la camicia di Otello. Ma si sa, il sangue fa regia moderna.

Falstaff

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Henry Fuseli, Falstaff in the laundry basket, 1792

Giuseppe Verdi, Falstaff

★★★★☆

Milan, Teatro alla Scala, 2 February 2017

bandieraitaliana1.gif   Qui la versione in italiano

Verdi’s last opera is nostalgically staged by Damiano Michieletto

The 2013 Salzburg production of Damiano Michieletto’s Falstaff finally arrives in Milan, like a devoted message to the city: the Venetian director sets the opera in “Casa Verdi”, the Milanese residence for elderly singers and musicians founded by the composer in 1899 shortly after completing his last work where the old musician sets to music the ludicrous adventures of an old man who does not accept his physical decline and is nostalgic of his times past.

Famous Verdi tunes strummed at the piano introduce us to the Gothic Hall of the nursing home…

continues on bachtrack.com

Falstaff

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Henry Fuseli, Falstaff in the laundry basket, 1792

Giuseppe Verdi, Falstaff

★★★★☆

Milano, Teatro alla Scala, 2 febbraio 2017

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Con Michieletto l’ultima opera di Verdi è all’insegna della nostalgia

Arriva finalmente a Milano la produzione salisburghese del Falstaff di Damiano Michieletto, quasi una dedica alla città, poiché il regista veneziano ambienta la vicenda nella Casa Verdi, residenza milanese per cantanti e musicisti anziani fondata dal compositore nel 1899 dopo aver completato la sua ultima opera dove lui, vecchio musicista, mette in musica le poco gloriose avventure di un vecchio che non accetta la sua decadenza fisica e ha nostalgia del tempo passato.

Le note di famose arie verdiane strimpellate al pianoforte ci introducono nella Sala Gotica dell’attuale casa di riposo, amorevolmente ricostruita sulle tavole del Teatro alla Scala dal bravissimo scenografo Paolo Fantin. Tra le porte che conducono alla adiacente sala da pranzo fa bella mostra di sé sulla parete il famoso ritratto del compositore dipinto da Boldini nel 1886 – cilindro e sciarpa di seta bianca annodata attorno al collo, elegante barba bianca e sguardo penetrante. Anziani in carrozzella o col deambulatore si aggirano per il salone, altri riposano sulle poltrone, tutti affidati alle cure di attente infermiere.

Su un divano dorme un ospite della casa di riposo, un baritono in pensione che sogna il suo glorioso passato di interprete di Falstaff. Dalle finestre entrano, in abiti ottocenteschi, i “fantasmi” dei personaggi dell’opera che tornano a burlarlo in risposta alle sue velleità amorose. Il divano è il suo luogo prediletto: vien portato fuori scena o ci ritorna, sempre a bordo del sofà in tessuto damascato rosso su cui gusta le leccornie che gli porta Mrs Quickly o scola le numerose bottiglie di vino che conciliano la sua attività onirica. Nella scena finale, crudele sarà la burla che gli viene preparata: un finto e lugubre funerale (geniali gli ombrelli neri!) durante il quale viene coperto di terra e foglie. Prima, invece del salto nelle fredde acque del Tamigi, era stato irrorato di coriandoli azzurri.

Anche la storia d’amore di Nannetta e Fenton è vista in parallelo alla tenera relazione tra due anziani ospiti del pensionato, come se fossero gli stessi personaggi visti cinquant’anni dopo – qualcosa di analogo era avvenuto nella messa in scena dello stesso Michieletto ne La donna del lago, ma anche nel recente Werther della Cucchi.

Fatta salva la vicenda dei goffi approcci amorosi e della relativa punizione di Falstaff, lo sguardo di Michieletto tende alla melanconia piuttosto che alla farsa, siamo più nel registro del Rosenkavalier che dell’opera buffa e la sua messa in scena è piaciuta molto al pubblico del teatro milanese, a parte il solito isolato loggionista dissenziente, ma senza quello la Scala non sarebbe la Scala.

L’atmosfera di tenera e affettuosa malinconia è ripresa nell’orchestra. Sul podio è lo stesso Zubin Mehta e la sua lettura ha inusitati toni cameristici che mettono in luce la straordinaria modernità della partitura. Il gioco degli strumentini si affianca al suono quasi quartettistico degli archi e i corni, oltre a sottolineare umoristicamente le “corna” previste per il marito geloso, sanno di lontananze non solo spaziali, ma anche temporali raramente notate.

La concertazione delle voci, essenziale in un’opera come questa che vive del canto di conversazione, è realizzata da una compagnia di voci tutte italiane, con una sola eccezione, che sanno rendere la parola chiaramente e in maniera musicale. L’identificazione di Ambrogio Maestri con Falstaff è ormai leggendaria: non solo sulla presenza fisica (i suoi due metri di altezza e il quintale e mezzo di peso non si può dire che non aiutino), ma anche vocalmente il baritono pavese non solo ha nella voce la potenza e la flessibilità adatti al ruolo, ma ha trovato da tempo i modi giusti per dipingere il personaggio.

Gli fanno degnamente da spalla Massimo Cavalletti come Ford, Francesco Demuro lirico Fenton, Carlo Bosi acido dottor Cajus. Nel reparto femminile sono state particolarmente applaudite l’Alice di Carmen Giannattasio e la Nannetta di Giulia Semenzato.

Mefistofele

Mefistofele - Pfingstfestspiele Baden-Baden 2016 - Erwin Schrott (Mefistofele), Charles Castronovo (Faust), Alex Penda (Margherita), Angel Joy Blue (Elena), Philharmonia Chor Wien, Münchner Philharmoniker, Stefan Soltész (Dirigent)

Arrigo Boito, Mefistofele

Baden-Baden, Festspielhaus, 19 maggio 2016

★★★★☆

(video streaming)

L’intrigante Mefistofele pop di Himmelmann

Il Festival di Pentecoste di Baden-Baden conclude la sua perlustrazione del mito faustiano: dopo il Gounod del 2014 e il Berlioz del 2015 è ora la volta del Mefistofele di Arrigo Boito, opera di rara esecuzione in terra tedesca. Questa eccellente produzione ne spianerà sicuramente la strada ad una maggior popolarità. Dopo quelle di Carsen, ben poche sono le produzioni di Mefistofele che siano risultate convincenti. Questa di Philipp Himmelmann lo è.

Lunghe tende di filamenti argentati formano la semplice scenografia di Johannes Leiacker che ha come contrasto la ricca varietà di costumi di Gesine Völlm. Nel coro ognuno ha una sua individualità, sorprendentemente espressa nel prologo dove in scena si vedono apparire, come anime più o meno beate, personaggi e interpreti usciti dal nostro immaginario cinematografico o (tele)visivo: Charlie Chaplin ed Eliza Doolittle, Marilyn Monroe e Scartlett O’Hara, Elvis Presley e Michael Jackson, Maria Callas e Amy Winehouse, Louis de Funès e Judy Garland, Edith Piaf e Klaus Nomi, e quant’altri riusciamo a riconoscere.

Un enorme teschio, realistico memento mori, troneggia in scena. Le orbite vuote, le narici  sono antri in cui si rifugiano i personaggi, mentre sulla superficie vengono proiettate le intriganti immagini video di Martin Eidenberger: costellazioni, formule matematiche e chimiche, prati fioriti di margherite, repellenti vermi brulicanti che si trasformano in fiamme infernali, paesaggi attraversati in volo, sangue che cola – tutte in perfetto accordo con la musica.

Nella visione del regista il mondo di Mefistofele è uno spettacolo di rivista che ben si addice alla inorganica scrittura del lavoro di Boito, fatto di scene disgiunte prive di un coerente tessuto drammatico. Qui il diavolo è il mattatore di questo spettacolo magniloquente e gli umani sono i malcapitati personaggi del suo trastullo.

Nel ruolo titolare ritorna ancora una volta il basso-baritono uruguayano Erwin Schrott, un cinico e spietato, seducente e beffardo Mefistofele, un po’ androide come il Gigolo Joe di Jude Law in A.I. Artificial Intelligence, il film di Spielberg. In giacca di lamé aperta sul petto tatuato e con la bocca sensuale spesso bloccata in una smorfia di stupore o derisione, Schrott è attore straordinario e cantante spettacolare, anche se la potenza vocale è ottenuta sforzando un po’ nel registro basso. Volume e musicalità eccellenti per il tenore americano Charles Castronovo, Faust, che sfoggia grande sicurezza e squillo quando necessita, ma anche espressive mezze voci. Questa è la sua più convincente interpretazione dopo altre non sempre esaltanti. Con i tempi lentissimi staccati dal direttore in «L’altra notte in fondo al mare» il soprano bulgaro Alex Penda è stata una Margherita drammaticamente sconvolgente e scenicamente toccante. Timbro di velluto per Angel Joy Blue, Elena di sontuosa presenza accompagnata dall’intensa Pantalis di Luciana Mancini. Eccellente il resto del cast, ma sono il Coro Filarmonico di Vienna e il coro di voci bianche Cantus Juvenum Karlsruhe che meritano grandi lodi. Possente e individualizzato in ottimi attori il primo, preciso il secondo.

Il direttore ungherese Stefan Soltész mette in evidenza la ricca scrittura strumentale del lavoro e passa agilmente dall’enfasi delle parti corali all’intimismo dei numeri solistici. Il suo gesto è ben assecondato dall’orchestra dei Münchner Philharmoniker.

Mefistofele - Pfingstfestspiele Baden-Baden 2016 - Erwin Schrott (Mefistofele), Charles Castronovo (Faust), Alex Penda (Margherita), Angel Joy Blue (Elena), Philharmonia Chor Wien, Münchner Philharmoniker, Stefan Soltész (Dirigent) mefistofele1-949x466

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Simon Boccanegra

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Giuseppe Verdi, Simon Boccanegra

★★★★★

Venezia, Teatro La Fenice, 22 novembre 2014

(video streaming)

Serata inaugurale memorabile per La Fenice

Per la stagione della Fenice, anche se è da poco trascorso l’anno del bicentenario verdiano, il compositore di Busseto riceve l’onore di una doppia inaugurazione con due sue opere: il 22 novembre è il Simon Boccanegra, la sera dopo toccherà a La traviata. Entrambe le opere hanno avuto il debutto nella città lagunare a quattro anni di distanza.

Due sono le versioni del Boccanegra. Il 12 marzo 1857 a Venezia andò in scena la prima versione su un libretto che il compositore aveva personalmente steso in prosa affidandone poi la versificazione a Francesco Maria Piave e, a sua insaputa, a Giuseppe Montanelli. Il risultato fu un testo oscuro e cervellotico che scatenò le critiche del tempo. Il Basevi, musicologo del tempo, affermò di averlo dovuto leggere sei volte prima di riuscire a venirne a capo. Nonostante i cantanti di prim’ordine la serata delude Verdi: «Jeri sera cominciarono i guai: vi fu la prima recita del Boccanegra che ha fatto fiasco quasi altrettanto grande che quello della Traviata. Credeva di aver fatto qualche cosa di passabile ma pare che mi sia sbagliato. Vedremo in seguito chi avrà torto». Le sei repliche non bastarono a raddrizzare le sorti di un lavoro dall’intreccio tortuoso e pervaso da una tinta musicale troppo uniforme.

Una revisione della partitura suggerita da Ricordi non incontrava l’interesse di Verdi che solo dopo l’Aida prese in considerazione la proposta che Arrigo Boito gli presentava per la musica del suo nuovo Boccanegra. Con questo nuovo libretto andò in scena alla Scala il 24 marzo 1881 sotto la direzione di Franco Faccio e ottenne un buon successo.

Derivata dal solito Gutiérrez (Simón Bocanegra, 1843), originariamente in quattro atti l’opera venne riscritta in un prologo e tre atti con la sostituzione di un intero quadro (il secondo dell’atto primo), l’eliminazione del preludio (in luogo del quale Verdi compose una brevissima quanto memorabile introduzione strumentale), la sostituzione del duetto tra Gabriele e Fiesco (atto primo), la composizione di una nuova scena per il personaggio di Paolo (atto terzo) e inoltre un immenso numero di modifiche, tagli, ritocchi, inserzioni. In un tempo molto limitato e sotto la costante supervisione di Verdi Boito apportò le modifiche necessarie al vecchio libretto e avanzò personalmente alcuni validissimi suggerimenti. Per ovvie ragioni (distinguere i nuovi versi dai vecchi sarebbe stato ben difficile) preferì tuttavia non firmare il libretto.

Le vicende si svolgono nel 1339 (Prologo) e 1363. Siamo a Genova, di notte, in una piazza sulla quale si affaccia il Palazzo Fieschi. Il nuovo doge sta per essere eletto e in città si scontrano il partito plebeo, capeggiato dal popolano Paolo Albiani, e il partito aristocratico, legato al nobile Jacopo Fiesco. Paolo confida al popolano Pietro di sostenere l’ascesa al trono dogale di Simone Boccanegra, un corsaro che ha reso grandi servigi alla Repubblica genovese, e di attendersi in cambio potere e ricchezza. Giunge Simone, angosciato perché da molto tempo non ha più notizie di Maria, che gli ha dato una figlia e che per questo è tenuta prigioniera nel palazzo gentilizio del padre Jacopo Fiesco. Paolo convince il recalcitrante Simone ad accettare la candidatura facendogli intendere chiaramente che, una volta eletto doge, nessuno potrà più negargli le nozze con Maria. Pietro chiede al popolo di votare per Simone e avverte che dal palazzo dei Fieschi giungono dei lamenti di donne. Tutti si allontanano. Jacopo Fiesco esce sconvolto dal palazzo: Maria è morta. Sopraggiunge Simone che, ignaro di quanto è accaduto, supplica Fiesco di perdonarlo e concedergli Maria. Quando il patrizio gli pone come condizione la consegna della nipote, egli confessa che la bambina fu da lui affidata ad un’anziana nutrice in un paese lontano, ma poi la nutrice morì e la bambina scomparve. Svanita ogni speranza di riappacificazione, Fiesco finge di allontanarsi ma di nascosto osserva Simone, che entra nel palazzo in cerca della donna che scopre morta. Proprio in quel momento il popolo acclama Simon Boccanegra nuovo doge. Tra il prologo e il primo atto trascorrono venticinque anni e accadono molti fatti: il doge Simone esilia i capi degli aristocratici e Fiesco, per sfuggirgli, vive in esilio sotto il nome di Andrea Grimaldi. Anni prima, la famiglia Grimaldi aveva trovato una bambina nel convento in cui era appena morta Amelia, loro figlia. L’avevano adottata dandole il nome della figlia morta; ma questa orfana, all’insaputa di tutti, altri non è che la vera figlia di Maria e Simone. Trascorsi venticinque anni, Amelia ama riamata un giovane patrizio, Gabriele Adorno, l’unico in realtà a sapere che Jacopo Fiesco e Andrea Grimaldi sono la stessa persona. Gabriele e Jacopo congiurano contro il doge plebeo.
Atto I. Quadro primo. In giardino Amelia attende Gabriele in riva al mare, immersa nei confusi ricordi della sua fanciullezza e quando il giovane la raggiunge lo supplica di non partecipare alla cospirazione contro Simone. Pietro annuncia l’arrivo del doge e Amelia, temendo che egli venga a chiederla in sposa per il suo favorito, Paolo Albiani, supplica Gabriele di prevenirlo affrettando le nozze. Rimasto solo con Gabriele, Andrea Grimaldi (ossia Jacopo Fiesco) gli rivela che Amelia è in realtà un’orfanella a cui lui e i Grimaldi hanno dato il nome della vera figlia dei Grimaldi e lo benedice. Squilli di trombe annunciano l’entrata del doge, che porge ad Amelia un foglio: è la concessione della grazia ai Grimaldi. La fanciulla, commossa, gli apre il suo cuore confessandogli di amare un giovane aristocratico e di essere insidiata dal perfido Paolo, che aspira alle sue ricchezze. Infine gli rivela di essere orfana. Simone, sentendo la parola orfana, la incalza con le sue domande e confronta un suo medaglione con quello che la fanciulla porta al collo: entrambi recano l’immagine di Maria; agnizione, padre e figlia si abbracciano felici. Al ritorno di Paolo, Simone gli ordina di rinunciare ad Amelia e il perfido uomo, per vendicarsi, organizza per la notte successiva il rapimento di Amelia. Quadro secondo. Nella Sala del Consiglio nel Palazzo degli Abati il Senato è riunito e il doge chiede il parere dei suoi consiglieri: egli desidera la pace con Venezia, ma Paolo e i suoi chiedono la guerra. Dalla piazza giungono i clamori di un tumulto e, affacciandosi al balcone, Simone scorge Gabriele Adorno inseguito dai plebei. Pietro, temendo che il rapimento di Amelia sia stato scoperto, incita Paolo a fuggire, ma il doge lo precede ordinando che tutte le porte siano chiuse: chiunque fuggirà sarà dichiarato traditore. Poi, incurante delle grida della folla contro di lui, fa entrare il popolo. La folla irrompe trascinando Fiesco e Gabriele, il quale confessa di aver ucciso il plebeo Lorenzino che aveva rapito Amelia per ordine di un «uom possente». Supponendo che costui sia Simone, si slancia contro di lui per colpirlo. Sopraggiunge Amelia, si frappone supplicando il padre di salvare Adorno e raccontando di essere stata rapita da tre sgherri, di essere svenuta e di essersi ritrovata nella casa di Lorenzino. Poi, fissando Paolo, dice di poter riconoscere il vile mandante del rapimento. Scoppia un tumulto, patrizi e plebei si accusano a vicenda, Simone rivolge all’assemblea e al popolo un accorato discorso, invocando pace. Gabriele gli consegna la spada ma il doge la rifiuta e lo invita a rimanere agli arresti a palazzo finché l’intrigo non sia svelato. Si rivolge quindi a Paolo, di cui ha intuito la colpevolezza, e lo invita a maledire pubblicamente il traditore infame che si nasconde nella sala. Paolo, inorridito, è in tal modo costretto a maledire sé stesso.
Atto II. Nella stanza del doge, nel Palazzo ducale di Genova, Paolo chiede a Pietro di condurre da lui i due prigionieri, Gabriele e Fiesco, e versa una fiala di veleno nella tazza di Simone. Non contento, chiede a Fiesco, l’organizzatore confesso della rivolta, di assassinare il doge nel sonno e, davanti al suo sdegnato rifiuto, lo fa riportare in cella e insinua in Gabriele il sospetto che Amelia si trovi in balia delle turpi attenzioni di Simone. Quando giunge Amelia, il giovane l’accusa di tradimento con il doge, di cui uno squillo di tromba annuncia l’arrivo. Gabriele si nasconde, Amelia in lacrime confessa al padre di amare l’Adorno e lo supplica di salvarlo. Simone, combattuto fra i doveri della sua carica e il sentimento paterno, la congeda. Beve quindi un sorso dalla tazza, notando che l’acqua ha un sapore amaro, e si assopisce. Gabriele esce dal suo nascondiglio e si slancia contro di lui per colpirlo, ma ancora una volta Amelia glielo impedisce. È il momento della rivelazione: il doge si risveglia, ha un violento scontro verbale con Gabriele, che l’accusa di avergli ucciso il padre, e infine gli svela che Amelia è sua figlia. Il giovane implora Amelia di perdonarlo e offre al doge la sua vita. Di fuori giungono rumori di tumulti e voci concitate: i cospiratori stanno assalendo il Palazzo. In segno di riconciliazione il doge incarica Gabriele di comunicare loro le sue proposte di pace e gli concede la mano di Amelia.
Atto III. Siamo all’interno del Palazzo ducale. La rivolta è fallita, il doge ha concesso la libertà ai capi ribelli, solo Paolo è stato condannato a morte. Mentre si reca al patibolo, egli rivela a Fiesco di aver fatto bere a Simone un veleno che lo sta lentamente uccidendo e ascolta con orrore le voci che inneggiano alle future nozze di Amelia e Gabriele. Giunge Simone, che sta cercando refrigerio al malessere che già lo pervade respirando l’aria del mare. All’improvviso gli si avvicina Fiesco che gli annuncia che la sua morte è vicina. Da quella voce inesorabile, dopo averlo osservato bene in volto, Simone riconosce con stupore l’antico nemico, ch’egli credeva morto, e con un gesto magnanimo decide di rivelargli che Amelia è sua nipote. La commozione invade l’anima del vecchio patrizio, che troppo tardi comprende l’inutilità del suo odio. Un abbraccio pone fine alla lunga guerra. Quando il corteo degli sposi torna dalla chiesa, Simone invita la figlia a riconoscere in Fiesco il nonno materno, benedice la giovane coppia e muore dopo aver proclamato Gabriele nuovo doge di Genova.

Qui la versione scelta da Myung-Whun Chung a capo dell’orchestra del teatro veneziano è quella definitiva del 1881. In questo allestimento la regia e le scene sono firmate da Andrea de Rosa e i costumi da Alessandro Lai. Suggestivo il prologo immerso nel buio, la madonnina illuminata dal cero, il mare scuro, i costumi neri e quell’unica macchia chiara che è il cadavere di Maria. Nell’atto primo l’aurora porta finalmente un po’ di luce che filtra attraverso un’elegante bifora gotica che incornicia il fondo del mare realizzato con proiezioni video di Pasquale Mari che cura anche le suggestive luci. La scena unica si arricchisce ogni volta di altri elementi architettonici per suggerire i diversi ambienti, ma sempre presente sarà l’elemento liquido cui anela Simone, ma che gli resta precluso dal ruolo di potere che ha dovuto accettare suo malgrado. La regia è attenta alla interazione dei personaggi, ai loro sguardi, alla sobria gestualità.

Cast di grande livello. L’appena trentenne Simone Piazzola è Simone, debuttante nella parte e a suo agio nella sofferta maturazione tra il prologo e il primo atto, perfetto. Maria Agresta e Francesco Meli, entrambi vincitori del Premio Abbiati 2014, prestano le loro voci per i giovani Amelia e Gabriele, Giacomo Prestia è ormai il Fiesco di riferimento, Julian Kim il perfido ma complesso Albiati.

Ottima prova quella del concertatore e direttore d’orchestra Myung-Whun Chung: incalzante ma attento alle sfumature e ai colori dell’orchestrazione ha lasciato un ricordo memorabile della sua lettura ed è quello che ha avuto le maggiori ovazioni dal pubblico.

Nerone

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Arrigo Boito, Nerone

direzione di Nikša Bareza

regia di Petar Selem

1989, Palazzo di Diocleziano, Split

Opera postuma di Arrigo Boito, Nerone è la sua seconda di cui abbia scritto sia il libretto sia la musica, la prima essendo il Mefistofele. Nel 1884 il compositore scriveva: «Per mia disgrazia ho studiato troppo la mia epoca (cioè l’epoca del mio argomento). […] Terminerò il Nerone o non lo terminerò, è certo che non lo abbandonerò mai per un altro lavoro e se non avrò la forza di finirlo non mi lagnerò per questo e passerò la mia vita, né triste né lieta, con quel sogno nel pensiero». Rimasto incompiuto per la morte dell’autore, Nerone fu rappresentato alla Scala il 1º maggio 1924, sei anni dopo la sua scomparsa, ottenendo un grandissimo successo, anche se in seguito fu rappresentato molto raramente.

«Cinquantasei anni trascorsero tra il primo segnale del progetto Nerone (una lettera di Boito al fratello Camillo del 19 aprile 1862) e la morte del suo autore, che lasciò l’opera incompleta nell’orchestrazione. Un enorme arco di tempo, che probabilmente non ha eguali nella storia dell’opera e che la dice lunga sui problemi e sulle incertezze che caratterizzarono il Boito post-Mefistofele. In questi cinquantasei anni Boito mise a punto un’impressionante mole di materiale preparatorio (abbozzi musicali, appunti e iconografia su scene e costumi, schede su personaggi e situazioni drammatiche, taccuini di lessico e metrica e persino un intero trattato di armonia concepito ad hoc), utilizzando fra l’altro, in maniera capillare, un’amplissima bibliografia, che va dai più importanti storici latini (Tacito, Svetonio) fino agli studiosi del suo tempo (Renan, Mommsen). L’opera, progettata originariamente in cinque atti, fu ridotta a quattro negli anni Dieci, dopo la pubblicazione della tragedia in versi (1901), nella quale è presente anche il quinto atto. Al completamento dell’orchestrazione lavorarono Tommasini e Smareglia, sotto la supervisione di Toscanini, che fu anche il direttore della prima rappresentazione. Lo sfarzosissimo allestimento del Nerone, con le scene e i costumi disegnati da Lodovico Pogliaghi seguendo le minuziose indicazioni lasciate da Boito stesso, fu uno dei massimi esiti della scenotecnica scaligera del primo Novecento». (Susanna Franchi)

Atto primo. La via Appia. La vicenda vive soprattutto della contrapposizione tra il mondo pagano in disfacimento e il nascente mondo cristiano. Nerone, allontanatosi da Roma dopo il suo matricidio, cerca conforto nei riti di Simon Mago, ma viene atterrito e messo in fuga dall’ apparizione dello spettro di Asteria. Simon Mago pensa di usare Asteria, che è follemente attratta da Nerone, contro lo stesso imperatore. Poco lontano, la preghiera della giovane Rubria viene interrotta dall’apostolo cristiano Fanuèl, che la esorta a confessare il peccato che la opprime. Il dialogo viene interrotto da Simone, che offre dell’oro a Fanuèl in cambio dei suoi miracoli, ricevendone invece una maledizione. Nerone ritorna e Tigellino gli annuncia che tutto il popolo romano sta sopraggiungendo per riportarlo in trionfo nell’Urbe.
Atto secondo. Nel tempio di Simon Mago. Per piegare Nerone alle sue ambizioni, dopo esser ricorso a vari stratagemmi Simon Mago gli fa comparire dinanzi Asteria in veste di dea; ma quando la giovane si china sull’imperatore per baciarlo, questi si accorge di avere fra le braccia una donna: nella sua furia inarrestabile devasta allora il tempio, scoprendo i trucchi di Simon Mago, che viene arrestato dai pretoriani e condannato a morire nel circo.
Atto terzo. I cristiani sono riuniti in preghiera sotto la guida di Fanuèl, quando giunge Asteria, fuggita dalla fossa delle serpi in cui era stata fatta gettare da Nerone, per avvertirli che anch’essi sono stati condannati dall’imperatore. Simon Mago guida i soldati romani fino a loro; Fanuèl, arrestato, chiede ai confratelli di pregare mentre viene condotto via.
Atto quarto. Quadro primo: l’oppidum. Nel circo Massimo. Simon Mago viene avvertito dell’imminente incendio della città, appiccato per favorire la sua fuga; anche Nerone ne è a conoscenza, e anzi se ne allieta con Tigellino. Quando i cristiani vengono condotti a forza nell’arena, una vestale velata chiede pietà per loro, ma Nerone, fattole strappare il velo da Simone, riconosce Rubria, segnando così la sua condanna. Simon Mago, forzato a volare da Nerone, si schianta al suolo proprio mentre l’annuncio dell’incendio provoca un fuggi fuggi generale. Quadro secondo: nello spoliarium del Circo Massimo. Nel sotterraneo del circo, dove si depongono i morti, Fanuèl e Asteria cercano Rubria. La giovane, ormai in fin di vita, confessa finalmente a Fanuèl il suo peccato, quello di aver servito un falso dio come vestale e contemporaneamente gli svela il suo amore. Fanuèl le dà il perdono cristiano e la dichiara sua sposa; Rubria muore e Fanuèl fugge con Asteria dallo spoliarium in fiamme.

Se nella seconda metà del secolo passato si contano importanti incisioni italiane (Toscanini 1948, Capuana 1957, Gavazzeni 1975), più recentemente sono gli stranieri ad essersi interessate all’opera, come Eve Queler con l’Orchestra di Stato Ungherese (1983) per una registrazione Hungaroton, o Nikša Bareza per una esecuzione del 14 luglio 1989 nel Palazzo di Diocleziano di Spalato il cui video è disponibile su youtube.

Amleto

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Franco Faccio, Amleto

★★★☆☆

Bregenz, Festspielhaus, 20 luglio 2016

(video streaming)

L’Amleto più scespiriano

Tre anni prima di quello di Thomas (1), al Carlo Felice di Genova il 30 maggio 1865 debutta l’Amleto di Franco Faccio, opera in quattro atti su libretto di Arrigo Boito. Nonostante il buon successo il lavoro non decolla: deve aspettare sei anni, sensibilmente rimaneggiato, per riapparire sulle scene nella ripresa alla Scala del 9 febbraio 1871 ed è un fiasco memorabile, in parte dovuto alla cattiva esecuzione, in parte al pubblico ostile a due vessilliferi dell’“arte dell’avvenire”, quali si consideravano Faccio e Boito, artisti della scapigliatura. L’insuccesso convince Faccio ad abbandonare la carriera di compositore per dedicarsi alla meglio avviata carriera di direttore d’orchestra; né vorrà in seguito, al culmine della sua fama, acconsentire a una ripresa dell’opera, su cui scese l’oblio. Solo la musica del funerale di Ofelia è talora proposta in qualche concerto sinfonico.

Il compositore veronese studia musica a Milano, frequenta assieme ad Arrigo Boito ed Emilio Praga il salotto di Andrea Maffei e grazie alla moglie Chiara viene presentato a Verdi. Inizialmente il compositore di Busseto lo accoglie tiepidamente, anche a causa dei diversi gusti musicali e delle tendenze wagneriane e antitradizionali del giovane, ma in futuro ne farà il proprio direttore d’orchestra di fiducia facendogli dirigere la prima rappresentazione italiana dell’Aida (1872) e dell’Otello (1887). Faccio diventa così il più grande e celebrato direttore d’orchestra dell’epoca in Italia. Suo grande merito è quello di aver contribuito a promuovere la musica sinfonica europea.

Amleto non è la sua prima opera: a parte Il Fornaretto (1857) e Ines de Castro (1859), che però non furono mai rappresentate, nel ’63 aveva composto I profughi fiamminghi su libretto di Emilio Praga, andato in scena alla Scala con esito mediocre.

Il libretto di Arrigo Boito, primo lavoro pubblicato e prodromo alle successive esperienze verdiane di Otello e Falstaff, è sperimentale e scapigliato al massimo grado («Con impaziente foja abbandonava la sposa del magnanimo defunto nell’adre braccia di quel drudo! […] All’arsiccio gorgozzule bramoso una felice innaffïata […] Eccovi tutto grullo e incamuffito!»), compie una ingegnosa sintesi del dramma scespiriano condensandone in quattro atti i cinque verbosissimi dell’Amleto, il più lungo dei drammi del Bardo ed è molto intenso e cupo lasciando grande spazio alle “follie” di Amleto e Ofelia.

Atto primo. Una musica di carattere solenne e maestoso con squilli di trombe introduce la scena iniziale che si svolge nella gran sala reale del castello di Elsinora dove la corte sta festeggiando l’incoronazione del nuovo re Claudio; Amleto sta in disparte in atteggiamento contrariato non disdegnando il suicidio, al quale darebbe corso se non fosse un peccato, e pensando al padre morto in modo misterioso solo da un mese. Il clima di festa prende il sopravvento e assume le movenze di un vorticoso valzer nel quale si può notare un certo accento viennese, quasi straussiano. Subito dopo uno squarcio di puro lirismo si apre nella sortita di Ofelia la cui purezza è espressa dai chiari timbri dei legni che intonano il tema della sua aria in cui la fanciulla, innamorata del principe, lo invita a non essere triste e a credere nell’amore. Il re propone ad Amleto un brindisi in onore dei defunti per distoglierlo dalla sua tristezza il cui testo di carattere dualistico con la contrapposizione tra il mesto Requie ai defunti e lo spensierato «E colmisi d’almo liquor la tazza» è reso da Faccio con una contrapposizione di timbri, scuri i primi (clarinetto e fagotto), chiari i secondi (tutti), di tempi (2/4 contro 3⁄4), ed armonie che accompagnano una melodia orecchiabile in cui si avverte la tradizione del melodramma italiano. Quando la festa sta per terminare, egli è avvicinato dall’amico Orazio e da Marcello, una guardia che gli racconta di aver visto il fantasma del defunto re. In questo passo, il cui carattere tenebroso viene squarciato dalla spensieratezza di Laerte che invita tutti a bere e dal tema della successiva orgia, qui accennato dalla banda, non mancano le influenze verdiane soprattutto nell’orchestrazione del tema che accompagna il dialogo intrattenuto da Amleto con Orazio e Marcello, dove sono evidenti i debiti nei confronti del duetto tra Rigoletto e Sparafucile del primo atto del Rigoletto. Mentre Amleto e i suoi amici si allontanano, si scatena l’orgia. Scena seconda. Introdotti da un breve preludio caratterizzato inizialmente dal timbro scuro di 4 violoncelli, i tre, avvolti in lunghi mantelli, vanno nel luogo indicato da Marcello dove improvvisamente vedono apparire una figura bianca nel quale Amleto riconosce il defunto padre. Lo spettro gli si avvicina e gli ordina di allontanare i due uomini. Rimasto solo con il figlio, svela con un tono maestoso quasi oracolare la causa della sua morte: nel pomeriggio stava riposando come al solito, quando gli si avvicinò furtivamente il fratello Claudio che gli versò nell’orecchio un liquido di una fiala facendolo morire tra atroci spasimi. Sparito lo spettro, Amleto, sconvolto, promette che avrebbe vendicato il padre e fa giurare ai due amici di non raccontare ciò che hanno visto. Alla fine pregano, su delle misteriose e irrisolte quinte vuote, per l’anima del padre di Amleto.
Atto secondo. Introdotto da un breve preludio strumentale basato su un’unica figurazione ritmica, in una sala del castello, Polonio, che attribuisce la causa della pazzia di Amleto all’amore per Ofelia, propone al re di spiare di nascosto l’incontro fra i due. In quel momento giunge Amleto assorto nei suoi pensieri sulle sorti della vita; il suo monologo si caratterizza per un declamato vibrante che, però, trova un’espansione lirica nel Moderato assai, quasi un cantabile da opera ottocentesca. In quel momento gli si avvicina Ofelia col proposito di offrirgli un dono, ma Amleto rifiuta e tratta la giovane con grande durezza suggerendole di farsi monaca. Anche in questo duetto Faccio delinea i due personaggi con una scrittura vocale diversa: tortuosa quella di Amleto, di puro lirismo quella di Ofelia che, accortasi dello stato di alienazione della persona amata, rivolge a Dio una commovente preghiera. Allontanatasi la giovane pensierosa e dolente, ritorna Polonio per informarlo dell’arrivo di una compagnia di artisti che si sarebbero esibiti nel castello. La scena successiva, in cui ha luogo la rappresentazione, viene introdotta da una musica di carattere solenne che trova il suo punto culminante in una marcia dall’andamento ieratico. Alla rappresentazione Amleto si mostra allegro e molto gentile nei confronti di Ofelia, ma nessuno immagina il motivo di tanta gioia. Gli artisti stanno rappresentando un dramma che tratta dell’assassinio del re Gonzaga da parte del fratello. All’inizio della rappresentazione in un duettino abbastanza tradizionale il re confida alla moglie di sentire prossima la morte, mentre Amleto chiede ad Orazio di scrutare le reazioni del re. Amleto, intanto, dando alla tragedia il titolo “La trappola”, spiega al re che il dramma rappresentato è accaduto a Vienna e che il sorcio, per il quale è stata preparata la trappola, è proprio il re. Poco dopo entra in scena Luciano che, nelle vesti del fratello, si avvicina al re Gonzaga, turbando Claudio il quale, oppresso dal rimorso, manifesta alla regina la paura che si sta impadronendo della sua anima nel vedere la scena che gli ricorda il suo delitto. Nel momento in cui l’attore Luciano versa un liquido nell’orecchio del fratello, Claudio si alza spaventato e interrompe la recita dando la prova ad Amleto della sua colpevolezza. Estremamente raffinata dal punto di vista contrappuntistico, la scena si conclude con una precipitosa scala cromatica discendente, metafora di una discesa agli inferi che coinvolge tutti i personaggi.
Atto Terzo. Introdotto da un breve preludio caratterizzato inizialmente da un tema etereo che si fa più tormentato nel prosieguo del brano strumentale, Claudio, preso dal rimorso, recita il Padre Nostro chiedendo pietà del suo delitto. In quel momento è raggiunto da Amleto, che, armato di pugnale, vorrebbe uccidere lo zio, ma poi preferisce rimandare temendo di mandarlo in Paradiso piuttosto che all’Inferno. La preghiera ha una scrittura armonica diatonica piana turbata da cromatismi pieni di tensione nella conclusione quando il re manifesta il suo tormento. Successivamente la madre raggiunge Amleto il quale, dopo averle rinfacciato il suo incestuoso matrimonio con il fratello del padre, in un raptus di follia sta per ucciderla quando sente delle grida d’aiuto provenire da dietro l’arazzo. È Polonio che si era nascosto lì per ascoltare il dialogo tra madre e figlio e Amleto, credendolo il re, lo trapassa con il pugnale attraverso l’arazzo. Continua poi ad accusare la madre di complicità nell’assassinio e di adulterio nella sezione “lirica” del duetto e, mentre è preso da un attacco di risate isteriche, vede lo spettro del padre che gli ricorda la sua vendetta. L’apparizione è invisibile agli altri e ciò convince la madre che Amleto è folle. Il duetto si conclude con una sezione di intenso lirismo nella quale la madre invita Amleto a ritornare ai teneri dì della dolce calma, mentre lo Spettro chiede di pregare per lui. Rimasta sola, la Regina, inizialmente si fa cogliere dall’ira nei confronti del figlio, ma, presa dal rimorso, si produce nel cantabile agitato dagli accenti verdiani nel quale manifesta il suo desiderio di essere uccisa dal figlio a cui ha arrecato tanto dolore essendosi fatta complice dell’omicidio del padre. La scena conclusiva dell’atto terzo si apre con un breve preludio strumentale nel quale la natura è rappresentata grazie a una scrittura romantica sia attraverso un breve inciso tematico affidato al flauto che sembra riprodurre le voci degli uccelli sia attraverso un tema di ampio respiro melodico affidato agli archi. Quest’atmosfera serena, che rappresenta la lussureggiante vegetazione di una zona del parco di Elsinora attraversato da un ruscello, cede il posto ad una scrittura fortemente caratterizzata in senso percussivo che accompagna i rumori di un tumulto e le voci minacciose di persone che reclamano la morte del re. Tra di loro c’è Laerte che, ritenendo il re il responsabile dell’uccisione del padre, gli si avvicina per vendicarsi, ma, avendo appreso dallo stesso monarca che il vero responsabile della morte di Polonio è Amleto, ne va alla ricerca. Introdotta dal puro suono del flauto che esegue degli arpeggi quasi in fase cadenzante, sopraggiunge Ofelia la quale, in preda alla follia, oltre a piangere la morte del padre, immagina la sua stessa morte e la sua sepoltura nel cantabile pieno di tenero lirismo. Il vaneggiamento di Ofelia non sfugge a Laerte che piange la sorella e in un momento d’ira pronuncia il nome di Amleto che risveglia nella mente della ragazza le parole dell’ultimo colloquio avuto con il giovane amato. Alla fine la ripresa del tema del preludio prefigura una fusione della giovane con la natura e poco dopo, il cadavere di Ofelia, che si è inoltrata tra la vegetazione, è visto galleggiare, circondato da fiori, sulle acque del ruscello.
Atto Quarto. Una breve introduzione strumentale, che, aperta nella tetra tonalità di si minore, si conclude in maggiore, disegna l’interno del cimitero. Una scarna strumentazione, caratterizzata da quinte vuote tenute dai contrabbassi e dai violoncelli che danno un profondo senso d’indeterminatezza a causa della mancanza della terza, accompagna il canto poco rispettoso del luogo sacro di due becchini ai quali risponde la solitaria voce dell’oboe. I due becchini sono spiati da Amleto e Orazio; il principe, dopo essersi prodotto in un’amara considerazione sul cranio dissotterrato dai becchini, chiede ad uno dei due a chi appartenga. Appreso che si tratta del teschio del giullare Yorick, Amleto ricorda la sua infanzia e soprattutto i giochi che faceva con quell’uomo di cui è rimasto un putrido teschio. Nel frattempo, accompagnato da un brano strumentale caratterizzato da un tema malinconico, si avvicina un corteo funebre che induce Amleto e Orazio a nascondersi. Nel corteo, che sta accompagnando la sventurata Ofelia verso l’ultima dimora, ci sono anche il Re, la Regina e Laerte i quali invitano a pregare per la defunta e, se il Re ne tesse le lodi, Laerte si lancia in una violenta invettiva contro Amleto che, come un forsennato, esce dalla zona non illuminata e ingaggia con lui una lotta corpo a corpo. I due sono separati a fatica, mentre alla fine il Re ordina di sorvegliare Amleto. Nella sala d’armi del castello, dove campeggia al centro il trono del re, entra una folla di cavalieri e dame introdotta da un breve preludio caratterizzato da una fanfara che ricorda gli squilli delle trombe che precedevano i tornei medievali. Un araldo espone le regole della tenzone che vede come sfidanti Laerte e Amleto in una gara di scherma che sarebbe stata vinta da chi avrebbe toccato per tre volte per primo l’avversario. I cortigiani e i cavalieri intonano un coro in cui esaltano il re che chiede a Laerte se è stata avvelenata la punta del suo fioretto. Amleto, dopo aver chiesto scusa per la sua temporanea demenza, ingaggia il duello con Laerte toccandolo per primo; il Re finge di festeggiare Amleto invitando il giovane a bere, ma il principe continua il suo assalto colpendo una seconda volta Laerte, mentre la regina beve il vino avvelenato preparato per il figlio prima che il re possa fermarla. Laerte ferisce Amleto con il fioretto avvelenato e a sua volta è ferito da Amleto il quale, dopo averlo disarmato, scambia il fioretto con il suo avversario. Infine, avendo compreso che la madre era stata avvelenata, uccide il re e, sostenuto da Orazio, muore stoicamente. Nella versione approntata per la Scala quest’ultima scena appare tagliata e l’opera si concludeva nel cimitero dove Amleto, dopo aver disarmato Laerte, non lo uccide e si rivolge contro il Re che, in questa versione, era l’unico a morire nel finale.

Faccio infonde nella sua opera una musica mai prevedibile, originale, ma non troppo dissimile da quella di Verdi stesso e con spunti melodici che talora anticipano il Verismo. Di Verdi è anche la concisione dispiegata in pagine di notevole efficacia musicale e drammaturgica: il monologo di Amleto («Essere o non essere! codesta la testi ell’è»), la preghiera di Claudio, il duetto di Amleto con la madre che si trasforma in terzetto con il fantasma del padre, la scena di pazzia di Ofelia, il fulmineo finale. Notevoli sono anche i numeri puramente orchestrali: i due preludi, la musica della marcia funebre, la fanfara che precede l’ultima scena.

Per l’anno scespiriano, al Festival di Bregenz, nella moderna sala della Festspielhaus di fianco alla maggiore Seebühne (quella con la spettacolare grande tribuna affacciata sul lago), Paolo Carignani dirige questo trascurato lavoro che ha tutti i titoli per diventare opera di repertorio. La stampa internazionale ha lodato la proposta di questo sconosciuto piccolo capolavoro che tra il 1871 e oggi ha visto una sola ripresa nel 2014 ad Albuquerque nell’edizione critica di Anthony Barrese.

La messa in scena di Olivier Tambosi teatralizza al massimo la vicenda con il proscenio incorniciato di lampadine come lo specchio dei camerini degli artisti, poi però il teatro nel teatro dei guitti che inscenano “La trappola” è reso in maniera deludente. Ci sono poi alcune ingenuità: lo spettro del padre di Amleto che, vestito da crociato tutto in nero, appare in una luce accecante come il Darth Vader di Star Wars o le piante della scena di Ofelia la quale per un quarto d’ora ci intrattiene sul salice circondata invece da piante tropicali. Il lavoro attoriale funziona solo con alcuni interpreti: Amleto, sempre immerso in un suo soliloquio, ha poca interazione fisica con gli altri personaggi mentre Claudio non sembra abbia ricevuto direzioni su come muoversi; solo le donne hanno una presenza scenica maggiormente efficace.

Le scene minimaliste di Frank Philipp Schlößmann sono funzionali, con largo utilizzo di sipari di velluto rosso. I costumi di Gesine Völlm vorrebbero rimandare a un Rinascimento stilizzato, ma ricordano invece le figure delle carte da gioco e il coro di cortigiani (faccia bianca, gorgiera) i soldati della Regina di Cuori di Alice nel paese delle meraviglie con gli abiti che espongono invece del seme della carta un grande occhio. Potrebbe essere l’«occhio dell’anima» cui fa riferimento re Claudio nel suo soliloquio del terzo atto, ma non si spiega questa sua onnipresenza su tutti quanti i personaggi ad eccezione di Amleto.

Le preziosità del libretto sono talora “semplificate” ma anche così la maggior parte dei cantanti non si dimostra a suo agio con l’artificioso testo del nostro maggior esponente della scapigliatura. La direzione di Paolo Carignani tende a enfatizzare l’esuberante strumentazione, ma non trascura i momenti più lirici della partitura. La sua lettura mette in evidenza l’internazionalità dei gusti del compositore, perfettamente a suo agio nel mondo musicale della seconda metà dell’Ottocento francese, soprattutto il prediletto Gounod.

Il protagonista titolare, il lanciatissimo Pavel Černoch, gioca sul volume e la forza a scapito di sfumature espressive e mezze voci. Il giovane tenore di Brno ha un timbro a dir poco particolare, una certa disinvolta pronuncia dell’italiano e una dizione talmente impastata da essere spesso incomprensibile. È comunque fatto segno di grandi ovazioni negli applausi finali. Si è già detto della sua presenza scenica qui risolta in maniera monocorde, quasi autistica, con lo sguardo perennemente rivolto al vuoto o al direttore d’orchestra.

Non ha problemi di dizione invece il nostro Claudio Sgura, un re Claudio dalla voce potente, ma che sa piegarsi nella preghiera verso una dolorosa intimità. Eccellenti la Gertrude di Dshamilja Kaiser, una Lady Macbeth di accento verdiano, e il soprano rumeno Julia Maria Dan, Ofelia intensa e dall’affascinante timbro di colore slavo che ricorda un po’ quello della compianta Lucia Popp. Problemi di dizione si sono rilevati anche per gli altri interpreti, soprattutto per l’acerbo Laerte di Paul Schweinester.

Ora ci si aspetta che anche i teatri italiani rimettano in circolazione questo Amleto di Faccio nelle loro stitiche programmazioni. Se lo merita.

(1) Sono quasi trenta le opere liriche che hanno come soggetto la tragedia di Shakespeare. Queste le più famose:

  • Amleto, Francesco Gasparini (1706)
  • Amleto, Domenico Scarlatti (1715)
  • Amleto, Gaetano Andreozzi (1792)
  • Amleto, Saverio Mercadante (1822)
  • Amleto, Franco Faccio (1865)
  • Hamlet, Ambroise Thomas (1868)
  • Amleto, Mario Zafred (1961)
  • Hamlet, Humphrey Searle (1968)
  • Hamlet, Giorgio Lanzani (2006)
  • Hamlet, Nancy van de Vate (2009)
  • Hamlet, Brett Dean (2017)
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La Gioconda

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★★☆☆☆

«Sovra la signoria, | più possente di tutti, un re: la spia»

Il libretto de La Gioconda di Amilcare Ponchielli è di Tobia Gorrio (anagramma di Arrigo Boito) adattato molto liberamente dal dramma di Victor Hugo Angelo, tyran de Padoue, lo stesso che è alla base de Il Giuramento di Mercadante.

La gestazione dell’opera fu tormentata e si contano diverse versioni per ognuna delle riprese: la prima dell’8 aprile 1876 a Milano, la seconda dell’ottobre dello stesso anno a Venezia, la terza del gennaio 1877 a Roma, la quarta del novembre 1879 a Genova e la quinta e definitiva del febbraio 1880 nuovamente a Milano, dove conobbe un successo clamoroso.

Atto primo. Mentre il popolo, in festa, celebra la generosità della Repubblica, Barnaba, un cantastorie – in realtà spia al servizio del Consiglio dei Dieci – medita sull’ambiguità di Venezia, che tra feste e forche tiene ben saldo il suo potere. Sopraggiunge Gioconda con la madre cieca; mentre si attende la celebrazione del Vespro, Gioconda lascia la madre per raggiungere l’amato Enzo, ma Barnaba le rivolge alcune profferte: la fanciulla lo respinge con disprezzo e fugge. Torna il popolo, portando in trionfo il vincitore della regata. Barnaba fa credere a Zuàne, un regatante, di aver perso la gara per via del maleficio della cieca che, ignara di tutto, resta in disparte a pregare; inorriditi, i presenti affrontano la donna, decisi a linciarla. Sopraggiunge Gioconda con Enzo; questi, compreso il pericolo, tenta di difendere la cieca  ma, constatata l’impossibilità di aver ragione della folla, si allontana per chiedere aiuto. Giunge Alvise Badoero con la moglie Laura: le sue parole ferme e imperiose riportano immediatamente la calma; Gioconda tenta di difendere la madre, ma solo Laura è sinceramente convinta dell’innocenza della donna. Nel frattempo Enzo è ritornato con alcuni marinai: Laura, che ha il viso coperto da una maschera (è ancora tempo di carnevale) e non può essere riconosciuta, rimane colpita dal suo volto; poi scorge tra le mani della cieca un rosario e si pronuncia a favore della sua innocenza, ottenendone la liberazione. Enzo, al suono della voce di Laura, si fa ansioso e assorto. Intanto la cieca, manifestando la sua riconoscenza a Laura, le porge il rosario, aggiungendo che il dono le porterà fortuna. Alvise apprende segretamente da Barnaba che egli è sulla buona strada per assicurare alla giustizia qualche nemico della Repubblica. Quando Gioconda esprime il desiderio di conoscere il nome di colei che ha interceduto per la vita della madre, Laura lo rivela, suscitando nuova e più viva agitazione in Enzo; poi, mentre tutti si recano alla vicina chiesa, egli rimane assorto e solo. Barnaba lo affronta, e gli rivela di conoscere la sua vera identità: egli non è un marinaio dalmata, ma un principe genovese proscritto da Venezia, tornato sotto mentite spoglie nella Repubblica, dove un tempo si era innamorato di una giovane donna che però era promessa a un altro. Inutilmente Enzo cerca di confutare le affermazioni di Barnaba, che sembra leggergli nel pensiero: egli non ama Gioconda, e la donna di cui un giorno fu innamorato è la stessa che poc’anzi ha interceduto per la vita della cieca; questa, che è sempre innamorata di lui, lo ha riconosciuto. Se Enzo vorrà incontrarla la notte stessa, sulla nave, egli l’aiuterà: Alvise sarà assente e non sospetterà nulla. Enzo esulta, ma al tempo stesso è sorpreso: chi è dunque il misterioso individuo? La risposta di Barnaba è agghiacciante: egli è il «possente demone del Consiglio dei Dieci»; potrebbe farlo arrestare e condannare, ma è innamorato di Gioconda, e poiché questa lo odia, vuole vendicarsi. Ucciderle l’amato gli sembra una vendetta da poco; preferisce spingerlo al tradimento. Enzo è sconvolto da questa rivelazione, ma accetta ugualmente l’offerta; poi maledice il sogghignante Barnaba e si allontana. Subito la spia denuncia il tradimento di Enzo e Laura e la loro fuga ad Alvise; poi, contemplando il palazzo dei Dogi, medita cupamente. Intanto Gioconda, che ha udito tutto ed è fuggita disperata in chiesa, esce all’aperto tra i fedeli, sorretta dalla madre che la conforta, e dà sfogo al suo dolore.
Atto secondo. A bordo della nave di Enzo, i marinai cantano un’allegra canzone. Giunge Barnaba travestito da pescatore, che ha così modo, senza dare nell’occhio, di valutare le forze di cui dispone il brigantino. Allontanatosi Barnaba, Enzo dà ai marinai le istruzioni per la partenza, poi li manda sotto coperta a riposare. Giunge Laura, accompagnata dal solito Barnaba, che lascia soli i due amanti, dopo aver augurato loro con sinistra ironia buona fortuna. I due rievocano le loro disavventure e si abbandonano l’uno nelle braccia dell’altro; poi, mentre Enzo ridiscende in coperta per preparare la fuga, Laura invoca l’aiuto della Vergine. Sopraggiunge Gioconda, mascherata, e affronta drammaticamente la rivale; in un primo momento vorrebbe colpirla con un pugnale ma poi, scorgendo Alvise che sta arrivando, pensa di vendicarsi ancora più crudelmente, consegnandola al marito che ha tradito. Quando Laura, in un ultimo e disperato tentativo, alza il rosario che le ha donato la cieca, Gioconda lo riconosce, e comprende che la donna che le ha salvato la madre è ora davanti a lei, in disperato bisogno di aiuto. Prima che Alvise salga sul brigantino, Gioconda copre il volto della rivale con la maschera e la affida a due marinai che si allontanano su una barca. Enzo, tornato sul ponte della nave, affronta l’ira e il sarcasmo di Gioconda; prima che Enzo possa riaversi dalla sorpresa, la nave è attaccata da alcune galere veneziane e colata a picco.
Atto terzo. Alvise, al colmo dell’agitazione, riflette sugli avvenimenti della notte precedente, e decide di punire la moglie adultera con la morte. Giunge Laura; inizia un ironico e galante scambio di battute tra i due, bruscamente interrotto da Alvise, il quale la atterra violentemente e le porge una fiala di veleno, intimandole il suicidio e allontanandosi. Giunge Gioconda, che sostituisce la fiala mortale con un potente sonnifero, ed esorta Laura a berlo; poi, con l’animo straziato, si allontana. Nella sfarzosa Ca’ d’Oro giungono gli invitati, che Alvise accoglie con frasi di circostanza; al culmine della festa sopraggiunge Barnaba con la cieca, sorpresa nelle stanze del palazzo: si diffonde ovunque un lugubre presentimento, che invano Alvise tenta di mitigare. Enzo, che teme per la vita di Laura, affronta Alvise, svelandogli la sua vera identità; mentre Alvise ordina il suo arresto, Gioconda si rivolge – non vista – a Barnaba, e promette di concederglisi in cambio della vita dell’amato. Tra l’orrore generale, Alvise rivela di avere ‘giustiziato’ la moglie e ne mostra il cadavere.
Atto quarto. Nell’atrio di un palazzo diroccato alla Giudecca, Gioconda congeda alcuni suoi fidi – che hanno occultato il corpo di Laura – e li prega di cercare la madre, scomparsa misteriosamente dalla notte precedente. Rimasta sola, la donna si abbandona alla più completa disperazione: pensa dapprima di bere il veleno destinato a Laura, ma poi si rammenta della necessità di aiutarla nella fuga; tormentata da propositi di vendetta, invoca infine l’amato. Giunge Enzo, disperato: è convinto che Laura sia morta, e non desidera altro che seguirla. Inutilmente Gioconda tenta di rinnovare in lui l’antico amore; alla fine, straziata e offesa, rivela a Enzo di aver fatto trafugare il cadavere della donna. Sorpreso e inorridito, Enzo le chiede spiegazioni ma Gioconda, che ormai desidera solo morire, improvvvisamente tace; esasperato, Enzo fa per avventarsi su di lei per colpirla, ma è interrotto da Laura che, risvegliatasi, lo arresta e in breve gli spiega ogni cosa. Sempre più stupefatto, Enzo si getta con l’amante ai piedi di Gioconda; poi questa impartisce le necessarie istruzioni per la fuga, li benedice e, rassicurandoli sul suo conto, li congeda. Rimasta sola, Gioconda vorrebbe uccidersi, ma presto si ricorda della madre e subito dopo del patto con Barnaba: piena di spavento, vorrebbe darsi alla fuga, ma la spia è già arrivata, esigendo la sua squallida ricompensa. Gioconda finge di acconsentire ma, mentre Barnaba già canta vittoria, si trafigge il cuore con un pugnale; alla spia, rabbiosa e beffata, non resta che gridare sul cadavere della donna di averle ucciso la madre.
La vicenda si sviluppa in quattro atti. Siamo a Venezia, nel XVII secolo. C’è la festa di Carnevale e il popolo celebra la Repubblica con una regata. Gioconda e la madre, cieca, sono tra la gente. Barnaba, spia del Consiglio dei Dieci, nelle false vesti di cantastorie, vuole che Gioconda ceda alle sue brame, ma lei lo respinge anche perché ama un altro uomo, Enzo Grimaldo nobile genovese proscritto da Venezia che si nasconde nella città fingendosi semplice marinaio. Barnaba per vendetta denuncia la madre di Gioconda come strega e aizza la folla contro di lei, ma il nobile Alvise Badoero e sua moglie Laura la salvano. Laura incontra Enzo, ne rimane colpita e si ricorda che era stato il suo grande amore, ma ora lei è sposata con Alvise. Tenta di fuggire con lui ma Gioconda, gelosa, prima cerca di fermarli, poi, salva Laura da Alvise che voleva ucciderla durante una festa organizzata per costringere la moglie adultera al suicidio. Gioconda scambia l’ampolla del veleno destinato alla nobildonna con un narcotico per simularne la morte. Barnaba cerca di far uccidere Enzo, ma Gioconda, per salvare l’amato, promette al perfido delatore che sarà sua se lui lascerà andare Enzo. Barnaba accetta e Gioconda lascia fuggire Enzo e Laura, ormai amanti. Ma mentre Barnaba si avvicina, Gioconda si trafigge con un pugnale; all’uomo non resta che gridare alla donna morente di averle ucciso la madre.

La Gioconda è il tipico esempio di grand opéra con un pizzico di grand guignol all’italiana,  la drammaturgia esagerata, gli effetti e gli effettacci, le inverosimiglianze e i colpi di scena – e il balletto, quello “delle ore”. Può essere considerato l’anello di congiunzione tra l’estetica musicale di Donizetti e Verdi da una parte e quella di Mascagni e Puccini dall’altra, con quel gusto scapigliato che indulgeva alla contemplazione di un’umanità patologica. Qui Barnaba è un cattivo che più cattivo non si può, prototipo ancor più malvagio del futuro Jago verdiano e la menomazione della madre di Gioconda un tocco di crudeltà in più.

Massimo Mila definisce il melodramma di Ponchielli «la maggiore delle opere pseudo-verdiane, nelle quali la dispersione degli effetti teatrali e la fiorita di belle melodie non sono tenute insieme dalla coerenza d’un saldo clima morale, quale il grande maestro aveva saputo attingere dal religioso eroismo dell’età del Risorgimento. V’è poi una ricerca dello spettacolo […] in cui si diluisce la concentrata energia delle passioni verdiane: nonostante la bieca enormità dell’intrigo, il sentimentalismo sta per succedere alla schietta, feroce tragicità, conformemente al mutato ambiente storico e all’evoluzione del gusto nella borghesia italiana».

Nel 1986 viene messa in scena alla Staatsoper di Vienna una produzione di Gioconda che nell’allestimento di Filippo Sanjust ci fa fare un salto indietro nel tempo di cinquant’anni: mai si era vista in un teatro così blasonato una scenografia dipinta così brutta e una regia con tali cadute di gusto e di logica. «Irritanti nella loro mancanza di accuratezza» sono definiti dal Giudici gli ambienti veneziani, che purtroppo tutti conosciamo bene, e i ricchi ma approssimativi costumi (ma si usavano veramente tutti quei ventagli con le piume?) non riescono a ricreare un credibile contesto patrizio della Venezia del Cinquecento.

Sul piano musicale le cose non sono esaltanti. La direzione di Adám Fischer non va per il sottile e non rende migliori le pagine più brutte dell’opera e con un coro spesso sgangherato. Domingo non è sempre a suo agio nella tessitura particolarmente alta del ruolo, ma al pubblico viennese non importa e subissa di applausi la generosità vocale del cantante, allora nella pienezza della sua carriera. Eva Marton non è molto adatta per il repertorio italiano, ma è comunque corretta e convince il pubblico viennese con il suo «Suicidio!», seppure all’ombra della Callas. Matteo Manuguerra è un Barnaba giustamente bieco ma tagliato con l’accetta e con una presenza scenica che spesso sfiora il grottesco. Vocalmente in difficoltà, pronuncia impastata e dizione scorretta quella di Kurt Rydl il cui Alvise è improponibile: raddoppia dove non deve («ducalli murre, mascherrata») e viceversa le fa mancare quando servono («strapar»). Passabili la cieca e Laura. Su tutti quanti imperversa la voce del suggeritore.

Regia video “d’epoca” e immagine in 4:3. Una sola traccia audio e sottotitoli in cinque lingue, tra cui l’italiano.

  • La Gioconda, Callegari/Bertolani, Modena, 25 marzo 2018
  • La Gioconda, Carignani/Py, Bruxelles, 12 febbraio 2019
  • La Gioconda, Chaslin/Livermore, Milano, 11 giugno 2022

Otello

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Giuseppe Verdi, Otello

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 24 ottobre 2014

Otello al macello

Il problema della vocalità di Otello nel lavoro di Verdi, così brillantemente enunciato da Alberto Mattioli nella sua presentazione all’opera, è stato affrontato e forse risolto nell’interpretazione del tenore Gregory Kunde dello spettacolo del Regio: il caso cioè che il modello vocale che Verdi aveva in mente sia stato nel tempo frainteso portando in scena interpreti sanguigni, selvaggi isterici e dal timbro scuro, quando invece il riferimento originale, il primo interprete – Francesco Tamagno a Milano nel 1886 – aveva una voce leggera e squillante, chiara eredità da tenore del bel canto dell’Ottocento italiano.

Ecco quindi che un interprete proveniente da quel repertorio e che, caso finora unico nella storia, riesce a cantare contemporaneamente i due Otelli, oltre a quello di Verdi quello di Rossini (1816), ci aiuta a comprendere la particolare vocalità del ruolo. Vocalità messa in bella evidenza qui a Torino dal sessantenne Gregory Kunde (e qui l’attributo è altamente qualificativo ed elogiativo) il quale ha ripristinato con la sua voce potente ma elegante la nobiltà eroica del personaggio e al contempo la sua vulnerabilità. L’originalità della vocalità di Kunde è proprio il timbro che ricorda l’indimenticabile Jon Vickers, il più grande interprete del ruolo secondo il parere di chi scrive.

L’interesse dell’appuntamento torinese si basava, oltre che sulla presenza dell’interprete principale, su altri due elementi: la direzione orchestrale di Gianandrea Noseda e la messa in scena di Walter Sutcliffe, inglese classe 1974, al suo debutto italiano.

Sul primo elemento poche sono state le sorprese. Il direttore musicale del Regio si è confermato interprete sensibile, la sua forza espressiva scontata. Da manuale gli scoppi della tempesta o della furia di Otello e le trasparenze dei pianissimi come quello da film horror (e il buio che manca completamente in questo allestimento!) dei contrabbassi con sordina quando Otello entra nella stanza di Desdemona, rovinato però da un applauso intempestivo del pubblico.

Sul secondo elemento sappiamo che Sutcliffe è stato regista sia nel teatro di prosa (uno Strindberg a Londra) sia in quello lirico, dove ha curato la produzione di opere di Britten, Janáček e Ligeti, ma anche Traviata, Don Giovanni e Carmen nei teatri di città quali Braunschweig, Linz, Osnabrück, Tallinn. Questo elenco ci informa innanzitutto che il Regio ha arruolato a suo tempo un forse promettente regista, ma non una conclamata star internazionale del momento come il Pelly del prossimo Händel o il McVicar dello Stravinskij della passata stagione, registi di casa a Parigi come a Londra come a New York.

Perché poi non si sia utilizzato invece il bellissimo allestimento genovese di Davide Livermore dello scorso anno è un mistero cui potrebbe dare risposta il nostro risparmioso sovrintendente.

Ciò premesso, che cosa si vede sul palcoscenico di questa nuova produzione torinese? Distinguiamo innanzitutto le scenografie dalla regia. Le prime, eseguite da Saverio Santoliquido, sono costituite da muri di sacchi di sabbia (come avrebbero fatto comodo a Genova durante l’ultima alluvione!) brutti, palesemente finti e macchiati di sangue (ma le battaglie non avvenivano in mare?) che danno della guarnigione l’idea di un fortino assediato dall’esterno (ma allora perché Otello manda i suoi soldati fuori «nella città sgomenta […] a ricompor la pace»?) oppure pronto per un’imminente alluvione. Ognuno di essi ha il taglio di una porta, come si vede con evidenza nelle fotografie messe a disposizione dal teatro, che però non verrà usata (?).

Rigorosamente simmetrici, come le entrate dei cori, gli elementi ruotano su loro stessi offrendo una volta la parte convessa un’altra volta quella concava a formare gli ambienti della vicenda. La loro incombenza vieta qualunque idea di mare, di cielo o al contrario di intimità. Del tutto incongrua poi la pergola di glicini in cui Cassio incontra Desdemona, pergola che, liberata dei fiori di plastica, diventa il talamo in cui la donna viene uccisa alla fine.

L’illuminotecnica di Rainer Casper, sbagliata per non dire orrenda, appiattisce tutto: notte, mistero, interno, esterno sono completamente assenti da questo spettacolo. Zenitali o radenti e con brutte ombre, sembrano un esempio di come non debbano essere le luci di uno spettacolo.

Francamente ridicoli i costumi di Elena Ciccorella: gli uomini portano una giacchetta da Guerre stellari su una gonnellina da centurione romano e per completare il tutto dei pantaloni mimetici. Azzurri! Non sono da meglio quelli delle donne.

E che dire dei tatuaggi Maori (?) realizzati con magliette color pelle che però fanno le grinze? O della palandrana lorda di sangue di Otello, come se fosse appena arrivato dal macello, ma che continua a indossare per tutto il primo atto?

Sulla Personregie di Sutcliffe meglio sorvolare. Braccia al cielo, mani sul cuore, gambe larghe, atteggiamenti stereotipati e/o casuali. Per fortuna che Kunde si sa muovere da sé e il ruolo di Desdemona farebbe comunque commuovere anche i sassi.

Che poi il regista voglia esasperare la premeditata malvagità di Jago facendogli assassinare i prigionieri (cosa del tutto assente sia in Boito che in Shakespeare) è una trovata pessima e incomprensibile per un regista inglese che dovrebbe essere perfettamente al corrente del ruolo in Shakespeare di Iago (sic) che è mosso unicamente dall’invidia e dal rancore della mancata promozione e gli accadimenti quasi gli sfuggono di mano prendendo la piega tragica che conosciamo.

Non si sa se gli scatti epilettici e le corse a vuoto dei marinai durante la tempesta facciano parte della coreografia di Hervé Chaussard, di certo sono suoi i movimenti scomposti dell’orgia del primo atto. Già, non vi siete mai accorti che in Otello ci fossa un’orgia? Beh, qui c’è, con tanto di tette al vento, atteggiamenti lascivi e rotolamenti sul pavimento.

Ma veniamo agli altri due interpreti principali. Tecnicamente ineccepibile è la prestazione di Erika Grimaldi, ma il timbro metallico e sgradevole della voce vanifica gli sforzi della cantante nel farci commuovere e il suo continuo rivolgere lo sguardo al maestro concertatore, oltre a dare l’idea di una insicurezza di fondo, smorza del tutto la poca verità scenica.

Per quanto riguarda Ambrogio Maestri, se si chiudono gli occhi non si può fare a meno di sentire la voce di Falstaff nella rotondità del timbro, nell’accento, nell’esattezza del fraseggio, e se si aprono si vede in scena un simpaticone pasciuto in cui si fa difficoltà a riconoscere la figura «magra e lunga» di un Alfiere che sembra invece una Torre! (La locandina pubblicitaria dello spettacolo e la decorazione all’ingresso del teatro mostrano una scacchiera, ma quanti hanno capito l’allusione?). Maestri dà comunque un’ottima prova di forza vocale in un ruolo che non è il suo. Modesto il resto del cast.

Applausi contenuti e qualche mugugno tra il pubblico in platea.