Stiffelio

La locandina dello spettacolo

Giuseppe Verdi, Stiffelio

★★★★★

Parma, Teatro Farnese, 30 settembre 2017

Che scandalo l’opera che diventa teatro…

«Signora mia, di questo passo dove si andrà a finire se anche il Regio di Parma apre alle sperimentazioni? Va be’ che il regista è quel facinoroso marxista di Graham Vick e che l’opera è quella poco conosciuta dello Stiffelio, ma qui nella terra stessa di Giuseppe Verdi… E farci stare in piedi tre ore, con le scarpe strette. E alla nostra età!».

Ebbene sì, il Festival Verdi si apre, finalmente, a nuove letture. «La nuova missione» la definisce Anna Maria Meo, direttore generale del Teatro Regio. Quello che è del tutto usuale in tutti i festival lirici del mondo, qui non si era ancora tentato. Merito degli organizzatori – e di Ranuccio I duca di Parma e Piacenza che nel 1618 fece costruire dall’Argenta al primo piano del palazzo della Pilotta un meraviglioso teatro di legno del tutto inadatto alle rappresentazioni, per lo meno di quelle che intendiamo noi oggi – l’aver deciso di utilizzare uno spazio da affidare all’ingegno dei registi per allestire opere liriche in modo inusuale, “Maestri al Farnese”, già inaugurato l’anno passato. (1)

E inusuale questo allestimento lo è. Come le “Sentinelle in piedi”, che attendono gli spettatori quando si aprono le porte, anche noi spettatori stiamo in piedi. Distinti soltanto da un badge appeso al collo, ci troviamo a condividere gli spazi col coro e i figuranti che ci abbracciano, ci spingono, ci coinvolgono nella vicenda. L’orchestra è quasi invisibile in un angolo e i cantanti sono su praticabili mobili a pochi metri da un pubblico che assume il ruolo di voyeur, di sofferto testimone di queste scene da un matrimonio in cui Lina, dopo aver sposato Rodolfo scopre trattarsi di un pastore evangelista, Stiffelio, che la trascura per inseguire la sua vocazione. Sedotta dalle confortanti attenzioni di Raffaele, la moglie vorrebbe confessare al marito il peccato, ma il padre la dissuade per non infangare l’onore della famiglia. Quando si destano i sospetti di Stiffelio, l’uomo sarà incerto tra la vendetta e il perdono. Sceglierà il secondo, avendo già il suocero provveduto a far fuori l’amante della figlia.

Per quest’opera, che precede la trilogia popolare e che anticipa nell’ambiente borghese la contemporaneità della Traviata, Vick sceglie l’attualità degli ipocriti Family Day e dei comitati “anti gender” a difesa della famiglia “tradizionale”: striscioni con «i maschietti sono maschietti» e «le femminucce sono femminucce» coprono le gradinate, i figuranti sono preti o militanti con una maglietta rosa avente l’immagine stilizzata della famiglia formata da mamma, papà, maschietto e femminuccia appunto, nei banchetti ci sono i moduli “contro il gender” (e mi dicono che qualcuno ha firmato!) mentre, perché sia ancora più chiaro il messaggio, due gay sono ferocemente pestati quando vengono scoperti. Solo alla fine, quando Stiffelio farà proprie le parole evangeliche del perdono dell’adultera, verrano ritirati gli striscioni e le contestate magliette: ora sì che il Vangelo viene messo in pratica.

Graham Vick adotta dei mezzi che sono sì ampiamente consolidati nel teatro di prosa – si pensi soltanto agli spettacoli di Ronconi (Orlando Furioso, Gli ultimi giorni dell’umanità) o al più recente Alma (visto a Venezia nel 2002 e oggi ancora “sulle scene” dopo oltre vent’anni dal debutto a Vienna) – ma che nel teatro d’opera sono stati raramente tentati, se non appunto da Vick quando era a Birmingham con un Wozzeck (2001) e un Fidelio (2002). Con questa operazione il regista inglese spinge ai limiti il modo di rappresentare l’opera, e lo fa addirittura nella tana dei loggionisti.

La cronaca dell’aspetto visivo è necessariamente preponderante, ma anche l’aspetto musicale ha avuto tra i legni del Teatro Farnese la sua gloria, merito di una compagnia di canto di tutto rispetto. Nel ruolo titolare il tenore Luciano Ganci al timbro luminoso unisce una generosità vocale e una chiarezza di dizione che ben si addicono a un predicatore. Maria Katzarava è una Lina intensa ma piena di sfumature che suscita brividi di emozione nell’aria del primo atto «Tosto ei disse! Ah son perduta!». Il fatto poi che sia cantata a due metri di distanza moltiplica di qualche ordine di grandezza l’impatto sull’ascoltatore. Stankar, il padre colonnello, è un efficace Francesco Landolfi, così come il Raffaele di Giovanni Sala o lo Jorg di Emanuele Cordaro. Blagoj Nacoski e Cecilia Bernini, i cugini di Lina, hanno completato l’eccellente cast.

I numeri corali sono pagine di grande bellezza, qui magistralmente intonate dal coro del teatro Regio ora confuso tra il pubblico ora esultante al suono dell’organo dalle gradinate nel finale da pelle d’oca. Dalla sua posizione defilata, ma moltiplicato da monitor giudiziosamente posizionati, Guillermo García Calvo tiene abilmente in mano la situazione e anche se l’acustica del luogo e la disposizione non permettono sempre di apprezzare a pieno alcune finezze della partitura, il maestro madrileño riesce a ottenere un mirabile equilibrio tra le diverse fonti sonore e a concertare con precisione gli interventi dei cantanti e degli strumenti. Il risultato è lo stupefatto entusiasmo del pubblico che alla fine sommerge di applausi gli interpreti e il regista. Il loggione non c’era, chissà forse avrebbe apprezzato.

Dopo questa esecuzione viene la tentazione di parlare di una “tetralogia popolare”: Stiffelio, Traviata, Rigoletto, Trovatore

(1) L’allestimento del Falstaff da parte di Stephen Metcalf nel 2011 non si può dire che avesse molto sfruttato le potenzialità della location e neppure quello della Giovanna d’Arco di Saskia Boddeke e Peter Greenaway l’anno scorso.

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foto © Roberto Ricci

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