La Gioconda

 

Amilcare Ponchielli, La Gioconda

★★★☆☆

Milano, Teatro alla Scala, 11 giugno 2022

bandiera francese.jpg  Ici la version française

La Gioconda, melodramma melodrammatico

Mancava da 25 anni dalla Scala, ma non si può dire che l’opera di Ponchielli sia una rarità nel teatro milanese: se si guardano le date delle rappresentazioni però – dopo la prima dell’8 aprile 1876, La Gioconda fu ripresa altre 15 volte fino al 1952, quella con la Callas, poi un’assenza di 45 anni fino al 1996 con Abbado – è evidente che le fortune del lavoro appartengono a un periodo ben preciso, che non arriva ai giorni nostri nonostante questo «melodramma melodrammatico» abbia ancora molti estimatori.

I motivi perché La Gioconda, ispirata dal drammone Angelo, tyran de Padoue di Victor Hugo trasportato da Boito a Venezia, fosse tanto apprezzata allora ci sono tutti: vicende da feuilleton a tinte forti, quasi sadiche («bieca enormità dell’intrigo» la definiva Massimo Mila), coups de théâtre improbabili e personaggi scolpiti con la fiamma ossidrica. E poi una musica ben costruita, che sembra guardare al futuro – leggi il Verismo – ma è invece rivolta a un passato che in un certo qual modo rifaceva il grand opéra rivisto con le lenti del post-wagnerismo: le dimensioni in quattro atti, la presenza dei ballabili, i numerosi concertati e interventi corali richiamavano proprio quella stagione della musica francese dell’Ottocento i cui momenti d’oro si erano estinti negli anni ’50 con le ultime opere di Auber. Ma negli ultimi decenni del XIX secolo una nuova generazione di compositori francesi continuava a produrre opere in quel solco, parliamo di Massenet, Gounod, Saint-Saëns, Thomas, D’Indy, mentre in Italia musicisti come Gomes, Marchetti e appunto Ponchielli si collocavano anch’essi sull’evoluzione del grand opéra per arrivare a Verdi con quel sublime ossimoro con cui si può definire l’Aida: una grandiosa opera intimista.

Il gusto moderno fa fatica ad appassionarsi alle vicende narrate nei datati versi del giovane Arrigo Boito, che qui si firma per prudenza con l’anagramma Tobia Gorro, e ci vorrebbe un regista che volgesse quella assurda drammaturgia in parodia, o almeno ne facesse una lettura critica, come ha cercato di fare Olivier Py a Bruxelles tre anni fa. Ma ciò non succede con Davide Livermore, che alla Scala riserva sempre le sue letture più “moderate”.

Il regista torinese ricrea una Venezia lugubre e onirica, tra la Venise Céleste di Mœbius e il Casanova di Fellini, con i ponti, le scalette, i palazzi trasparenti disegnati da Giò Forma – anche se fin troppo realistico è invece il brigantino del secondo atto. La scena è infestata dai crudeli Pulcinelli del Tiepolo di Ca’ Rezzonico qui scherani del capo dell’inquisizione, dagli angeli della morte e dai genii del male calati dall’alto. Lugubri gondole, capitelli sospesi, bifore e colonnine in garza connotano la città lagunare. L’impianto ipertecnologico a cui ci aveva abituato Livermore è limitato alle proiezioni della D-Wok, qui poco più che decorative, con i profili delle chiese nella nebbia che sale dal mare, i soffitti a cassettone di palazzi grandiosi e una figura femminile che fluttua nell’acqua e che vuole forse accennare alla Cieca affogata nel canale. Meno curata del solito è anche apparsa la cura attoriale dei cantanti. Saioa Hernández è ritornata nella parte del titolo con cui aveva debuttato nei teatri emiliani quattro anni fa. Volume enorme, grande temperamento e tecnica impeccabile si alleano a un timbro particolarissimo che in questo repertorio è manna dal cielo per delineare il carattere del personaggio, tanto che il pubblico l’ha compensata con un diluvio di applausi al termine di «Suicidio!» e nei saluti finali. Anna Maria Chiuri, che in quella produzione era Laura Adorno, qui veste i panni della Cieca con efficace vocalità e buona presenza scenica, mentre Laura qui è Daniela Barcellona, interprete belcantista che in questo repertorio truculento ha fornito la bellezza del suono e la cura del fraseggio che le riconosciamo. Straordinariamente inciso è stato l’Alvise Badoèro di Erwin Schrott, che ha rinunciato a ogni gigioneria per concentrarsi sulla qualità della sua voce rendendo memorabile la sua scena e aria all’inizio del terzo atto. Altrettanto perfido ma non caricaturale il Barnaba di Roberto Frontali, risolto con grande mestiere dal baritono romano. L’indisposto Fabio Sartori è stato sostituito all’ultimo momento da Stefano La Colla le cui incertezze di intonazione, giustificate alla prima, sono continuate anche nella recita dell’11, ma il pubblico ha reagito pavlovianamente al suo acuto finale “col rinforzo” di «Cielo e mar» applaudendo una modesta prestazione caratterizzata da un volume ragguardevole ma pochezza di colori e di intenzioni. Fabrizio Beggi (Zuàne) e Francesco Pittari (Isèpo, Boito ama mettere gli accenti anche là dove non servono…) sono tra gli altri convincenti comprimari. Come sempre ottimo il coro istruito da Alberto Melazzi. Nella Danza delle Ore, prosaicamente coreografata da Frédéric Olivieri, si sono distinti gli allievi della scuola di ballo dell’Accademia del teatro.

Anche il pubblico, seppure formato in gran parte dai visitatori della Settimana del Design, ha compreso la scarsa qualità della direzione di Frédéric Chaslin: la sua è una concertazione senza nerbo con dinamiche improvvisate e assenza di colori strumentali. Eppure il fascino di una partitura come questa sta proprio nell’iridescenza dei toni orchestrali più che negli improvvisi slanci melodici che si estinguono prima di essere sviluppati. Purtroppo il direttore francese non sembra che l’abbia compreso.