Intervista a Carlo Vistoli

foto © Nicola Allegri

(Ici la version française)

Torino, 10 giugno 2022

Renato Verga – Dall’ottobre 2012, da quando cioè hai debuttato a Cesena come la Sorceress di Dido and Æneas di Purcell, sono trascorsi poco più di nove anni. Ora Carlo Vistoli è tra i più richiesti cantanti nel repertorio barocco, e non solo. Lavora con i più prestigiosi direttori e registi del momento, colleziona recital e ha al suo attivo numerose incisioni discografiche. Come è successo?
Carlo Vistoli – Il tutto comincia da ben prima. La musica è stata sempre una mia grande passione, fin da quando ero piccolo. I miei genitori mi compravano delle musicassette prima e dei cd poi dedicati ai grandi compositori: un’introduzione, diciamo, alla cosiddetta musica “classica”. Tuttavia, non sono nato e cresciuto in un ambiente dove si coltivasse veramente un interesse per questo genere di musica: nessuno dei miei genitori, né dei miei parenti, è musicista. Mio padre aveva qualche qualche disco e ascoltandolo ho incominciato ad appassionarmi. E poi, appunto, chiedevo che mi comprassero queste registrazioni che uscivano in edicola, e devo dire che mi hanno davvero aperto un mondo. Il primo approccio è stato dunque da ascoltatore. Successivamente ho iniziato a studiare chitarra classica e anche pianoforte, sempre a Lugo. Quindi, verso i vent’anni, è arrivato lo studio del canto, prima con un tenore di Lugo che purtroppo è venuto a mancare prematuramente due anni fa, Fabrizio Facchini, poi, per un breve periodo, con Michele Andalò, un controtenore che è stato allievo di William Matteuzzi e infine con Matteuzzi stesso, con cui ho rifondato la mia tecnica. A queste lezioni private ho affiancato anche un corso di specializzazione con Sonia Prina al Conservatorio di Ferrara. È quindi una decina di anni fa che ho realizzato che questo poteva essere veramente il mio lavoro, che potevo vivere di questo sogno che tenevo nel cassetto fin da quando ero piccolo. Tutto è successo attraverso lo studio e l’impegno, che continuano tuttora, nonostante non sia più studente. O meglio, per me si è sempre “studenti” (inteso come participio presente), se il proprio obiettivo è un costante miglioramento. Personalmente, ho sempre cercato di puntare a nuovi traguardi, considerando che ogni arrivo è allo stesso tempo un nuovo punto di partenza. Nella pratica, durante i primi anni, ho partecipato a vari concorsi e sostenuto audizioni: c’è chi ha creduto in me e mi ha offerto delle possibilità, poi, come si suol dire, una cosa tira l’altra, e se si fa bene, poi dopo si viene richiamati e così si continua. A pensarci a posteriori, il bello è che mi è capitato, e mi capita ancora oggi, di lavorare con quelli che erano allora i miei miti, soprattutto per quanto riguarda il Barocco, genere che ho scoperto tramite le registrazioni, tra gli altri, di William Christie e di John Eliot Gardiner.

Caldara, Dafne (Apollo), Venezia 2015, regista Bepi Morassi (foto © Daniele Grillo)

RV – Dopo i tuoi studi universitari a Bologna – a proposito, sono stati utili per la tua professione? – l’incontro con William Matteuzzi quando avevi vent’anni è forse stato quello decisivo per indirizzare la tua carriera? E quello con Sonia Prina?
CV – Studiare musicologia è stato certamente importante, anche se in realtà non sono arrivato alla laurea, per vari motivi ma soprattuto perché poi ho cominciato a lavorare piuttosto assiduamente – ma laurearmi è nei miei progetti, appena ne avrò il tempo. Questi studi, ad ogni modo, credo mi siano stati d’aiuto, occupandomi principalmente del repertorio barocco, dove spesso si ha a che fare direttamente con le fonti. Quando si parla di “barocco” si intende un periodo molto ampio, di quasi duecento anni, con tanti stili diversi e con differenti pratiche esecutive, che occorre aver studiato e conoscere. Inoltre, mi capita spesso di trascrivere dei manoscritti. Tuttavia, in realtà, quello che conta è quanto avviene sul palcoscenico con i direttori, i maestri preparatori, i registi, e anche i colleghi: facendo produzioni importanti, sono venuto in contatto con alcuni cantanti che ammiravo già da ascoltatore e che ora posso osservare da vicino, ai quali posso chiedere consigli. Ogni incontro è utile in questo mestiere e più esperienze si fanno, meglio è. Io, poi, devo molto ai miei due maestri: Matteuzzi, che, oltre alla tecnica all’italiana del legato e del canto sul fiato mi ha insegnato l’importanza della parola e della prosodia, e Prina, che mi ha dato dritte importantissime sullo stile e su come rendere vivi e pulsanti, più vicini al pubblico, quei personaggi del melodramma barocco che di primo acchito possono parere bidimensionali, ma che una sapiente unione di musica e parole rende più sfaccettati e completi. Sonia ha un grandissimo istinto teatrale e comunicativo e il suo è stato un insegnamento prezioso.

Händel, Agrippina (Ottone), Brisbane 2016, regista Laurence Dale (foto © Darren Thomas)

RV – Quando hai scoperto che la tua voce sarebbe stata quella di controtenore, o meglio di contraltista, vista la tessitura medio-grave in cui preferisci esprimerti, e il sontuoso timbro che possiedi?
CV – Con il mio primo maestro, Fabrizio Facchini, avevo esplorato la mia voce da tenore, ma sentivo che c’era un tetto oltre il quale andavo con fatica. Mi risultava più comodo il falsetto, anche se allora era ancora del tutto incolto, e la mia passione del tempo (quando cioè avevo vent’anni) per il repertorio barocco mi aveva portato a scoprire controtenori come David Daniels, Bejun Mehta – con cui avrò l’onore di cantare ne L’incoronazione di Poppea tra qualche mese all’Opera di Stato di Berlino –, Andreas Scholl, Philippe Jaroussky, Lawrence Zazzo, Max Emanuel Cenčić, Christophe Dumaux e altri che mi avevano impressionato per i loro virtuosismi. Per curiosità, avendo come riferimento queste voci, avevo chiesto al mio insegnante di provare qualche aria, ma è stato prima con Andalò, lui stesso un controtenore, e poi in particolare con Matteuzzi che ho iniziato a esplorare seriamente questa vocalità. Una vocalità che ho costruito nota per nota, partendo dalla parte centrale, in su: avevo infatti un registro basso già abbastanza sviluppato, così come quello acuto, ma meno il centro. Con pazienza, semitono dopo semitono, ho unito questi registri, specializzandomi nel repertorio grave della mia tessitura, quello che gli anglosassoni chiamano “male alto”. Ho una predilezione per una vocalità brunita, calda, avvolgente, carnosa, con un colore maschile ben evidente. Nei ruoli eroici scritti all’epoca per castrati una delle caratteristiche spesso richieste era quella di saper passare con agio da note “di petto” (chiamiamole così, per convenzione), gravi e scure, agli acuti: questo è un aspetto fondamentale con cui un controtenore deve confrontarsi nel suo studio. Ultimamente sto affrontando anche ruoli più acuti, ma mi spingo al massimo a qualche ruolo mezzosopranile, rimanendo la mia comfort zone quella contraltile. Insomma, nelle cadenze ci si può sbizzarrire e salire all’acuto, ma la parte del cantabile, dove si fanno i colori, il legato, dove veramente ci si esprime, per me rimane quella del contralto.

  

Cavalli, Erismena (Idraspe), Aix-en-Provence 2017, regista Jean Bellorini (foto © Pascal Gély)

RV – Si può dire che con una voce come la tua si percepisce chiaramente l’evoluzione che la vocalità in questo registro ha subito: dalle prime voci stimbrate e flebili del passato che facevano largo uso del falsetto, alla voce piena e timbrata tua e di alcuni tuoi colleghi. Si può dire che non ci sia più l’emulazione della voce femminile nei controtenori di oggi?
CV – Qualche anno fa uscì una mia intervista con un titolo che riportava, – virgolettata, quindi come se l’avessi pronunciata io –, la frase «Canto come una donna per emozionare tutti», ma fu un evidente arbitrio del titolista, perché mai mi sognerei di dirlo: per quanto speri davvero di emozionare chi mi ascolta, non c’è mai stata l’intenzione di emulare la voce femminile. Dai lontani pionieri di questa vocalità, come Russell Oberlin, ma soprattutto Alfred Deller, le cui registrazioni specialmente nel repertorio inglese sono per me ancor oggi delle gemme di bellezza (tra l’altro, per lui è stato scritto il ruolo di Oberon nel Midsummer Night’s Dream di Britten, anche se, in realtà, non aveva una voce davvero “operistica”), tanta acqua è passata sotto i ponti, e oggi la voce di controtenore possiede di sicuro una maggior proiezione, una maggior capacità di sostenere fiati più lunghi, colorature complesse, e il suono, credo, si è fatto più rotondo, più corposo. Ma senza figure come Deller e Oberlin, oggi non potremmo esserci noi. I controtenori sono sempre più utilizzati in spazi teatrali ampi e con orchestre a volte nemmeno così ridotte, e queste esigenze hanno fatto sì che la voce si sia, come dire, “liricizzata”. Sono queste necessità teatrali ad aver portato a un’evoluzione stilistica e soprattutto tecnica della voce. A volte è comunque richiesto che questa tendenza venga ridotta, per esempio nel repertorio sacro: prendiamo Bach, in cui è necessario ridurre il vibrato, essere più strumentali – anche se in maniera diversa da come un altro compositore come Vivaldi richiede alla voce di avvicinarsi alle peculiarità degli strumenti. Ma per tornare alla questione circa l’emulazione della voce femminile, posso dire che negli ultimi tempi noto un crescente interesse per la vocalità dei sopranisti, forse anche in sintonia con il progredire del concetto di fluidità dei generi: c’è un gusto di tendenza, insomma, per un avvicinamento, quasi un confondersi, tra voce di uomo e voce di donna. Per quanto mi riguarda, però, preferisco che in un controtenore (etichetta generica che comprende contraltisti e sopranisti: questo bisogna farlo presente) la componente maschile rimanga quella prevalente, nel timbro e negli accenti.

Monteverdi, L’incoronazione di Poppea (Ottone), Salisburgo 2018, regista Jan Lauwers (foto © Vanden Abeele)

RV – Come cambia il personaggio se invece di un mezzosoprano/contralto o di un tenore c’è un controtenore? Sto ovviamente pensando al caso dell’Orfeo ed Euridice di Gluck nelle sue diverse versioni.
CV – Le tre versioni differiscono nella scrittura vocale e anche, seppur in minor parte, in quella strutturale, dei numeri musicali, nonostante l’ossatura rimanga la stessa. Ognuna ha la sua ragion d’essere. La prima versione, quella di Vienna del 1762, fu scritta per un contralto castrato, Gaetano Guadagni, che cantò anche per Händel, ma a Parma, cinque anni dopo, fu un soprano castrato, Giuseppe Millico, mentre a Parigi nel 1774 fu un haute-contre. E non parliamo della versione di Berlioz di quasi un secolo dopo per mezzosoprano. Nel caso della versione originale, Gluck voleva sfrondare l’opera degli orpelli barocchi, secondo le intenzioni della riforma sua e di Calzabigi, mirando a un’espressione più diretta del testo poetico e dell’intreccio,. Al giorno d’oggi, l’impatto che si vuole avere in scena ha acquistato un’importanza fondamentale. Per quanto mi riguarda, ho fatto due produzioni di Orfeo ed Euridice, una con Carsen a Roma nel 2019 e una con Michieletto quest’anno a Berlino, e in entrambi i casi c’è stata una volontà di realismo, di verisimiglianza scenica che solo con un Orfeo maschile si è potuta ottenere. Ma non solo: l’effetto di una voce acuta maschile è ben diverso da quello di una voce grave femminile, a livello acustico e di percezione. C’è poi una questione di gusto personale – è vero –, tra chi preferisce un Orfeo donna e chi un Orfeo uomo (scena o non scena), ma qui si entra nel campo del soggettivo, e ognuno è libero di avere la sua opinione.

Hasse, Artaserse (Artabano), Sydney 2018, regista Chas Rader-Shieber (foto © Brett Boardman)

RV – Sei tra i non molti controtenori che conti l’Italia eppure, soprattutto in questo repertorio italiano al 99% e in cui la dizione è della massima importanza, gli italiani non dovrebbero essere quelli più avvantaggiati? Sono le solite ragioni più o meno nascoste del maschilismo italico a far snobbare i controtenori, come alcuni direttori ancora oggi fanno, preferendo cantanti femminili en travesti? Che cosa vorresti dire a loro?
CV – Contralti, mezzosoprani e controtenori possono e devono convivere pacificamente (o almeno, ci si prova… scherzo!), anche se ci sono alcuni ruoli che vedo più adatti a essere cantati da un uomo, invece che da una donna. Ultimamente, la presenza dei controtenori, anche italiani, nei nostri teatri è aumentata e credo che, in generale, non ci sia più un pregiudizio nei nostri confronti nei grandi teatri: la Scala, l’Opera di Roma, il Maggio Musicale Fiorentino, la Fenice, solo per citarne alcuni, si sono aperti a questo tipo di vocalità e contemporaneamente sempre più spesso propongono titoli barocchi. È in Francia dove ho lavorato di più, un paese che amo molto e in cui sono sempre felice di tornare, ma in caso di sovrapposizioni di impegni, a parità di importanza, dovendo fare una scelta, ho sempre un occhio di riguardo per il mio paese. Un madrelingua italiano è certo privilegiato, non solo per una questione di dizione, o – per citare un aspetto molto pratico – per la praticità nell’imparare (a memoria) la parte. In particolare, cantare nella propria lingua è un vantaggio soprattutto nel repertorio seicentesco dove, ancora più che nei repertori più tardi, il testo viene ancor prima della musica e conoscere la prosodia e le inflessioni della lingua è veramente importante. Quindi, per quanto riguarda il Seicento, essere madrelingua, sì, credo faccia la differenza. Al tempo stesso, ci sono tanti cantanti stranieri che cantano egregiamente in italiano, così come il contrario: noi italiani che cantiamo (spero bene, nel mio caso) in un’altra lingua. A me, per esempio, piace molto cantare in inglese (e non è affatto facile, se lo si vuole fare davvero bene), così come in tedesco, mentre purtroppo ho molte poche occasioni di cantare in francese perché il repertorio a me adatto non lo permette. Quando canto in una lingua che non è mia, mi sforzo veramente di rendere al meglio tutte le sfumature del testo, ma per forza di cose non potrà mai essere come nella propria madrelingua. Nel Seicento, con Monteverdi, Cavalli & co., i libretti sono talmente belli, di livelli poetici talmente alti, che saper cogliere anche le minime inflessioni del testo è essenziale per renderle poi al meglio nel canto.

Gluck, Orfeo ed Euridice (Orfeo), Roma 2019, regista Robert Carsen (foto © Fabrizio Sansoni)

RV – Monteverdi, Cavalli, Händel, Vivaldi: un repertorio stupendo e ricchissimo di capolavori che però in Italia non è poi così popolare. Solo un quinto delle produzioni in cui hai cantato sono state fatte in Italia, con la Francia il paese che forse frequenti di più. Cambieranno mai le cose da questo punto di vista nel nostro paese che dell’opera conosce e vuole ascoltare quasi soltanto il melodramma ottocentesco?
CV – Il recente grande successo de La Calisto alla Scala fa ben sperare: non era per nulla scontato per un autore come Cavalli, che comincia a essere proposto con una certa regolarità nei teatri europei, ma tuttora non è così rappresentato come Monteverdi. Se l’opera barocca viene messa in scena con allestimenti di livello, grandi registi e direttori di prestigio, il pubblico apprezza. Nei teatri provincia, con le dovute eccezioni, questo repertorio tarda invece ad affermarsi a causa della tradizione e dell’attaccamento popolare al melodramma ottocentesco e al repertorio verista. Ma qualcosa pian piano sta cambiando. Oltretutto, l’immenso repertorio barocco ha ancora molti tesori da far scoprire. Occorre solo un po’ più di coraggio per allineare il nostro paese a quanto avviene all’estero, ma mi pare che, anche se lentamente, ciò stia avvenendo.

Stradella, Il trespolo tutore (Nino), Genova 2020, registi Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi (foto © Stefano Pischiutta)

RV – Al di fuori del repertorio barocco hai cantato anche in un’opera contemporanea, l’Ospite in Luci mie traditrici di Salvatore Sciarrino alla Fenice – mentre a Bologna tre anni prima ci fu un mezzosoprano… Dopo Britten sembra che anche i compositori contemporanei abbiano scoperto questo registro vocale.
CV – È vero: il repertorio contemporaneo è molto attento alla voce di controtenore. Ricordo con grande piacere la produzione veneziana di Luci mie traditrici, un’opera che è ormai diventata quasi di repertorio, a più di vent’anni dalla sua composizione, con molte diverse edizioni nel corso degli anni. La scrittura delle voci di Sciarrino è molto idiomatica e vi si avverte il suo interesse per la musica del Cinque-Seicento, in questo caso di Gesualdo – alla cui travagliata storia personale è tra l’altro ispirata la trama –, ma anche di Stradella (si veda Ti vedo, ti sento, mi perdo – un altro dei suoi titoli così evocatori –, scritto per La Scala). Un’altra interessante esperienza è stata quella con Adriano Guarnieri per una video-opera ispirata al Paradiso di Dante, (L’amor che move il sole e l’altre stelle), eseguita al Ravenna Festival, così come la cantata Hermann di Paolo Baioni. Ho cantato anche Arvo Pärt (Stabat Mater), assieme a Mario Brunello. Sono tutte musiche scritte nella nostra epoca, ma spesso con uno sguardo al passato. È stato bello e interessante lavorare finalmente con compositori viventi che, in alcuni casi, hanno scritto proprio per la mia voce. Parlare con gli autori, scambiare idee, conoscere il perché di scelte espressive e stili aiuta molto nella resa interpretativa. L’opera contemporanea, oggi, sta vivendo un periodo di grande fortuna, con importanti produzioni: Thomas Adès, George Benjamin, Brett Dean sono presenti nei maggiori teatri del mondo. E poi John Adams, Philip Glass, il quale ha scritto un’opera, Akhnaten, che ha come protagonista proprio un controtenore. Questa vocalità aveva suscitato interesse nei compositori del Novecento inizialmente per la sua novità, per le potenzialità che andavano oltre la categorizzazione delle voci canoniche. Britten ha usato questo registro nei personaggi di Oberon o di Apollo per esprimere il senso del magico, mentre per i compositori di oggi credo che possa essere considerata una voce come un’altra – di fatto, è diventata il settimo registro disponibile. La musica contemporanea ha ovviamente le sue difficoltà, soprattutto quando deve essere cantata in scena, a memoria, senza spartito (come per me è avvenuto per l’opera di Sciarrino), ma è molto gratificante ricevere l’immediato feedback del compositore.

Händel, Ariodante (Polinesso), Mosca 2021, regista David Alden (foto © Damir Yusupov)

RV – Alarcón, Antonini, Capuano, Christie, Gardiner, Haïm, Marcon, Montanari, Sardelli, Spinosi… Sembra la lista dei maggiori direttori del mondo e hai cantato con tutti loro. Chi ricordi con maggior piacere? Con chi hai dovuto discutere un po’ più del solito?
CV – Sono tutti grandissimi artisti con i quali mi sento onorato di aver lavorato. Ognuno ha le sue caratteristiche distintive e una delle qualità di un cantante deve essere quella di adattarsi alle richieste del direttore. È un lavoro di comunanza d’intenti, un incontro di idee: il bello è proporre le proprie, come per esempio le variazioni nei Da Capo (in cui mi diverto a sbizzarrirmi – ma d’altronde così facevano all’epoca). Se proprio dovessi scegliere un nome cui sono particolarmente affezionato forse sarebbe quello di William Christie, il primo grande direttore del barocco con cui ho lavorato assiduamente e che mi ha formato e dato preziosi consigli: con lui ho fatto molti concerti e un’opera in scena (L’incoronazione di Poppea a Salisburgo nel 2018: una delle esperienze musicali più belle che ricordi). Quale forza riesce tuttora a trasmettere, quale senso del teatro, anche in concerto! Per fortuna non ho mai avuto esperienze negative, o scontri con direttori. Finora è andato sempre tutto liscio, e spero di proseguire così.

Gluck, Orfeo ed Euridice (Orfeo), Berlino 2022, regista Damiano Michieletto (foto © Axel Hindebrand)

RV – Robert Carsen e Damiano Michieletto sono i registi con cui invece hai lavorato ultimamente: come è stata questa esperienza? Come ti sei trovato con questi due personaggi così diversi nel loro approccio al teatro?
CV – Anche prima di conoscerli personalmente, Carsen e Michieletto erano tra i miei registi preferiti e dal punto di visto lavorativo e umano mi sono trovato benissimo con entrambi. Gli spettacoli di Carsen ormai sono dei classici pur essendo lui in piena attività (per nostra fortuna!). Con Michieletto quest’anno ho addirittura tre produzioni: Orfeo ed Euridice a Berlino, Giulio Cesare in Egitto a Parigi e Montpellier e poi ci sarà Alcina a Firenze, una ripresa dello spettacolo di Salisburgo con Cecilia Bartoli. Le prime due erano nuove produzioni ed è stato esaltante veder nascere due regie di titoli così importanti. Sono spettacoli in cui è richiesto un grande impegno fisico: nell’Orfeo, in particolare, non esco mai di scena e sono coinvolto anche nei balletti, che (a differenza della versione di Carsen) non sono stati tagliati. Michieletto e Carsen sono entrambi molto attenti alla recitazione ed entrambi sono attorniati da team eccezionali nella creazione delle scenografie, dei costumi e delle luci. Mi pare che l’ultima fase artistica di Michieletto punti più che in passato sul simbolismo e proceda per sottrazione – ferma restando la cura che dedica all’azione scenica. All’asciuttezza e all’astrazione delle scene (le meravigliose e complesse visioni di Paolo Fantin) si unisce dunque un grande scavo del personaggio, che è chiamato a esprimersi non solo con la voce ma anche col corpo. Con Carsen ho avuto il piacere di riprendere l’ormai classica sua produzione di Orfeo ed Euridice a Roma, una delle mie più grandi emozioni, se non la più grande, vissute sul palco finora. Uno spettacolo essenziale per illustrare una storia “vera”, diretta, che racconta il dolore della perdita, ambientato in una landa desolata, popolata da persone “reali”, il tutto sfrondato da ogni aspetto mitologico. Con lui ho fatto anche Rappresentatione di Anima, et di Corpo di Cavalieri a Vienna, un oratorio seicentesco, ricco di simboli e allegorie, difficile da mettere in scena, ma Carsen ne ha fatto un capolavoro teatrale, riportandolo a una dimensione terrena, umana, che parla a noi uomini del XXI secolo. È stato un successo incredibile di pubblico. Stilare classifiche lascia sempre il tempo che trova, ma in questo caso mi sento di dire che, per me, Carsen è il più grande regista d’opera della nostra epoca.

Händel, Giulio Cesare (Tolomeo), Parigi 2022, regista Damiano Michieletto (foto © Vincent Pontet)

RV – Cavalli a Martina Franca (Xerse), Monteverdi a Berlino (L’incoronazione di Poppea) e Vivaldi ad Amsterdam (Giustino): questi sono tra i tuoi prossimi impegni. Nel tuo futuro ci saranno delle sorprese? C’è un ruolo che vorresti cantare ma che finora nessuno ti ha offerto?
CV – Il Xerse di Cavalli è un ruolo stupendo, molto impegnativo per via della lunghezza della parte (voglio ringraziare, tra l’altro, il mio compagno, Luigi, che mi ha aiutato a memorizzarlo, durante questi ultimi impegnativi mesi, mentre ero occupato in altre produzioni), con una tessitura perfetta per me. Tra l’altro, il compositore cremasco è tra i miei preferiti di sempre. Sono molto contento di farlo con Sardelli e Muscato per il primo anno della direzione artistica di Sebastian Schwarz del Festival della Valle d’Itria. L’anno prossimo canterò il ruolo titolo nell’Orlando Furioso di Vivaldi in concerto al Théâtre des Champs-Élysées con Jean-Christophe Spinosi e tornerò alla Komische Oper di Berlino per Semele di Händel con la regia di Barrie Kosky (altro regista che adoro e che ritengo tra i più grandi d’oggi). Tra i ruoli che vorrei cantare in scena ci sono senz’altro, tra quelli händeliani, Orlando, Rinaldo e Didymus (in Theodora, un ruolo scritto, tra l’altro, per Gaetano Guadagni), e poi Mozart – Farnace in Mitridate e Ascanio – e, perché no, Rossini! Ho già cantato La petite messe solennelle (era uno dei miei sogni nel cassetto, ed è stato il mio ultimo concerto prima del lockdown di marzo 2020), e mi piacerebbe cantare Tancredi. Chissà, vedremo! E quando sarò più agé ci saranno i ruoli di nutrice, ma per questi c’è ancora tempo…

Händel, Alcina (Ruggiero), Firenze 2022, regista Damiano Michieletto (foto © Michele Monasta)

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