La damnation de Faust

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Hector Berlioz, La damnation de Faust

★★★☆☆

Roma, Teatro dell’Opera, 12 dicembre 2017

Michieletto divide il pubblico dell’Opera di Roma

Ad appena cinque giorni da quello di Milano, un altro evento mondano accende i riflettori sull’opera lirica in Italia: questa volta è l’inaugurazione della stagione romana con quel lavoro di Berlioz che per molto tempo è stato considerato irrappresentabile, ma che invece, proprio per la sua mancanza di drammaturgia tradizionale, negli ultimi anni ha stimolato molti moderni metteurs en scène per la libertà che offre. Così si è avuta, tra le tante, la Damnation filosofica de La Fura dels Baus, quella da Terzo Reich di Terry Gilliam o quella fantascientifica di Alvis Hermanis, per citarne solo tre. Ora è la volta di quella “esistenziale” di Damiano Michieletto al Teatro Costanzi.

La libertà che Berlioz si era preso con Goethe, se la prende Michieletto con Berlioz, cambiando la vicenda: il suo Faust è uno studente di oggi vittima di bullismo, non un vecchio che anela alla gioventù ma un giovane che soffre la solitudine in un mondo ostile, il cui padre è un vecchio alcolizzato e che per la disperazione arriva al suicidio se non fosse fermato all’ultimo istante dal ricordo della madre morta. Ed è qui che Mefistofele entra nella vita di Faust, da cui si sente sotto sotto, ma neanche tanto sotto, attratto. Il diavolo ha qui la figura sorniona di un Alex Esposito che veste un ruolo tenendosi ben lontano dalla frusta iconografia della vecchia tradizione: ora in completo bianco e stivali di coccodrillo stile cafonal, ora in maschera da serpente tentatore in un eden di cartapesta finto ma ricco di rimandi pittorici “alti”.

Come è discontinua la scrittura di questa légende dramatique, affidata a quadri che hanno poca consequenzialità logica o temporale, così è discontinua e contradditoria la lettura di Michieletto, a cominciare dal controsenso di mettere il coro in alto su una gradinata che sovrasta la scena in una immobilità da oratorio come per un’esecuzione concertistica. Il coro ne La damnation de Faust è uno dei personaggi più dinamici di quest’opera e averlo messo fuori scena è un azzardo che porta il suo spettacolo a essere meno convincente del solito.

Un solo letto e pochi altri oggetti fanno parte della scenografia di Paolo Fantin che si esprime soprattutto con il gioco di luci accecanti degli ambienti che si aprono dietro due grandi pareti scorrevoli. Queste incorniciano lo schermo su cui si proiettano le immagini riprese da una steadycam di un per lo più ipercinetico Mefistofele. La critica di Michieletto a un certo uso delle immagini è evidente quando la scena di crudele bullismo, con la straniante colonna sonora della “marcia ungherese”, viene ripresa dai telefonini degli spietati compagni per poi diventare probabile oggetto di ulteriore scherno sulla rete.

Michieletto qui propone scene non proprio inedite e già viste altre volte, come i personaggi bambini con gli stessi abiti o i liquidi con cui cospargersi il corpo – di quello nero e vischioso aveva già fatto largamente uso Romeo Castellucci nel suo Moses und Aron, ma là rappresentava il petrolio, mentre qui non ha un ruolo chiaramente definito. Un certo gusto macabro del regista è evidenziato dalla bara che entra in scena all’inizio: Faust vi guarda dentro con raccapriccio e capiremo solo alla fine trattarsi, forse, del suo cadavere poiché Margherita è l’unica che risulti sopravvissuta, se non è invece il suo fantasma quello che vediamo. I forse e i se sono dovuti al fatto che molte delle scelte registiche qui risultano piuttosto vaghe, tra cui quella di Margherita che probabilmente è un parto della fantasia di Faust o un trucco di Mefistofele, chissà. Tant’è che a un certo punto Mefistofele si sostituirà a lei in un lungo e dettagliato bacio con Faust. Oppure quando ci saranno più Margherite in una scena di seduzione.

Sul piano musicale, da quel che si può intendere da una ripresa televisiva, Daniele Gatti enfatizza la lettura sinfonica del lavoro mettendo in luce gli aspetti visionari di una partitura tra le più utopiche della prima metà dell’Ottocento e che ancora oggi fa sembrare di grande modernità quest’opera di Berlioz. Mentre è evidente il buon risultato con l’orchestra, molto meno lo è quello con il coro: nascosto lassù in alto e comodamente seduto, era nella situazione più adatta per dare il meglio e invece la sua prestazione è stata del tutto deludente in quanto a dizione, precisione ed espressività con alcuni evidenti sbandamenti sonori.

In scena Alex Esposito dimostra la padronanza vocale e attoriale di cui sapevamo, ma qui nel personaggio di Mefistofele tocca i vertici: la lingua francese non è un ostacolo per l’incisività con cui il basso articola la parola e la rende espressiva pur in una sempre presente grande musicalità con un legato e un fraseggio magistrali. La stessa cosa non accade invece per il Faust di Pavel Černoch che si esibisce in una dizione manchevole e mostra difficoltà nel registro acuto che risulta flebile. Assieme a una certa mancanza di espressività si evidenzia il fatto che il tenore moravo forse non è nel suo ruolo più congeniale. Problemi di intonazione sono invece quelli della Margherita di Veronica Simeoni soprattutto nella sua “romanza” «D’amour l’ardente flamme» con cui inizia la quarta parte dell’opera.

Diviso il pubblico della prima: a sonori dissensi verso la regia si sono affiancati altrettanto sonori segnali di compiacimento. Essendo coprodotto col Regio di Torino e il Palau di Valencia ci sarà la possibilità di rivederlo un’altra volta. Chissà se saranno confermate le impressioni iniziali.

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