La serva padrona

★★☆☆☆

Da Pergolesi a Paisiello. Lo strano ménage di Uberto e Serpina

Intermezzo che Giovanni Paisiello musicò riprendendo l’opera omonima di Giovanni Battista Pergolesi composta nel 1733, La serva padrona andò in scena presso la corte dell’imperatrice russa Caterina la Grande a Carskoe Selo, San Pietroburgo, dove si trovava Paisiello nel 1781. Nella difficoltà di reperire adeguati libretti di opera buffa da musicare, genere particolarmente gradito dalla regnante, in occasione dell’onomastico del granduca Alessandro, che all’epoca aveva quattro anni, Paisiello riprese il libretto di Gennaro Antonio Federico a cui aggiunse una nuova aria per la protagonista e due duetti, tutti confluiti nella seconda parte. Non si sa chi sia l’autore dell’ampliamento del testo, ma è probabile che sia stato ripreso del materiale già scritto. In un caso l’aria “Donne vaghe, i studi nostri” riprende Le virtuose ridicole di Goldoni e Galuppi del 1752.

Se Pergolesi scrisse la parte musicale per soli archi, Paisiello fa invece largo impiego di strumenti a fiato: flauti, oboi, clarinetti, fagotti e corni, sempre in coppia.

Il ricco e attempato Uberto ha al suo servizio la giovane e furba Serpina che, con il suo carattere prepotente, approfitta della bontà del suo padrone. Uberto, per darle una lezione, le dice di voler prendere moglie: Serpina gli chiede di sposarla, ma lui, anche se è molto interessato, rifiuta. Per farlo ingelosire Serpina gli dice di aver trovato marito, un certo capitan Tempesta, che in realtà è l’altro servo, Vespone, travestito da soldato. Serpina chiede a Uberto una dote di 4000 scudi, ma egli, pur di non pagare, sposerà Serpina, la quale da serva diventa finalmente padrona.

«La condotta stilistica è ovviamente diversa da quella del lontano precedente pergolesiano; il segno nervoso di Pergolesi cede il passo a una cantabilità facile e distesa, a un fraseggio più ampio e simmetrico. Lo scarto stilistico è evidente anche nei confronti della prima maniera paisielliana, poiché di fronte al pubblico della corte imperiale il musicista rinuncia a una comicità eccessivamente chiassosa e caricata, a quel carattere “trop napolitain” che gli era stato attribuito da Galiani in una lettera a Madame d’Epanay del 1773. Le baruffe dei due personaggi sono perciò finemente stilizzate; nella figura di Serpina la sensualità prevale sull’aggressività pergolesiana, trovando piena espressione nel brano più esteso dell’opera, la già citata aria (“Donne vaghe”), in forma di rondò: uno dei pezzi dell’opera buffa italiana che maggiormente tradisce la comunanza di linguaggio con Mozart». (Francesco Blanchetti)

Con un lungo e abbastanza inutile prologo e un congedo scritti da Piero Rattalino, nell’aprile 2004 al teatro Sangiorgi di Catania viene messo in scena questo intermezzo di raro ascolto. L’orchestra del Teatro Massimo Bellini è diretta da Marco Zuccarini con risultati modesti. Tiziano Bracci e Gabriella Colecchia sono i due interpreti, Uberto vocalmente meglio di Serpina, mentre un Vespone anche troppo invadente è quello di Gianni Salvo, che è anche regista.

Allestimento volenteroso e ripresa poco più che amatoriale per una curiosità che aggiunge un altro piccolo tassello alla nostra conoscenza del Settecento musicale italiano.

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