Don Carlo

 

 

 Giuseppe Verdi, Don Carlo

Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre 2023

(diretta televisiva)

«Imbarazzante concerto in costume». «Spettacolo da ascoltare, non da vedere». «Serata bicefala tra vista e udito»

Non c’è recensione dello spettacolo inaugurale della stagione milanese che non riporti questa dicotomia tra una “regia musicale” di grandissimo livello e una “regia visiva” a dir poco conservativa, tanto che chi si fosse messo a guardare la diretta televisiva del 7 dicembre 2023 avrebbe pensato di trattarsi di un Sant’Ambroeus di cinquant’anni fa.

Terzo Don Carlo nel giro di pochi giorni in teatri non distanti tra loro – dopo quello del Circuito Emiliano e quello dell’OperaLombardia, anche il Teatro alla Scala inaugura per l’ottava volta la sua stagione con il capolavoro di Giuseppe Verdi – rigorosamente nella versione italiana del 1884 in quattro atti, vista ben 204 volte nella sala del Piermarini, ancora si aspetta di ascoltarne la versione originale in francese e in cinque atti, comunemente rappresentata invece nei teatri d’oltralpe, come è successo a Ginevra pochi mesi fa.

La trasmissione televisiva è stata fortemente disturbata per il maltempo nella zona in cui mi trovavo, tanto da non poterne fare una cronaca attendibile. Riporto quindi le opinioni di alcuni critici presenti in teatro di cui condivido l’opinione su quello che sono riuscito a vedere. Sulla regia di Lluís Pasqual così scrive Domenico Ciccone di OperaClick: «Limitandoci agli allestimenti visti negli ultimi 30 anni, dopo l’ipertrofismo folclorico di Zeffirelli, il concettualismo dei doppi di Stephane Braunschweig e il minimalismo in saldo di Peter Stein, abbiamo ora l’appagante didascalismo di Lluís Pasqual. Appagante, beninteso, per tutti coloro che continuano a invocare il ritorno all’Epoca d’Oro del Melodramma dove lo strapotere dei registi era di là da venire e si metteva in scena solo ed esclusivamente quello che l’autore voleva. E qui l’occhio viene per l’appunto appagato dai magnifici costumi di Franca Squarciapino, splendenti di oro e di un nero abbagliante (perdonateci l’ossimoro), con gorgiere e gioielli che evocano tutto il fasto della corte spagnola di metà seicento. Soluzioni di pregio vengono anche dall’impianto scenico di Daniel Bianco, una grande torre di alabastro che ruotando su sé stessa si apre a rivelare i vari ambienti librettistici, con contorno di cancellate istoriate, statue, busti e una gigantesca pala d’altare barocca dove alla fine dell’Autodafè troveranno posto Filippo ed Elisabetta (e grande merito va riconosciuto alle maestranze scaligere nella realizzazione pratica dell’impianto scenografico). Ma a fronte di tutto ciò la regia propriamente detta latita parecchio, se non del tutto, e quando qualcosa si vede, si vede proprio male. Pasqual ha in più occasioni dichiarato di aver voluto addentrarsi nelle quinte del potere e anche per questo mostrare l’Autodafè non come una sfilata di regime ma facendone vedere il backstage, la preparazione. Francamente non abbiamo trovato nulla di tutto ciò in una regia estremamente rinunciataria, dove lo sfarzo di corte verrebbe evocato con citazioni più o meno palesi dei dipinti di Velazquez, specialmente nella scena di San Giusto al primo atto che vede un ballo con tanto di nani e meninas reali a parodiare quanto si ascolta nella canzone del velo. Per il resto, il coro viene regolarmente lasciato ai lati del palco a mo’ di contorno fisso, i personaggi davanti al proscenio più o meno fissi anche loro, in piedi o stesi in terra. Una mano registica propriamente detta dovrebbe poi fare in modo che non si verifichino cose come Filippo II che intima a Posa «Restate!» avendolo avuto sempre alle sue spalle (e quindi con evidenti poteri divinatori nel sapere che stava andando via), o l’ingresso anticipato dello stesso Posa nella scena del carcere mentre sta scendendo la grata che dovrebbe delimitare il carcere stesso, tale che lo si vede attendere pazientemente prima di avanzare e aprire un cancelletto. Ma il culmine si raggiunge proprio nella scena dell’Autodafè, quando sotto il coro «Spuntato ecco il dì d’esultanza» entra una pletora di dame di corte e frati domenicani che si stendono informalmente a terra modello scampagnata, mentre gli eretici incappucciati vengono scortati da guardie reali a precipitare dentro una botola (metafora dell’averno infernale?) nella quale entrano con fin troppo evidente saltino effetto «Oplà!». Botola che poi si incendierà nel finale davanti alla pala d’altare umana succitata, con effetto barbecue di campagna; una cosa francamente imbarazzante che giustifica da sola i sacrosanti fischi indirizzati al regista nelle uscite finali».

Non molto diverso è quanto scrive Alessandro Mormile su Connessi allìOpera: «Stupisce che, in tempi in cui il dibattito fra tradizionalisti e sostenitori del Regietheater si fa sempre più acceso, chiedendosi dove debba posizionarsi l’ago della bilancia per trovare un giusto equilibrio, questo allestimento, che nasce forse con l’intento di accontentare tutti, fallisce il suo obiettivo, confermando come attenersi alla tradizione sia talvolta più difficile che provocare. Questo Don Carlo nasce infatti seguendo una linea d’intenti giusta, quella di mettere in evidenza la rivalità fra due poteri forti, quello dello Stato e della Chiesa, che condizionano anche i personaggi, smarriti e soli dinanzi all’incomunicabilità dovuta a contrasti politici e alle conseguenze di amori impossibili o non corrisposti; il tutto frutto di un dolore che diviene smarrimento d’anime. Ecco perché scegliere la via della tinta scura e monocroma potrebbe sembrare plausibile, se non fosse che regia e impianto scenico stesso appaiono troppo rigidi e monotoni: nulla altro che una torre centrale in finto alabastro che aprendosi a spicchi su una pedana girevole mostra cancellate finemente intarsiate e microcosmi spaziali, avvolti per lo più nelle tenebre, dove la vicenda si svolge. Neri sono anche i costumi in stile rinascimentale e l’oscurità è rotta solo da pennellate auree che, soprattutto nella scena dell’autodafé, si palesano nel gigantesco retablo dorato che domina la scena come segno di potere, fino a quando gli eretici sanguinanti vengono buttati in una botola e poi abbrustoliti con un improbabile fuocherello da caminetto artificiale mentre in sala vengono date le mezze luci al momento in cui la voce dal cielo invoca la pace divina per le «povere alme» sacrificate. Per altro anche le coreografie che mostrano, nel secondo quadro del primo atto, le ancelle della Principessa d’Eboli danzanti con un gruppo di nani lasciano alquanto a desiderare. La staticità dell’impianto, pur nella continua modulazione degli ambienti, trasmette freddezza, tanto che il tentativo di far tradizione viene a perdersi in quadri viventi che, come appunto quello dell’autodafé, seguono schematismi confusi nel credere che la pomposità della cerimonia debba esaurirsi in un cartone preparatorio del quadro stesso. Fra le molte scelte registiche discutibili ne citiamo due: quando Filippo II appare, ad apertura di sipario sul terzo atto, non solo ma con Eboli in vestaglia che gli consegna il cofanetto a prova del tradimento di Elisabetta, e quando il Grande inquisitore si presenta come fosse un porporato mentre dovrebbe essere un frate in abiti umili seppur detentore di un potere così grande da condizionare tutto e tutti. Segno che, in ambito registico, provocare è facile, ma se all’opposto si sceglie, come in questo caso, la via della tradizione allora bisogna saperlo fare bene». 

Rincara la dose Elvio Giudici: «Ma la tendenza della Scala attuale di scoperchiare sepolcri e riesumare gente come Kokkos, Marelli, De Ana, o riconfermare una Irina Brook firmataria d’uno spettacolo come Il matrimonio segreto (per non dire dell’orripilante regia appena vista all’Elfo d’un brutto testo pasticciato dal Gabbiano), e si potrebbe continuare: tendenza riprovevole, che traccia un percorso che neppure è passatista, semplicemente non è percorso, solo mesto pellegrinaggio in un cimitero. Come si possa pensare di fare del buon teatro accoppiando grande se non grandissimo esito musicale a un totale nulla sul palcoscenico, francamente non riesco a capirlo e tanto meno ad accettarlo. I bui anni del non-teatro durante la gestione Muti paiono sempre più essere la stella polare della Scala, all’insegna della colossale idiozia “la regia non deve infastidire la musica”, frase che in quei diciannove anni abbiamo sentito fino a farci disintegrare le orecchie (e non solo), negazione del concetto stesso di Teatro».

La direzione di Riccardo Chailly è elogiata ma con alcuni distinguo, come quelli di Stefano Jacini sul Giornale della musica: «Fin dalle prime battute Chailly ha ottenuto dall’orchestra il giusto colore brunito, talvolta misterioso. Straordinaria la sezione dei violoncelli, come esemplare il lungo preludio del quarto atto d’impressionante impatto sonoro, ma nitido in ogni particolare. La puntigliosità del direttore nel leggere ogni più piccolo dettaglio della partitura ha però creato talvolta effetti forse non voluti coi cantanti, un solo caso per tutti: il terzetto del primo atto dopo l’arrivo di Rodrigo e il suo «Ecco il regal suggello, i fiordalisi d’oro». Lo scambio mondano e disinvolto tra i personaggi, che dovrebbe risultare frizzante e giocoso, è rimasto penalizzato da un’analisi talmente dettagliata, che ha comportato un rallentamento dei tempi, appesantendo il tutto, e perdendo di vista la tensione dell’intero arco drammaturgico. Squilibri che si sono ripetuti più volte nel corso dell’opera». 

Unanimi invece i consensi sulle due interpreti femminili. Anna Netrebko (Elisabetta) sfoggia il suo glorioso strumento di cui non si sa se ammirare di più la sontuosità del timbro, l’eleganza delle mezze voci o la varietà di sfumature espressive. Il suo «Tu che le vanità» viene giustamente osannato dal pubblico. Come Eboli ritorna ancora una volta Elīna Garanča, vocalmente perfetta sia all’inizio con le galanterie e le agilità della “canzone del velo”, agguerrita poi nel terzetto, infine in «O don fatale» domina la tessitura più grave con grande agio. Il Don Carlo di Filippo Meli rivela luci ed ombre: fraseggio ricercato e timbro luminoso ma i suoni sono un po’ ondeggianti e gli acuti non sempre raggiunti in modo naturale. A Luca Salsi manca l’eleganza del Marchese di Posa, ma l’interprete è sempre attento alla parola ed espressivo. Non in perfetta forma vocale è Michele Pertusi (Filippo II) e infatti nell’intervallo il sovrintendente Meyer annuncia che, pur indisposto, il cantante continua la recita. Il suo «Ella giammai m’amò» risulta più che convincente per la tecnica che permette al basso parmense di raggiungere un risultato di eccellenza nonostante il problema alla gola e le ovazioni del pubblico lo ricompensano dello sforzo. L’Inquisitore, originariamente affidato ad Ain Anger, viene sostituito all’ultimo momento da Jongmin Park, Frate nel primo atto, dalla estensione maggiore in alto che nel grave. Ottimi gli altri interpreti secondari e così pure il coro. 

Opportunamente, Michele Gerardi non ha potuto fare a meno di dire la sua sull’azzardata miscela di ospiti del palco reale: «Purtroppo il palco reale offriva uno spettacolo desolante. Chissà cosa può aver pensato gente simile quando ha assistito alle riflessioni di Filippo II, al duetto con Posa e con l’inquisitore, al meraviglioso finale, solo apparentemente una scena del soprannaturale, in realtà un messaggio che parla all’umanità di ogni tempo: dal 1867!».