Achille de Lauzières

Don Carlo

 

 

 Giuseppe Verdi, Don Carlo

Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre 2023

(diretta televisiva)

«Imbarazzante concerto in costume». «Spettacolo da ascoltare, non da vedere». «Serata bicefala tra vista e udito»

Non c’è recensione dello spettacolo inaugurale della stagione milanese che non riporti questa dicotomia tra una “regia musicale” di grandissimo livello e una “regia visiva” a dir poco conservativa, tanto che chi si fosse messo a guardare la diretta televisiva del 7 dicembre 2023 avrebbe pensato di trattarsi di un Sant’Ambroeus di cinquant’anni fa.

Terzo Don Carlo nel giro di pochi giorni in teatri non distanti tra loro – dopo quello del Circuito Emiliano e quello dell’OperaLombardia, anche il Teatro alla Scala inaugura per l’ottava volta la sua stagione con il capolavoro di Giuseppe Verdi – rigorosamente nella versione italiana del 1884 in quattro atti, vista ben 204 volte nella sala del Piermarini, ancora si aspetta di ascoltarne la versione originale in francese e in cinque atti, comunemente rappresentata invece nei teatri d’oltralpe, come è successo a Ginevra pochi mesi fa.

La trasmissione televisiva è stata fortemente disturbata per il maltempo nella zona in cui mi trovavo, tanto da non poterne fare una cronaca attendibile. Riporto quindi le opinioni di alcuni critici presenti in teatro di cui condivido l’opinione su quello che sono riuscito a vedere. Sulla regia di Lluís Pasqual così scrive Domenico Ciccone di OperaClick: «Limitandoci agli allestimenti visti negli ultimi 30 anni, dopo l’ipertrofismo folclorico di Zeffirelli, il concettualismo dei doppi di Stephane Braunschweig e il minimalismo in saldo di Peter Stein, abbiamo ora l’appagante didascalismo di Lluís Pasqual. Appagante, beninteso, per tutti coloro che continuano a invocare il ritorno all’Epoca d’Oro del Melodramma dove lo strapotere dei registi era di là da venire e si metteva in scena solo ed esclusivamente quello che l’autore voleva. E qui l’occhio viene per l’appunto appagato dai magnifici costumi di Franca Squarciapino, splendenti di oro e di un nero abbagliante (perdonateci l’ossimoro), con gorgiere e gioielli che evocano tutto il fasto della corte spagnola di metà seicento. Soluzioni di pregio vengono anche dall’impianto scenico di Daniel Bianco, una grande torre di alabastro che ruotando su sé stessa si apre a rivelare i vari ambienti librettistici, con contorno di cancellate istoriate, statue, busti e una gigantesca pala d’altare barocca dove alla fine dell’Autodafè troveranno posto Filippo ed Elisabetta (e grande merito va riconosciuto alle maestranze scaligere nella realizzazione pratica dell’impianto scenografico). Ma a fronte di tutto ciò la regia propriamente detta latita parecchio, se non del tutto, e quando qualcosa si vede, si vede proprio male. Pasqual ha in più occasioni dichiarato di aver voluto addentrarsi nelle quinte del potere e anche per questo mostrare l’Autodafè non come una sfilata di regime ma facendone vedere il backstage, la preparazione. Francamente non abbiamo trovato nulla di tutto ciò in una regia estremamente rinunciataria, dove lo sfarzo di corte verrebbe evocato con citazioni più o meno palesi dei dipinti di Velazquez, specialmente nella scena di San Giusto al primo atto che vede un ballo con tanto di nani e meninas reali a parodiare quanto si ascolta nella canzone del velo. Per il resto, il coro viene regolarmente lasciato ai lati del palco a mo’ di contorno fisso, i personaggi davanti al proscenio più o meno fissi anche loro, in piedi o stesi in terra. Una mano registica propriamente detta dovrebbe poi fare in modo che non si verifichino cose come Filippo II che intima a Posa «Restate!» avendolo avuto sempre alle sue spalle (e quindi con evidenti poteri divinatori nel sapere che stava andando via), o l’ingresso anticipato dello stesso Posa nella scena del carcere mentre sta scendendo la grata che dovrebbe delimitare il carcere stesso, tale che lo si vede attendere pazientemente prima di avanzare e aprire un cancelletto. Ma il culmine si raggiunge proprio nella scena dell’Autodafè, quando sotto il coro «Spuntato ecco il dì d’esultanza» entra una pletora di dame di corte e frati domenicani che si stendono informalmente a terra modello scampagnata, mentre gli eretici incappucciati vengono scortati da guardie reali a precipitare dentro una botola (metafora dell’averno infernale?) nella quale entrano con fin troppo evidente saltino effetto «Oplà!». Botola che poi si incendierà nel finale davanti alla pala d’altare umana succitata, con effetto barbecue di campagna; una cosa francamente imbarazzante che giustifica da sola i sacrosanti fischi indirizzati al regista nelle uscite finali».

Non molto diverso è quanto scrive Alessandro Mormile su Connessi allìOpera: «Stupisce che, in tempi in cui il dibattito fra tradizionalisti e sostenitori del Regietheater si fa sempre più acceso, chiedendosi dove debba posizionarsi l’ago della bilancia per trovare un giusto equilibrio, questo allestimento, che nasce forse con l’intento di accontentare tutti, fallisce il suo obiettivo, confermando come attenersi alla tradizione sia talvolta più difficile che provocare. Questo Don Carlo nasce infatti seguendo una linea d’intenti giusta, quella di mettere in evidenza la rivalità fra due poteri forti, quello dello Stato e della Chiesa, che condizionano anche i personaggi, smarriti e soli dinanzi all’incomunicabilità dovuta a contrasti politici e alle conseguenze di amori impossibili o non corrisposti; il tutto frutto di un dolore che diviene smarrimento d’anime. Ecco perché scegliere la via della tinta scura e monocroma potrebbe sembrare plausibile, se non fosse che regia e impianto scenico stesso appaiono troppo rigidi e monotoni: nulla altro che una torre centrale in finto alabastro che aprendosi a spicchi su una pedana girevole mostra cancellate finemente intarsiate e microcosmi spaziali, avvolti per lo più nelle tenebre, dove la vicenda si svolge. Neri sono anche i costumi in stile rinascimentale e l’oscurità è rotta solo da pennellate auree che, soprattutto nella scena dell’autodafé, si palesano nel gigantesco retablo dorato che domina la scena come segno di potere, fino a quando gli eretici sanguinanti vengono buttati in una botola e poi abbrustoliti con un improbabile fuocherello da caminetto artificiale mentre in sala vengono date le mezze luci al momento in cui la voce dal cielo invoca la pace divina per le «povere alme» sacrificate. Per altro anche le coreografie che mostrano, nel secondo quadro del primo atto, le ancelle della Principessa d’Eboli danzanti con un gruppo di nani lasciano alquanto a desiderare. La staticità dell’impianto, pur nella continua modulazione degli ambienti, trasmette freddezza, tanto che il tentativo di far tradizione viene a perdersi in quadri viventi che, come appunto quello dell’autodafé, seguono schematismi confusi nel credere che la pomposità della cerimonia debba esaurirsi in un cartone preparatorio del quadro stesso. Fra le molte scelte registiche discutibili ne citiamo due: quando Filippo II appare, ad apertura di sipario sul terzo atto, non solo ma con Eboli in vestaglia che gli consegna il cofanetto a prova del tradimento di Elisabetta, e quando il Grande inquisitore si presenta come fosse un porporato mentre dovrebbe essere un frate in abiti umili seppur detentore di un potere così grande da condizionare tutto e tutti. Segno che, in ambito registico, provocare è facile, ma se all’opposto si sceglie, come in questo caso, la via della tradizione allora bisogna saperlo fare bene». 

Rincara la dose Elvio Giudici: «Ma la tendenza della Scala attuale di scoperchiare sepolcri e riesumare gente come Kokkos, Marelli, De Ana, o riconfermare una Irina Brook firmataria d’uno spettacolo come Il matrimonio segreto (per non dire dell’orripilante regia appena vista all’Elfo d’un brutto testo pasticciato dal Gabbiano), e si potrebbe continuare: tendenza riprovevole, che traccia un percorso che neppure è passatista, semplicemente non è percorso, solo mesto pellegrinaggio in un cimitero. Come si possa pensare di fare del buon teatro accoppiando grande se non grandissimo esito musicale a un totale nulla sul palcoscenico, francamente non riesco a capirlo e tanto meno ad accettarlo. I bui anni del non-teatro durante la gestione Muti paiono sempre più essere la stella polare della Scala, all’insegna della colossale idiozia “la regia non deve infastidire la musica”, frase che in quei diciannove anni abbiamo sentito fino a farci disintegrare le orecchie (e non solo), negazione del concetto stesso di Teatro».

La direzione di Riccardo Chailly è elogiata ma con alcuni distinguo, come quelli di Stefano Jacini sul Giornale della musica: «Fin dalle prime battute Chailly ha ottenuto dall’orchestra il giusto colore brunito, talvolta misterioso. Straordinaria la sezione dei violoncelli, come esemplare il lungo preludio del quarto atto d’impressionante impatto sonoro, ma nitido in ogni particolare. La puntigliosità del direttore nel leggere ogni più piccolo dettaglio della partitura ha però creato talvolta effetti forse non voluti coi cantanti, un solo caso per tutti: il terzetto del primo atto dopo l’arrivo di Rodrigo e il suo «Ecco il regal suggello, i fiordalisi d’oro». Lo scambio mondano e disinvolto tra i personaggi, che dovrebbe risultare frizzante e giocoso, è rimasto penalizzato da un’analisi talmente dettagliata, che ha comportato un rallentamento dei tempi, appesantendo il tutto, e perdendo di vista la tensione dell’intero arco drammaturgico. Squilibri che si sono ripetuti più volte nel corso dell’opera». 

Unanimi invece i consensi sulle due interpreti femminili. Anna Netrebko (Elisabetta) sfoggia il suo glorioso strumento di cui non si sa se ammirare di più la sontuosità del timbro, l’eleganza delle mezze voci o la varietà di sfumature espressive. Il suo «Tu che le vanità» viene giustamente osannato dal pubblico. Come Eboli ritorna ancora una volta Elīna Garanča, vocalmente perfetta sia all’inizio con le galanterie e le agilità della “canzone del velo”, agguerrita poi nel terzetto, infine in «O don fatale» domina la tessitura più grave con grande agio. Il Don Carlo di Filippo Meli rivela luci ed ombre: fraseggio ricercato e timbro luminoso ma i suoni sono un po’ ondeggianti e gli acuti non sempre raggiunti in modo naturale. A Luca Salsi manca l’eleganza del Marchese di Posa, ma l’interprete è sempre attento alla parola ed espressivo. Non in perfetta forma vocale è Michele Pertusi (Filippo II) e infatti nell’intervallo il sovrintendente Meyer annuncia che, pur indisposto, il cantante continua la recita. Il suo «Ella giammai m’amò» risulta più che convincente per la tecnica che permette al basso parmense di raggiungere un risultato di eccellenza nonostante il problema alla gola e le ovazioni del pubblico lo ricompensano dello sforzo. L’Inquisitore, originariamente affidato ad Ain Anger, viene sostituito all’ultimo momento da Jongmin Park, Frate nel primo atto, dalla estensione maggiore in alto che nel grave. Ottimi gli altri interpreti secondari e così pure il coro. 

Opportunamente, Michele Gerardi non ha potuto fare a meno di dire la sua sull’azzardata miscela di ospiti del palco reale: «Purtroppo il palco reale offriva uno spettacolo desolante. Chissà cosa può aver pensato gente simile quando ha assistito alle riflessioni di Filippo II, al duetto con Posa e con l’inquisitore, al meraviglioso finale, solo apparentemente una scena del soprannaturale, in realtà un messaggio che parla all’umanità di ogni tempo: dal 1867!».

Don Carlo

 Giuseppe Verdi, Don Carlo

Napoli, Teatro di San Carlo, 29 novembre 2022

★★★★☆

(live streaming)

Un possente Don Carlo inaugura la stagione del San Carlo

La stagione del San Carlo si inaugura col Don Carlo nella versione italiana e in cinque atti a 150 anni dalla serata napoletana del 1872. Si tratta grosso modo della versione di Modena, una delle cinque (o sette?) versioni esistenti di questo sofferto capolavoro. Questo è uno dei rari casi in cui la traduzione, di Achille de Lauzières, non solo non tradisce l’originale, ma ne è addirittura superiore in certi punti. Saltata la prima per lutto a causa della sciagura di Ischia, la replica del 29 novembre è trasmessa in streaming, purtroppo in una registrazione con molte pecche.

Nella intrigante messa in scena di Claus Guth ci sono forti rimandi visivi: il pavimento a scacchiera, un evidente omaggio alla città di Napoli, è quello della Cappella Vasari di Sant’Anna dei Lombardi; il reliquiario che accompagna l’ingresso di Filippo II è quello della mano di Santa Teresa d’Avila che il Generalissimo Franco teneva nella sua camera da letto (grazie a Giuseppe Imparato per queste informazioni); il quadro di Francisco Goya Carlo IV di Spagna e la sua famiglia pende un po’ sbilenco sullo sfondo, a mano a mano si scurisce e nel finale viene staccato dal muro e diventa pietra tombale e poi botola in cui sparisce Don Carlo; Il buffone Sebastián de Morra di Diego Velázquez è invece il modello per il nano di corte, il quasi sempre presente in scena e bravissimo attore Fabián Augusto Gómez che è ora un alter ego di Carlo, ora un grottesco Cupido, ora il “munaciello” – lo spiritello dispettoso delle case napoletane – unico elemento di disturbo in un mondo freddo, rigido e brutale.

La scenografia di Étienne Pluss ricrea le severe atmosfere dell’Escurial in una grande sala attorniata da un coro ligneo cinquecentesco. Tutto è cupamente claustrofobico, non ci sono esterni, anche il primo atto ricrea «l’orror della foresta» di Fontainebleau in una tinta scura. I bellissimi costumi di Petra Reinhardt appartengono a tre epoche: il Cinquecento per Elisabetta ed Eboli, l’Ottocento e la contemporaneaità per Carlo e l’Inquisitore, che qui non è un vecchio frate cieco ma un grigio burocrate simbolo di un potere, non solo religioso, che si avvale di figure nere e incappucciate. Il bianco e nero sono i non-colori di un allestimento illuminato dalle luci radenti di Olaf Freese che creano le lunghe ombre dei personaggi che così sembrano prigionieri di un potere implacabile, di una ragion di stato contro la quale non possono opporsi. La regia di Guth, debuttante sul palcoscenico napoletano, è intensa e piena di idee, non tutte nuovissime magari – come quando si vede Eboli lasciare il letto di Filippo («L’error che v’imputai, | io… io stessa aveva commesso!» confessa a Elisabetta) e quello stesso letto diventa il lettino da psicanalista per il re davanti al Grande Inquisitore – ma sono efficaci e di bellissimo impatto visivo. La struttura di una famiglia lacerata è analizzata da Guth con la consueta profondità e la capacità attoriale degli interpreti dà a questo Don Carlo il carattere di un dramma psicologico. Don Carlo è sempre presente in scena e il regista lo dipinge come un adolescente turbato, segnato da un’infanzia senza madre, dalla presenza di un padre imperioso e dall’amicizia con il coetaneo Rodrigo, compagno di giochi di infanzia come vediamo nei nostalgici video di Roland Horvath, sorta di flashback ricorrente.

Interprete belcantista, Matthew Polenzani non ha tratti eroici ma la voce del tenore americano è perfettamente adatta alla visione del regista: i suoi momenti migliori sono quelli lirici o introspettivi, quando usa mezze voci sussurrate e piani legati in un fraseggio trasparente e leggero. Ancora più forte è così il contrasto col padre, un Michele Pertusi ineguagliabile nel delineare Filipp come   monarca combattuto dai rimorsi: ancora una volta il baritono parmense dà una preziosa lezione di interpretazione con mezzi che non vogliono accusare la stanchezza dell’età, tanto che col Grande Inquisitore, il basso Alexander Tsymbalyuk, riesce a reggere e superare il confronto vocale. Altra voce mschile di eccezionale livello quella di Ludovic Tézier che ritorna ancora una volta nella parte del Marchese di Posa con nobiltà, bellezza di timbro, eleganza e sensibilià che raggiungono l’apice nei duetti con Carlo e nella scena dell’addio vita. Ailyn Pérez compensa con il temperamento una voce un po’ leggera per il ruolo di Elisabetta, mentre Elīna Garanča si dimostra ancora una volta una Eboli di straordinaria presenza vocale e scenica. Su livello decisamente inferiore invece il Tebaldo di Cassandre Berthon mentre si dimostrano efficaci gli altri comprimari (i sei deputati, il Conte di Lerma e  l’Araldo membri del coro e dalla Accademia del teatro la voce dal cielo, qui invece in carne e ossa sul palcoscenico che attraversa inopinatamente vestita da Madonna) e il coro del teatro diretto da José Luis Basso. Corretta ma non delle più trascinanti la direzione di Juraj Valčuha e con piccole sbavature nell’orchestra, ma nel complesso si è trattato di una performance di grande impatto e accolta da prolungati applausi, particolarmente calorosi nei confronto di Pertusi, Tézier e Garanča.

Don Carlo

Giuseppe Verdi, Don Carlo

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 17 aprile 2013

Il Regio celebra i suoi primi quarant’anni

Opera che dà la possibilità ai costumisti di sfoggiare le loro creazioni più ricche e sontuose, agli scenografi di allestire i grandiosi e cupi ambienti del Siglo de Oro spagnolo, ai cantanti di affrontare ruoli tra i più leggendari del mondo lirico. Tutto questo è il Don Carlos/Don Carlo, tra i lavori più imponenti di Verdi e uno dei vertici della sua gloriosa carriera.

A questo si aggiunge però il problema di quale delle tante versioni scegliere. Per celebrare i quarant’anni dalla sua apertura il (Nuovo) Teatro Regio di Torino ripropone lo spettacolo di Hugo de Ana già visto nel 2006. La versione è quella nella traduzione italiana e in quattro atti, mancano quindi l’episodio di Fontainebleau e i ballabili del terzo atto, ma ci guadagnano concisione e forza drammatica. Gianandrea Noseda mantiene in perfetto equilibrio l’orchestra e il palcoscenico, privilegiando le atmosfere più rarefatte e cameristiche rispetto a quelle più enfatiche suggerite dalla partitura. La sua è una lettura di una certa asciuttezza e come sempre attenta è la concertazione delle voci che qui formano un cast non del tutto omogeneo. Accanto alle prove maiuscole di Il’dar Abdrazakov e Ludovic Tézier – rispettivamente un Filippo imponente ma credibile sia nei monologhi sia nei numeri di insieme e un Rodrigo di grande eleganza – si sono sentite sulla scena voci non pienamente convincenti come quelle di Ramón Vargas, un Don Carlo un po’ manchevole nel registro acuto; Daniela Barcellona qui non a fuoco come Principessa d’Eboli; Barbara Frittoli Elisabetta cui manca più potenza; Marco Spotti Grande Inquisitore un po’ spento. Di buon livello le altre parti con Roberto Tagliavini (un frate), Erika Grimaldi (una voce dal cielo), Dario Prola (Conte di Lerma).

Lo spettacolo di Hugo de Ana, che firma regia, scene e costumi, è così descritto da Giancarlo Landini: «Fedele al tempo dell’azione, De Ana costruisce una scena grandiosa che rivive con raffinato gusto visivo la monumentalità oppressiva dell’Escorial. Mentre la illustra con soluzioni di singolare fascino, la eleva a correlativo-oggettivo della claustrofobia morale dei personaggi, vittime di contrapposte tensioni, a cominciare da Filippo stesso prigioniero prima che signore della reggia e del sistema che egli ha voluto. Le grandi colonne, che fungono da quinte e che muovendosi modificano la prospettiva, incombono sul palco. Creano gli enormi spazi del Convento di San Giusto, dove i personaggi si muovono smarriti in un’atmosfera arcana, percorsa da cori en coulisse e da misteriose presenze. Si ritraggono per lasciare spazio alla gran piazza, chiusa dalla grande facciata marmorea di Nostra Signora d’Atocha, concepita secondo lo stile architettonico di un Rinascimento fiammeggiante, che fa da vetrina allo splendore di una monarchia indiscutibile. Si fanno incombenti nello studio di Filippo e nella scena del carcere. Le luci sapienti di Sergio Rossi avvolgono la scena in una penombra che, con l’ovvia eccezione del Finale del III Atto, contribuisce a rendere il clima dell’opera. Proprio per la capacità di ricondurre ogni elemento alla sua funzione drammatica, sarebbe ingiusto e decisamente sbagliato ritenere lo spettacolo di De Ana meramente illustrativo, come se la regia debba necessariamente ridursi all’applicazione di soluzioni alternative al teatro di tradizione. Al contrario il regista è sempre presente. Lo si coglie nello scavo dei personaggi e nel disegno dei loro rapporti. Basterà qualche esempio: Eboli che spia l’incontro tra Posa e Filippo; la consumata abilità con cui Posa distoglie Eboli che con caparbia determinazione vuole avvicinarsi alla regina intenta a scorrere la segreta missiva di Carlo; l’episodio della contessa d’Aremberg. Il risultato è una lettura fluida, sempre efficace». Il pubblico torinese ha dimostrato con gli applausi di aver apprezzato.

Don Carlo

Giuseppe Verdi, Don Carlo

Venezia, Teatro La Fenice, 24 novembre 2019

★★★★☆

(live streaming)

Don Carlo, storia nera quanto mai nella lettura di Carsen

La stagione della Fenice parte nonostante l’acqua alta che non molti giorni prima ha allagato alcuni locali dell’edificio e bloccato la città. Il Don Carlo nella versione italiana in quattro atti del 1884 viene proposto nell’allestimento di Strasburgo di Robert Carsen, che sceglie un’ambientazione moderna e rigorosamente minimalista tutta basata sul nero dei semplicissimi costumi di Petra Reinhardt (anche il popolo è in nero ed è tutto un andirivieni di preti e suore) e sul grigio antracite dell’impianto scenografico di Radu Boruzescu, una scatola fissa e opprimente («la vôlta nera […] dell’Escurial» sembra pervadere tutta l’opera) con alcune aperture per suggerire i diversi ambienti. Un non-luogo astratto e claustrofobico che fa del vuoto scenico la chiave di lettura della regia di Carsen dove anche il giardino è una distesa di gigli recisi sul pavimento nero o di bare (ben 24!) nella scena del chiostro. Le luci, dello stesso regista e di Peter Van Praet, non attenuano il nero essendo sempre radenti, con i volti illuminati quasi sempre soltanto a metà. Nella visione di Carsen non c’è nulla dell’opulenza e dei colori di una corte spagnola, l’atmosfera è bensì quella cupa della corte di Danimarca e l’Infante Don Carlo ricorda il principe Amleto – volto pallido, t-shirt e pantaloni neri – teschio compreso. I rapporti personali qui sono soffocati dalla ragion di stato e dal predominante conflitto tra il potere temporale e la Chiesa con la storia d’amore tra Carlo ed Elisabetta governata da un profondo senso di colpa. La mancanza dell’atto di Fontainebleau rende ancora più distante, quasi onirico, quel momento da loro rimpianto. Sempre di gran livello è la regia attoriale, con efficaci movimenti delle masse e una gestualità stilizzata per i protagonisti.

Il problema dell’irrisolto finale del Don Carlo è affrontato da Carsen in maniera molto spregiudicata. Nel testo originale Schiller stupisce per la fulminante conclusione:

CARLO Addio, Madre! […] Alcun mistero | più tra noi non sarà; né voi gli sguardi | temer del mondo più dovrete. È questo | l’ultimo inganno mio. (in atto di riprendere la maschera, il Re si pianta fra loro)
RE E l’ultimo! (la Regina cade svenuta)
CARLO (accorre e la riceve fra le sue braccia) È morta? | O Re del cielo!
RE (freddo e tranquillo al Grande Inquisitore) Cardinale, al mio | debito satisfeci; or fate il vostro! (parte. Cala il sipario)

Questo nella traduzione del Maffei che conosceva Verdi, il quale però volle un finale diverso e sia nel libretto originale francese sia nella traduzione italiana si ha quindi un lieto fine con una poco convincente irruzione del soprannaturale:

INQUISITORE Guardie!
DON CARLO Dio mi vendicherà! | Il tribunal di sangue sua mano spezzerà! (Don Carlo, difendendosi, indietreggia verso la tomba di Carlo V. Il cancello si apre, apparisce il Frate. È Carlo V col manto e co’ la corona reale)
UN FRATE (a Don Carlo) Il duolo della terra | nel chiostro ancor c’insegue, | solo del cor la guerra | in ciel si calmerà!
INQUISITORE È la voce di Carlo!
CORO È Carlo quinto!
FILIPPO (spaventato) Mio padre!
ELISABETTA Oh, Ciel! (Carlo V trascina nel chiostro Don Carlo smarrito. Cala la tela lentamente)

Nella versione francese dopo il «Gran Dieu!» di Elisabetta si sentono ancora i monaci fuori scena che riprendono il coro («Charles Quint, l’auguste empereur, | n’est plus que cendre et que poussière.») con cui era iniziato il secondo atto.

Carsen invece mette in scena uno stravolgente finale di cui si avevano avute due avvisaglie: la prima quando Carlo affida all’amico le carte compromettenti e il pubblico aveva visto Rodrigo sbirciarle di nascosto per poi passarle all’Inquisitore; e la seconda quando, dopo essere stato ucciso, si era rialzato da terra e aveva stretto la mano all’Inquisitore con aria di intesa. È stata tutta una congiura, dunque, e nel finale il Frate spara sia a Don Carlo che a Filippo, mentre sul fondo avanza Rodrigo con le stesse pesanti bardature che avevamo visto mettere addosso a Filippo per la sua incoronazione. Un’altra pedina in mano al potere ecclesiastico.

Il capovolgimento del ruolo del marchese di Posa di per sé ha una sua logica e risolve in maniera definitiva il finale altrimenti ambiguo, ma così toglie significato al bellissimo duetto nella prigione di Carlo e la nostra sincera commozione viene così messa in ridicolo, trattandosi di una presa in giro. Non tutto il pubblico veneziano ha preso molto bene la soluzione accogliendo con alcuni dissensi l’uscita del regista alla fine.

La parte musicale, affidata alla bacchetta dell’amato (qui a Venezia) Myung-Whun Chung, si dimostra coerente con il rigore della drammaturgia scelta, con l’esaltazione dell’aspetto sinfonico di questo lavoro verdiano così particolare e originale e un ritmo incalzante. L’orchestra risponde in maniera eccellente con pienezza di suono e una ricca tavolozza timbrica. La concertazione delle voci è sempre di alto livello pur svolgendosi con tre debuttanti nei ruoli maschili principali. Piero Pretti si esprime efficacemente nell’impegnativa parte titolare rivolgendo la sua relativamente debole espressività attoriale per delineare un Infante introverso e sfortunato. Voce bella e generosa, anche troppo talora, quella di Julian Kim, qui infido Marchese di Posa. La presenza scenica di Alex Esposito è tenuta sotto controllo dall’impostazione registica e del baritono ci si “accontenta” di ammira la bellezza vocale, il fraseggio scolpito, la ricchezza espressiva. Marco Spotti ripropone il suo Inquisitore approfondendo ancora più il personaggio. Non del tutto a fuoco vocalmente risulta invece il Frate di Leonard Bernad. Nel reparto femminile la sensibilità e il controllo vocale di Maria Agresta fanno di Elisabetta di Valois un personaggio del tutto convincente soprattutto nei momenti lirici. La Principessa d’Eboli di Veronica Simeoni più che nella “canzone saracina” dà il meglio di sé per temperamento nel duetto con Elisabetta alla fine della parte prima del terzo atto. Il coro preparato da Claudio Marino Moretti fornisce ottima prova in un lavoro impegnativo non solo per i solisti.

Don Carlo

fotografie © Rocco Casaluci

Giuseppe Verdi, Don Carlo

★★★☆☆

Bologna, Teatro Comunale, 6 giugno 2018

Anche stavolta è meglio chiudere gli occhi

Come ricorda Giorgio Pestelli nel suo intervento nel programma di sala, l’Italia musicale della seconda metà del l’Ottocento era in crisi: «La nuova produzione è in depressione ciclonica e sta per essere sostituita dal cosiddetto repertorio, cioè dalle opere già conosciute riprese con favore crescente; i teatri d’opera, da vetrina del presente, si avviano a divenire musei dei capolavori del passato». Suona stranamente attuale, vero?

Verdi allora si rivolge alle commissioni straniere: San Pietroburgo (La forza del destino), Il Cairo (Aida) e appunto Parigi dove il Don Carlos debutta l’11 marzo 1867 alla Salle le Peletier, in cinque atti e ovviamente in francese. L’opera giunge poi in Italia il 27 ottobre proprio qui al Comunale.

Ora è di nuovo a Bologna, ma nella seconda versione, quella in italiano e in quattro atti con numerose varianti, l’eliminazione del primo atto e dei ballabili del terzo. È in questa versione, la preferita nel nostro paese, che venne data alla Scala nel 1884.

La stesura in quattro atti era stata preparata senza entusiamo dal compositore stesso per Vienna: «In questa città, voi sapete che alle dieci di sera i portinai chiudono la porta principale delle case, e tutti a quell’ora mangiano e bevono Birra e Gâteaux. Per conseguenza il Teatro, ossia lo spettacolo, dev’essere allora finito […] Dal momento che mi si dovevano tagliar le gambe, ho preferito affilare ed adoperare io stesso il coltello» scrive Verdi il 3 dicembre 1882 a Giuseppe Piroli. Poi però il compositore se ne dimostrò soddisfatto: «Il D. Carlos è ora ridotto in quattro atti e sarà più comodo, e credo anche migliore, artisticamente parlando. Più concisione e più nerbo», lettera del 15 marzo 1883 all’amico Arrivabene. Nel 1887, però, Verdi accettava che, prima a Modena e poi in tutti gli altri teatri, il Don Carlo andasse in scena con il ripristino del primo atto e  senza balletto. E questa è la terza versione, in italiano. Volendo si può anche parlare della versione di Napoli (1872), contenente alcune varianti fatte per il Teatro di San Carlo.

Per quanto riguarda le due lingue dell’opera, anche se qui il testo italiano è entrato indelebilmente nella nostra mente, in molti punti si sente che la musica è nata in francese, gli accenti sono più giusti e la prosodia è più vicina all’invenzione musicale.  È vero però che la versione italiana ha di converso una sua maggiore “teatralità”: «Dunque il trono piegar dovrà sempre all’altare!» è indubbiamente più altisonante di «L’orgueil du roi fléchit devant l’orgueil du prêtre!». Anche «Ella giammai m’amò! No, quel core è chiuso a me, amor per me non ha» nell’originale «Elle ne m’aime pas! Non! Son coeur m’est fermé, elle ne m’a jamais aimé!» ha una scansione temporale diversa e un tono meno introverso.

Sono le orecchie a essere maggiormente gratificate in questo nuovo allestimento bolognese. Fin dalle plumbee fanfare iniziali, Michele Mariotti mette in luce lo splendore orchestrale di questa che forse è la più grande opera del compositore di Busseto. Qui i fiati hanno un rilievo inusitato sia come ottoni sia come legni, che si alternano nello struggente duetto tra Don Carlo e Rodrigo, o come quando fuori scena danno spazialità ai momenti da grand opéra di cui è ricca la partitura. I tempi scelti dal direttore musicale del teatro bolognese sono sempre giusti e i volumi sonori in perfetto equilibrio con i cantanti in scena.

Complessivamente soddisfacente il cast degli interpreti, con punte di eccellenza, per presenza e vocalità, nel Filippo di Dmitrij Beloselskij e nel Rodrigo di Luca Salsi, gli unici forse che riescano a dare verità scenica ai loro rispettivi personaggi. Meno incisivo il Don Carlo di Roberto Aronica, per di più caratterizzato da uno sgradevole timbro penetrante e da un canto risolto sempre in fortissimo. Dei due personaggi femminili Maria José Siri, anche se non riesce a esprimere la regalità di Elisabetta di Valois, vince sulla Principessa Eboli di Veronica Simeoni: la prima esprime una performance vocale che cresce in qualità dal primo teso incontro con Don Carlo all’acuto lancinante con cui conclude l’opera; la seconda è corretta ma niente di più e non caratterizza in maniera appagante un personaggio così complesso. Ancora nel cast il sempre affidabile Luca Tittoto, frate incoronato e dal viso dipinto d’argento, e Luiz-Ottavio Faria, Grande Inquisitore inutilmente cavernoso e il meno aiutato dalla regia.

È la componente visiva infatti quella più deludente di questo allestimento. A parte le scenografie incombenti di Nicola Rubertelli – che suggerirebbero l’oppressione del potere sugli umani ma sono realizzate con forme e materiali traslucidi che evocano piuttosto ambienti di fantascienza che poco hanno a che fare con la Spagna del 1560, per di più  appiattiti da luci fisse – è la regia di Henning Brockhaus, o meglio la sua mancanza di regia, che più irrita nella più totale assenza di direzione attoriale e per scelte largamente discutibili.

Innanzitutto l’epoca dell’ambientazione, che è francamente incomprensibile, con arredi barocchi, ma costumi che vanno dalla Belle Époque – a un certo punto pare di assistere alla Vedova allegra – agli anni ’30 con una Principessa Eboli che sembra Jean Harlow, alla contemporaneità, con il doppiopetto di Rodrigo. Il costumista non ci risparmia neppure una gheisha (?) e maschere piumate mentre per la canzone del velo si assiste a una coreografia che definire imbarazzante è dir poco. Del tutto deludente è la scena dell’auto da fé, realizzata con quattro poveretti che si contorcono alle fiamme proiettate sul fondo.

Passi pure l’idea di far svegliare Filippo dopo una notte trascorsa con la Eboli che esce furtivamente da sotto le lenzuola, ma la scelta di tenere sempre in scena il Grande Inquisitore su un trono papale argentato semovente è quella più sciagurata: il personaggio perde così ogni carattere di terribilità, che ha invece nella musica sublime di Verdi, e anche il povero cantante ne fa le spese, essendo l’unico a subire i dissensi di una parte del pubblico, assieme a quelli, ben più cospicui, rivolti al regista alla fine. Copiose invece le ovazioni per i cantanti e soprattutto per Mariotti da parte di un teatro gremito in ogni ordine di posti.

Don Carlos

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★★★★☆

Edizione con cast di assoluto rispetto

Opera della tarda maturità di Verdi (seguiranno Aida, Otello e Falstaff) e dalla travagliata gestazione. Un’accurata ed esaustiva analisi delle varianti di quest’opera è contenuta ne L’arte di Verdi di Massimo Mila.

Dopo la fortunata esperienza de La forza del destino a San Pietroburgo, Verdi si rivolge ancora una volta allo Schiller mediato dalle traduzioni dell’amico Maffei per un’opera da presentare a Parigi per solennizzare l’Esposizione Universale del 1867. I temi del contrasto padre-figlio, di due concezioni politiche diverse e del conflitto fra Stato e Chiesa sono di quelli che stimolano il compositore. Completata su libretto in francese di Méry e du Locle l’opera debutta quello stesso anno al Théâtre de l’Académie Impériale de Musique col titolo Don Carlos, grand-opéra in cinque atti.

La revisione in italiano vede il contributo al libretto di quel Ghislanzoni che scriverà l’Aida e in questa veste viene rappresentato in Italia nel ’72 come Don Carlo. Non contento del risultato, dieci anni dopo Verdi elimina il primo atto e così viene presentata l’opera alla Scala nell’84. Pentito del taglio, il compositore ripropone i cinque atti a Modena nell’86, ma senza i ballabili.

Atto primo. 1568, anno del trattato di pace fra Spagna e Francia. Nella foresta di Fontainebleau alcuni boscaioli tagliano legna; giunge Elisabetta di Valois (figlia del re francese Enrico II) in compagnia del paggio Tebaldo e di un seguito di cacciatori. Nel frattempo Don Carlo, figlio del re di Spagna Filippo II, osserva nascosto il passaggio della principessa, che egli crede a lui destinata in sposa come sigillo della pace fra le due nazioni. Rimasto solo in scena, l’infante esprime il suo amore a prima vista per «la bella fidanzata», e invoca la benedizione di Dio sui suoi casti sentimenti. S’ode in distanza il suono del corno e quindi Carlo incontra Elisabetta e Tebaldo, che si sono smarriti nella foresta; Carlo si presenta come un nobile spagnolo al seguito dell’ambasciatore e offre alla principessa la sua protezione. Rimasti soli, i due giovani conversano dell’imminente pace e del matrimonio: Elisabetta chiede come sia il suo ancora sconosciuto promesso sposo e Carlo l’assicura che l’infante già arde d’amore per lei. Quindi le porge un ritratto e Elisabetta comprende d’essere al cospetto del suo fidanzato, che le dichiara il suo amore. S’ode il suono del cannone che annuncia la firma del trattato di pace e poco dopo rientra Tebaldo, che s’inginocchia davanti a Elisabetta salutandola regina di Spagna: Filippo II ha infatti deciso di sposare la giovane principessa. Nel generale tripudio, i due innamorati vedono infranti i loro sogni e si separano straziati dal destino crudele che li ha visti pedine inconsapevoli nel gioco dei potenti.
Atto secondo. Quadro primo. Nel chiostro del convento di San Giusto, dove Carlo V ha la sua tomba, un coro di frati canta della pochezza umana e della fragilità dei potenti in confronto all’eterna grandezza di Dio; sopraggiunge Don Carlo, che cerca nel chiostro quiete alle sue pene. Gli si avanza incontro l’amico Rodrigo, marchese di Posa, e cerca d’impegnare l’infante nella difesa dell’oppresso popolo fiammingo; chiede tuttavia ragione del turbamento del principe e apprende con orrore che egli ama colei che è diventata la sua matrigna. Lo sprona allora a farsi inviare dal re nelle Fiandre e a coltivare il supremo valore dell’amicizia e della libertà. L’improvviso passaggio del re e della regina getta tuttavia Carlo nello sconforto. Quadro secondo. In un giardino non lontano dal convento di San Giusto, le dame e Tebaldo fanno ala alla principessa Eboli, che canta una canzone saracena, la ‘canzone del velo’. Entra Elisabetta e a lei si presenta Rodrigo con una lettera di Carlo. Mentre la regina legge turbata, Rodrigo cerca di distrarre Eboli e le altre dame con le ultime notizie dalla corte di Francia e quindi implora Elisabetta di incontrare l’infante. Carlo giunge al cospetto d’Elisabetta nella massima agitazione: ella gli assicura il suo appoggio per il viaggio in Fiandra, ma Carlo le rinnova le sue disperate profferte d’amore e quindi fugge. All’improvviso entra Filippo che, trovando la regina sola, caccia dalla corte la dama di compagnia, la contessa d’Aremberg. Elisabetta consola l’amica e si congeda dal consorte. Filippo rimane a colloquio con Rodrigo, che chiede al re libertà per il popolo fiammingo, accusandolo d’imporre ai suoi stati «la pace dei sepolcri». Filippo fingerà di non aver ascoltato la provocazione, ma mette in guardia Rodrigo dal grande Inquisitore e cerca d’avere il marchese alleato al suo fianco, confidandogli il suo atroce sospetto nei confronti di Carlo e della regina.
Atto terzo. Quadro primo. Nei giardini della regina, di notte. Carlo crede d’esser stato convocato a un appuntamento da Elisabetta: la missiva anonima è invece di Eboli, innamorata del principe che giunge e per qualche istante crede sia la regina: quando la luce lunare rivela la vera identità della convenuta, Eboli comprende quale amore proibito l’infante porti in cuore e lo minaccia. Arriva Rodrigo, che sta quasi per uccidere la furibonda Eboli. Rimasto solo con Don Carlo, l’invita a confidare nel suo aiuto e nella sua fedeltà. Quadro secondo. Nella grande piazza davanti alla cattedrale di Valladolid il popolo si prepara ad assistere alla cerimonia dell’autodafé. Quando il re sta per dare inizio al rito, sopraggiunge Carlo alla testa di sei deputati fiamminghi per chiedere al padre d’esser nominato viceré di Fiandra e Brabante. Al rifiuto di Filippo, Carlo snuda la spada e giura di salvare dalla tirannia il popolo fiammingo. Filippo ordina che si disarmi l’infante, ma nessuno osa avvicinarsi. Solo Rodrigo osa togliere la spada a Carlo, che si sente tradito dall’amico; il rito riprende con gli eretici condotti al rogo dai frati dell’Inquisizione.
Atto quarto. Quadro primo. Filippo insonne è solo nel suo studio: medita sulla sua solitudine, sul suo amore non corrisposto per la regina, e invoca l’ora della morte. Fa quindi il suo ingresso il grande Inquisitore, terribile cieco ottuagenario. Il re l’ha convocato per aver consiglio su come punire l’infante e l’Inquisitore pretende dal monarca la testa di Carlo e anche quella di Posa, lasciando così il trono per l’ennesima volta succubo dell’altare. È poi la regina a entrare nella stanza di Filippo, invocando giustizia: il suo scrigno personale è stato rubato. Il portagioie è però in mano dello stesso Filippo, che aprendolo vede il ritratto di Carlo e accusa la moglie d’adulterio. Elisabetta sviene e Eboli viene chiamata a soccorrerla. Filippo esce allora accompagnato da Rodrigo e la principessa, rimasta sola con la regina, le chiede perdono per averla tradita e aver consegnato al re lo scrigno. Le confessa d’averlo fatto per amore di Carlo ed Elisabetta la costringe all’esilio. Disperata, Eboli maledice la propria vanità muliebre. Quadro secondo. Incarcerato, Carlo riceve la visita di Rodrigo che gli porta la speranza di libertà e il suo addio. Sa infatti d’essere preda del grande Inquisitore. All’improvviso, infatti, un colpo d’archibugio uccide Rodrigo, che prima di morire raccomanda all’amico di recarsi l’indomani a San Giusto per un ultimo colloquio con la madre. S’ode il fragore d’una sommossa e Filippo giunge in carcere a restituire al figlio la libertà. Carlo maledice il padre e l’accusa della morte di Rodrigo, sul cui cadavere il re lamenta invece la perdita d’un amico. Frattanto il popolo preme alle porte della prigione per la libertà di Don Carlo e Filippo ordina che si lascino entrare i rivoltosi: questi si fermano tuttavia di fronte all’apparizione terrificante del grande Inquisitore, che intima a tutti di prostrarsi davanti all’autorità regia.
Atto quinto. La scena del secondo atto, nel chiostro del convento di San Giusto. Eisabetta prega sulla tomba di Carlo V e attende l’arrivo di Don Carlo colà convocato e ricordando il dolce incontro con l’infante nella foresta di Fontainebleau piange la perduta felicità, aspirando solo alla «pace dell’avel». Giunge quindi Carlo e la regina gli comunica d’averlo voluto incontrare solo per dirgli addio e benedirlo prima della fuga in Fiandra. Con grande strazio i due si congedano, ma proprio in quel punto sono sorpresi da Filippo e dal grande Inquisitore. Il re consegna Carlo ai frati del Sant’Uffizio: mentre l’infante indietreggia verso la tomba, s’apre il cancello di questa e un frate, in abito di Carlo V, lo trascina con sé nelle profondità della cripta. Questa conclusione repentina, aggiunta da Verdi soltanto nella versione in quattro atti del 1884, era preceduta nella versione originale francese da una sorta di processo sommario a Carlo, giudizio poi interrotto dall’apparizione del frate come fantasma del defunto imperatore.

Mentre i teatri italiani continuano a preferire la versione in quattro atti, all’estero invece è la versione francese in cinque atti a prevalere, come questa registrata nel 1996 allo Châtelet di Parigi seppure con qualche taglio (il coro dei boscaioli della scena di Fontainebleau) e la soppressione del famigerato balletto. Sul podio un Pappano non ancora star megagalattica, ma che dimostra già la zampata della sua maestria e sotto la sua direzione l’opera si dimostra ancora una volta il massimo capolavoro verdiano. Il duetto dell’ultimo atto, ad esempio, è accompagnato in maniera sublime dalla sua orchestra. Maluccio il coro con intonazioni talora precarie e qualche sbandamento.

Il Don Carlos richiede un cast di assoluto rispetto e qui quasi l’abbiamo. Roberto Alagna è un Infante in piena forma e convincente sia sul piano drammatico che vocale. Thomas Hampson è un marchese di Posa autorevole ma con qualche problemino di intonazione e dizione, Karita Mattila come Elisabetta di Valois è regale anche nella voce. José van Dam è un tormentato Filippo II che non dimentica la sua liricità. Eric Halfvarson, il terribile grande inquisitore, è lo Yoda di Star Wars senza le orecchie a punta. Non del tutto in parte Waltraud Meier come Eboli, anche se si conferma interprete di gran classe, salutata da un grande applauso dal pubblico parigino.

La regia di Luc Bondy promette una lettura realistica della vicenda con un primo atto che non ci fa mancare nulla: la foresta nel gelo, il castello lontano, i protagonisti vestiti di rosso, il cavallo bianco della futura regina e la neve che cade nel momento giusto. Poi però tutto diventa più schematico: i giardini sono due sedili di pietra e una fontana, lo studio di Filippo uno stanzone pronto per i traslochi con una regina che dorme su un letto da campo (?) e che a un certo momento si alza e se ne esce quatta quatta da una porticina, la tomba di Carlo V sembra una rustica cappelletta di campagna e la scena dell’auto da fé è miserella se non fosse per la musica. Non c’è aria di Spagna imperiale nella scenografia di Gilles Aillaud. Più che all’Escurial sembra di essere in Marocco o in qualche isola greca. Efficaci invece le luci di Vinicio Cheli.

L’immagine originale in formato in 4:3 è stata tagliata in 16:9 perdendo quindi definizione. Le tre ore e mezza di musica sono stipate su un unico disco in due tracce audio, la qualità non è quindi eccezionale. Il libretto completo e altri contenuti sono disponibili sul DVD-ROM.

(1) Ecco in sintesi le differenze delle principali versioni:
Prima versione. Il 12 marzo 1867 andò in scena a Parigi il Don Carlos, opera in cinque atti su testo francese di Camille Du Locle, che giunse in Italia – a Bologna – il 26 ottobre dello stesso anno, tradotta in italiano da Achille de Lauzières e col titolo mutato in Don Carlo;
Seconda versione. Nel 1872, sul corpo musicale della versione italiana, Verdi intervenne in occasione della prima rappresentazione a Napoli, modificando profondamente il duetto Filippo-Posa e praticando un taglio (la sezione «Si, l’eroismo è questo») nel duetto Elisabetta-Carlo dell’ultimo atto.
Terza versione. Nel 1882, in vista delle recíte previste a Vienna, Verdi ritornò con tagli e sostituzioní sullo spartito (attenzione: spartito francese) dell’opera, facendosi comporre nuovi versi da Camille Du Locle, che vennero subito tradotti in italiano da Zanardini, il quale per l’occasione revisionò a fondo la precedente versione ritmica di de Lauzières, con interventi che divennero definitivi per tutte le successive rappresentazioni. Fu un lavoro che tenne Verdi impegnato per ben nove mesi, concluso non più a Vienna bensì a Milano nel gennaio 1884 quando alla Scala – in traduzione italiana – si ebbe in pratica un secondo battesimo dell’opera, tanto incisive ne erano le modifiche, tutte condotte su nodi drammatici vitali. Con la sua radicale revisione Verdi eliminò più della metà dell’opera precedente, e cioè: l’atto primo; i duetti Carlo-Rodrígo e Filippo-Rodrigo dell’atto secondo; inizio dell’atto terzo col successivo balletto; gran parte della scena Filippo-Elisabetta dell’atto quarto col successivo quartetto; alcune battute della scena Elisabetta-Eboli; il finale quarto, a partire dalla morte di Rodrigo; la conclusione dell’atto quinto. In sostituzione di tale musica, nella partitura vennero inseriti sette nuovi brani, per complessive 268 pagine autografe.
Quarta versione. Nel dicembre 1886 infine, a Modena, senza intervento diretto di Verdi ma ovviamente con la sua approvazione, andò in scena un Don Carlo che ripristinava il primo atto così come era stato pubblicato da Ricordi – in traduzíone italiana – subito dopo la prima parigina, e seguendo in ogni punto, dal second’atto in poi, le modificazioni apportate per la versione scaligera di due anni prima.

  • Don Carlo, Noseda/De Ana, Torino, 17 aprile 2013
  • Don Carlos, Jordan/Warlikoski, Parigi, 19 ottobre 2017
  • Don Carlo, Mariotti/Brockhaus, Bologna, 6 giugno 2018
  • Don Carlo, Chung/Carsen, Venezia, 24 novembre 2019
  • Don Carlos, De Billy/Konwitschny, Vienna, 4 ottobre 2020
  • Don Carlo, Valčuha/Guth, Napoli, 29 novembre 2022
  • Don Carlos, Minkowski/Steier, Ginevra, 15 settembre 2023
  • Don Carlo, Chailly/Pasqual, Milano, 7 dicembre 2023