Don Carlo

 Giuseppe Verdi, Don Carlo

Napoli, Teatro di San Carlo, 29 novembre 2022

★★★★☆

(live streaming)

Un possente Don Carlo inaugura la stagione del San Carlo

La stagione del San Carlo si inaugura col Don Carlo nella versione italiana e in cinque atti a 150 anni dalla serata napoletana del 1872. Si tratta grosso modo della versione di Modena, una delle cinque (o sette?) versioni esistenti di questo sofferto capolavoro. Questo è uno dei rari casi in cui la traduzione, di Achille de Lauzières, non solo non tradisce l’originale, ma ne è addirittura superiore in certi punti. Saltata la prima per lutto a causa della sciagura di Ischia, la replica del 29 novembre è trasmessa in streaming, purtroppo in una registrazione con molte pecche.

Nella intrigante messa in scena di Claus Guth ci sono forti rimandi visivi: il pavimento a scacchiera, un evidente omaggio alla città di Napoli, è quello della Cappella Vasari di Sant’Anna dei Lombardi; il reliquiario che accompagna l’ingresso di Filippo II è quello della mano di Santa Teresa d’Avila che il Generalissimo Franco teneva nella sua camera da letto (grazie a Giuseppe Imparato per queste informazioni); il quadro di Francisco Goya Carlo IV di Spagna e la sua famiglia pende un po’ sbilenco sullo sfondo, a mano a mano si scurisce e nel finale viene staccato dal muro e diventa pietra tombale e poi botola in cui sparisce Don Carlo; Il buffone Sebastián de Morra di Diego Velázquez è invece il modello per il nano di corte, il quasi sempre presente in scena e bravissimo attore Fabián Augusto Gómez che è ora un alter ego di Carlo, ora un grottesco Cupido, ora il “munaciello” – lo spiritello dispettoso delle case napoletane – unico elemento di disturbo in un mondo freddo, rigido e brutale.

La scenografia di Étienne Pluss ricrea le severe atmosfere dell’Escurial in una grande sala attorniata da un coro ligneo cinquecentesco. Tutto è cupamente claustrofobico, non ci sono esterni, anche il primo atto ricrea «l’orror della foresta» di Fontainebleau in una tinta scura. I bellissimi costumi di Petra Reinhardt appartengono a tre epoche: il Cinquecento per Elisabetta ed Eboli, l’Ottocento e la contemporaneaità per Carlo e l’Inquisitore, che qui non è un vecchio frate cieco ma un grigio burocrate simbolo di un potere, non solo religioso, che si avvale di figure nere e incappucciate. Il bianco e nero sono i non-colori di un allestimento illuminato dalle luci radenti di Olaf Freese che creano le lunghe ombre dei personaggi che così sembrano prigionieri di un potere implacabile, di una ragion di stato contro la quale non possono opporsi. La regia di Guth, debuttante sul palcoscenico napoletano, è intensa e piena di idee, non tutte nuovissime magari – come quando si vede Eboli lasciare il letto di Filippo («L’error che v’imputai, | io… io stessa aveva commesso!» confessa a Elisabetta) e quello stesso letto diventa il lettino da psicanalista per il re davanti al Grande Inquisitore – ma sono efficaci e di bellissimo impatto visivo. La struttura di una famiglia lacerata è analizzata da Guth con la consueta profondità e la capacità attoriale degli interpreti dà a questo Don Carlo il carattere di un dramma psicologico. Don Carlo è sempre presente in scena e il regista lo dipinge come un adolescente turbato, segnato da un’infanzia senza madre, dalla presenza di un padre imperioso e dall’amicizia con il coetaneo Rodrigo, compagno di giochi di infanzia come vediamo nei nostalgici video di Roland Horvath, sorta di flashback ricorrente.

Interprete belcantista, Matthew Polenzani non ha tratti eroici ma la voce del tenore americano è perfettamente adatta alla visione del regista: i suoi momenti migliori sono quelli lirici o introspettivi, quando usa mezze voci sussurrate e piani legati in un fraseggio trasparente e leggero. Ancora più forte è così il contrasto col padre, un Michele Pertusi ineguagliabile nel delineare Filipp come   monarca combattuto dai rimorsi: ancora una volta il baritono parmense dà una preziosa lezione di interpretazione con mezzi che non vogliono accusare la stanchezza dell’età, tanto che col Grande Inquisitore, il basso Alexander Tsymbalyuk, riesce a reggere e superare il confronto vocale. Altra voce mschile di eccezionale livello quella di Ludovic Tézier che ritorna ancora una volta nella parte del Marchese di Posa con nobiltà, bellezza di timbro, eleganza e sensibilià che raggiungono l’apice nei duetti con Carlo e nella scena dell’addio vita. Ailyn Pérez compensa con il temperamento una voce un po’ leggera per il ruolo di Elisabetta, mentre Elīna Garanča si dimostra ancora una volta una Eboli di straordinaria presenza vocale e scenica. Su livello decisamente inferiore invece il Tebaldo di Cassandre Berthon mentre si dimostrano efficaci gli altri comprimari (i sei deputati, il Conte di Lerma e  l’Araldo membri del coro e dalla Accademia del teatro la voce dal cielo, qui invece in carne e ossa sul palcoscenico che attraversa inopinatamente vestita da Madonna) e il coro del teatro diretto da José Luis Basso. Corretta ma non delle più trascinanti la direzione di Juraj Valčuha e con piccole sbavature nell’orchestra, ma nel complesso si è trattato di una performance di grande impatto e accolta da prolungati applausi, particolarmente calorosi nei confronto di Pertusi, Tézier e Garanča.

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