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Giuseppe Verdi, Don Carlo
★★★☆☆
Torino, Teatro Regio, 17 aprile 2013
Il Regio celebra i suoi primi quarant’anni
Opera che dà la possibilità ai costumisti di sfoggiare le loro creazioni più ricche e sontuose, agli scenografi di allestire i grandiosi e cupi ambienti del Siglo de Oro spagnolo, ai cantanti di affrontare ruoli tra i più leggendari del mondo lirico. Tutto questo è il Don Carlos/Don Carlo, tra i lavori più imponenti di Verdi e uno dei vertici della sua gloriosa carriera.
A questo si aggiunge però il problema di quale delle tante versioni scegliere. Per celebrare i quarant’anni dalla sua apertura il (Nuovo) Teatro Regio di Torino ripropone lo spettacolo di Hugo de Ana già visto nel 2006. La versione è quella nella traduzione italiana e in quattro atti, mancano quindi l’episodio di Fontainebleau e i ballabili del terzo atto, ma ci guadagnano concisione e forza drammatica. Gianandrea Noseda mantiene in perfetto equilibrio l’orchestra e il palcoscenico, privilegiando le atmosfere più rarefatte e cameristiche rispetto a quelle più enfatiche suggerite dalla partitura. La sua è una lettura di una certa asciuttezza e come sempre attenta è la concertazione delle voci che qui formano un cast non del tutto omogeneo. Accanto alle prove maiuscole di Il’dar Abdrazakov e Ludovic Tézier – rispettivamente un Filippo imponente ma credibile sia nei monologhi sia nei numeri di insieme e un Rodrigo di grande eleganza – si sono sentite sulla scena voci non pienamente convincenti come quelle di Ramón Vargas, un Don Carlo un po’ manchevole nel registro acuto; Daniela Barcellona qui non a fuoco come Principessa d’Eboli; Barbara Frittoli Elisabetta cui manca più potenza; Marco Spotti Grande Inquisitore un po’ spento. Di buon livello le altre parti con Roberto Tagliavini (un frate), Erika Grimaldi (una voce dal cielo), Dario Prola (Conte di Lerma).
Lo spettacolo di Hugo de Ana, che firma regia, scene e costumi, è così descritto da Giancarlo Landini: «Fedele al tempo dell’azione, De Ana costruisce una scena grandiosa che rivive con raffinato gusto visivo la monumentalità oppressiva dell’Escorial. Mentre la illustra con soluzioni di singolare fascino, la eleva a correlativo-oggettivo della claustrofobia morale dei personaggi, vittime di contrapposte tensioni, a cominciare da Filippo stesso prigioniero prima che signore della reggia e del sistema che egli ha voluto. Le grandi colonne, che fungono da quinte e che muovendosi modificano la prospettiva, incombono sul palco. Creano gli enormi spazi del Convento di San Giusto, dove i personaggi si muovono smarriti in un’atmosfera arcana, percorsa da cori en coulisse e da misteriose presenze. Si ritraggono per lasciare spazio alla gran piazza, chiusa dalla grande facciata marmorea di Nostra Signora d’Atocha, concepita secondo lo stile architettonico di un Rinascimento fiammeggiante, che fa da vetrina allo splendore di una monarchia indiscutibile. Si fanno incombenti nello studio di Filippo e nella scena del carcere. Le luci sapienti di Sergio Rossi avvolgono la scena in una penombra che, con l’ovvia eccezione del Finale del III Atto, contribuisce a rendere il clima dell’opera. Proprio per la capacità di ricondurre ogni elemento alla sua funzione drammatica, sarebbe ingiusto e decisamente sbagliato ritenere lo spettacolo di De Ana meramente illustrativo, come se la regia debba necessariamente ridursi all’applicazione di soluzioni alternative al teatro di tradizione. Al contrario il regista è sempre presente. Lo si coglie nello scavo dei personaggi e nel disegno dei loro rapporti. Basterà qualche esempio: Eboli che spia l’incontro tra Posa e Filippo; la consumata abilità con cui Posa distoglie Eboli che con caparbia determinazione vuole avvicinarsi alla regina intenta a scorrere la segreta missiva di Carlo; l’episodio della contessa d’Aremberg. Il risultato è una lettura fluida, sempre efficace». Il pubblico torinese ha dimostrato con gli applausi di aver apprezzato.
⸪