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Wolfgang Amadeus Mozart, Sinfonia n° 31 in Re maggiore K297
I. Allegro assai
II. Andantino
III. Allegretto
Dmitrij Šostakovič, Sinfonia n° 4 in do minore op.43
I. Allegretto poco moderato – Presto
II. Moderato con moto
III. Largo – Allegro
Torino, Auditorium Toscanini, 9 dicembre 2022
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Benjamin Britten, Sinfonia da Requiem op.20
Lacrymosa. Andante ben misurato
Dies irae. Allegro con fuoco
Requiem æternam. Andante molto tranquillo
Dmitrij Šostakovič, Sinfonia n° 10 in re minore op.93
I. Moderato
II. Allegro
III. Allegretto – Largo – Più mosso
IV. Andante – Allegro
Torino, Auditorium Toscanini, 15 dicembre 2022
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James Conlon, direttore
James Conlon e la “musica degenerata” di Šostakovič
Nei cartelloni delle stagioni sinfoniche Dmitrij Šostakovič sta raggiungendo Gustav Mahler per numero di lavori eseguiti. È il caso di quella dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI che quest’anno presenta quattro sinfonie del compositore austro-boemo e altrettante di quello russo. Dopo la Settima Sinfonia in Do op.60 “Leningrado” diretta da Aziz Shokhakimov, è ora il momento della doppietta Quarta e Decima dirette da James Conlon rispettivamente per il sesto e il settimo concerto della stagione 2022-2023.
La Sinfonia n°4 è un lavoro scritto nel periodo 1934-36, ma è stata eseguita la prima volta nella sua forma orchestrale solo nel 1961. La stroncatura della “Pravda” della sua Lady Macbeth del distretto di Mcensk aveva indotto il compositore ad annullare l’esecuzione della sinfonia poco prima che avesse luogo. Con la Quarta inizia il vero grande sinfonismo di Šostakovič, quello che più risente dell’ispirazione mahleriana per la sua sconcertante complessità, durata (un’ora), organico (6 flauti, 4 oboi, 6 clarinetti, 4 fagotti, 8 corni, 4 trombe, 3 tromboni, 2 basso tube, percussioni, celesta, 2 arpe e archi), ricchezza degli ingredienti tematici e originalità degli abbinamenti strumentali, come le percussioni alla fine del secondo movimento affidate a castagnette, legni, tamburi e violini con sordina. La perdita della partitura originale non permette di ricostruire i ritocchi apportati alla versione del 1961 e non sappiamo quindi quanto fosse diversa dall’edizione originale quella che ascoltiamo oggi. Ma una cosa è certa, nulla ha perso dell’audacia creativa che emana dall’esecuzione e che James Conlon ha messo lucidamente in evidenza: le tre chiuse dei tre movimenti, «inquietanti e interrogative […] spegnimenti dinamici per esaurimento dei cumuli precedenti di drammatiche convulsioni», secondo le parole di Franco Pulcini che ha scritto la biografia definitiva del compositore russo, non hanno lasciato immune il pubblico dell’Auditorium Toscanini che al termine del terzo tempo – dove la presenza della celesta e il senso di estinzione richiamano il finale di Das Lied von der Erde di Mahler – ha lasciato passare un lunghissimo minuto di silenzio prima di sciogliere la tensione con un applauso che è apparso prima liberatorio e poi di gratitudine verso gli esecutori.
Diciassette sono gli anni che passano tra la Quarta e la Decima, ma ancora più significativi sono gli otto trascorsi dalla fine della guerra alla morte di Stalin nel marzo 1953: al sollievo per la fine di una dittatura subentravano le incertezze e le crescenti tensioni internazionali che sarebbero di lì a poco sfociate nella guerra fredda. Otto anche per gli anni trascorsi tra la Nona e questa Decima che viene eseguita a Leningrado il 17 dicembre di quello stesso anno, quando gli ascoltatori furono stupiti nel riconoscere in questo imponente lavoro la contrapposizione tra l’artista e il tiranno, ritratto quest’ultimo in tutta la sua ferocia nel violentissimo secondo tempo, uno “Scherzo-Stalin” brevissimo in cui i blocchi sonori si contrappongono in «una macchina diabolica, inesorabile e imprevedibile», nelle parole ancora di Pulcini. Organico minore questo della Decima, ma pur sempre imponente: 3 flauti, 2 oboi, 3 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, percussioni e archi e durata di poco inferiore alla Quarta. Le masse ben differenziate negli strumenti e nei piani acustici partecipano a un gioco che termina brutalmente come era iniziato e che l’orchstra RAI sotto la bacchetta di Conlon realizza in modo drammaticamente spietato. Nel movimento che segue viene iterato il motto “re-mi♭-do-si” che nella notazione tedesca (D-S-C-H) allude con chiarezza alle iniziali del compositore, se ancora ci fosse il dubbio che si tratta della identificazione dell’autore contrapposto al tiranno. Ma la “vendetta” non si ferma lì: con acuto spirito ironico, Šostakovič con la Decima componeva una sinfonia dal perfetto formalismo (quattro movimenti secondo il canonica canone classico) esaltante i valori costruttivi calpestati dalla estetica di regime che imponeva invece un linguaggio accessibile alle masse popolari. Anche se nelle stesse parole del compositore la Decima vuole essere una raffigurazione di Stalin, è arduo accettare che Šostakovič si fosse votato a una musica a programma, obiettivo ben lontano dalla sua estetica: si tratta di un lavoro di forma astratta in cui ci compiaciamo di vedere raffigurato “il volto spaventevole di Stalin” nella brutalità del gesto musicale che Conlon realizza con grande lucidità. Nel finale si assiste a un ambiguo trionfalismo, quasi triviale, che ancora una volta la pungente ironia del compositore ci impedisce di prendere per buono.
Se la Decima di Šostakovič è un frutto dell’immediato dopoguerra, la composizione che la precede nel concerto del 15 dicembre appartiene invece agli anni di guerra. Inizialmente fu scritta per il governo giapponese che voleva celebrare il bimillenario della dinastia imperiale nel 1939. Che un tema come il Requiem latino potesse essere un soggetto adatto sembra un beffardo scherzo di Benjamin Britten all’Impero del sol levante e infatti, anche se molto in ritardo, gli pervenne una lettera in cui veniva accusato di aver insultato una potenza amica con la sua scelta. Nel frattempo le relazioni tra il Giappone e la Gran Bretagna avevano preso la piega che sappiamo e della commissione non si parlò più. Eseguita nel marzo 1941, la Requiem Symphony fa riferimento alla messa per i defunti solo nei titoli dei tre movimenti e quindi non implica direttamente il rito cristiano. Collegati in unica sequenza alterna momenti di alta drammaticità, come l’inizio affidato ai potenti colpi dei timpani, con altri lamentosi in re minore affidati ai violoncelli e ai legni (Lacrymosa) fino all’“urlo” delle percussioni per la disperazione della morte. Col Dies irae una cavalcata infernale denuncia gli orrori della guerra mentre nel finale Requiem æternam l’andante stende il velo della pietà sull’umanità martoriata. I temi cullanti e quelli dissonanti sono messi in evidenza da un’orchestra che è arrivata al concerto in maniera avventurosa per le precipitazioni nevose e gli scioperi dei mezzi pubblici, ma il ritardo di mezz’ora per l’arrivo del timpanista perso nelle periferie torinesi ha valso la pena dell’attesa. La magistrale esecuzione della pagina britteniana ha conquistato il magro pubblico dell’auditorium che ha sfidato gli elementi e le avversità per non perdersi il concerto e ha tributato calorosi applausi al suo principale esecutore che nel concerto precedente aveva abbinato alla Quarta di Šostakovič la Sinfonia in Re maggiore, K297 (Parigi) di Mozart. Un abbinamento inconsueto che non deve aver convinto pienamente il pubblico nonostante la buona esecuzione di Conlon. Sarà che tutti lo aspettavano in un repertorio a lui molto più congeniale e una certa mancanza di leggerezza sembra aver marcato la sua lettura della pagina mozartiana.
⸪