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Bergamo, 14 dicembre 2022
Renato Verga – È terminato il Donizetti Opera di Bergamo e finalmente c’è il tempo per una chiacchierata con il suo direttore Francesco Micheli. Personalità “vulcanica” è l’epiteto che più spesso si è speso per definirla, ma il piccolo Francesco che cosa pensava di fare da grande? Lo chiedo perché sembra che il futuro abbia esaudito tutte le possibilità: regista, direttore artistico, insegnante, scrittore, autore di testi multimediali, ideatore di progetti innovativi per avvicinare i giovani all’opera, intrattenitore, affabulatore, uomo di televisione, di cinema e di teatro, specialista della musica di Donizetti, ambasciatore della sua città, Bergamo, che sarà Capitale Italiana della Cultura nel 2023… Che cosa ho dimenticato?
Francesco Micheli – Senza dubbio fin dalla più tenera età sono stato un bambino abbastanza sovreccitato ed effervescente. Ricordo che nei vari temi “Cosa farai da grande” passavo dal cuoco all’astronauta… ma quello più ricorrente, e profondamente vero, era l’insegnante: avevo una passione per la mia maestra delle elementari e la possibilità di condividere dei saperi, di mediare la conoscenza e l’accesso ad aree di bellezza dell’umanità e del creato è sempre stata la più più profonda vocazione. È vero che la regia ha una dimensione didattica, ma devo dire che l’insegnamento mi manca, anche se la Bottega Donizetti è anche un po’ l’occasione per praticarlo. Per dirla tutta, però, per anni ho sentito la Vocazione, quella con la V maiuscola: ero molto affascinato dai Gesuiti, tant’è vero che frequentai a lungo il Centro San Fedele di Milano. E c’è stata una fase in cui stavo per entrare nell’Ordine, salvo poi fare la mia prima regia d’opera e capire che l’amore vero era quello lì!
RV – Con tutto l’attaccamento alla sua città, dove è nato nel 1972, è però a Milano che scoprì il mondo a 19 anni, anche se è una città in crisi quella del 1991, la città che ha perso il luccichio che aveva la “Milano da bere”. Tre settimane alla Bocconi e poi laurea in Lettere Moderne e diploma alla Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi. Sembra proprio che la avesse colpito la ricchezza della scena teatrale milanese.
FM – Sin da bambino venivo spesso a Milano con i miei genitori ed ero affascinato da quella metropoli che mi inebriava. Alla fine del liceo ho cercato di realizzare il primo amore, ossia quello di venire a studiare a Milano. Bergamo è una città strana, matrigna, che genera magari insofferenza ma costruisce un profondo legame. Milano era la metropoli più accessibile, ma la sfortuna volle che arrivassi proprio nel cuore della grigia città di “mani pulite”. In generale gli anni ’90 sono stati anni in cui a Milano tutto avveniva in privato – anche perché eravamo studenti squattrinati e quindi ci si trovava nei nostri appartamenti a bere un bicchiere – oppure si approfittava della gloriosa scena culturale: la Triennale, la Permanente, per non parlare della Scala, del Piccolo Teatro. Io che frequentavo l’Accademia ho vissuto per sette anni in una full immersion molto faticosa, onerosa, ma anche parecchio arricchente.
RV – Però il suo passato in val Brembana non lo rimpiange? Che cosa le ha lasciato?
FM – Il ripensare a quegli anni mi costringe a fare un potente viaggio dentro me stesso perché da un lato ho molto patito il poter crescere come individuo, come artista e come omosessuale in un territorio così severo, aspro, isolato come la Val Brembana. Dall’altro, è stato emblematico di tanti aspetti del mio carattere, a partire dai miei genitori: mio padre apparteneva a una famiglia contadina da generazioni, mentre mia madre era di una famiglia alto-borghese in cui il nonno materno fu l’inventore della Magnesia San Pellegrino. Nei pranzi delle festività mi ritrovavo con famiglie molto vivaci, umanamente ricche, pimpanti, molto teatrali tutte e due. Sembrava un po’ Novecento di Bertolucci! Da una parte una famiglia di tradizioni contadine, schietta, ruspante, anche brutale, con un’ironia ferocissima che correva di bocca in bocca, dall’altra un ambiente raffinato, colto, sobrio e riservato. Ho avuto la fortuna di poter godere fin dalla più tenera età di uno spaccato di umanità molto variegato e di aver incorporato una serie di anticorpi anti-borghesi, per cui mi ritengo abbastanza immune da brama di successo, di denaro e da tutta una serie di valori per me pericolosissimi che corrodono l’unicità e la bellezza di una persona. L’isolamento mi ha lasciato anche una grande fame di metropoli, ma il carattere bergamasco, un po’ rude e severo, mi è rimasto.
RV – E della sua prima regia che cosa ricorda?
FM – Fu Maria Stuarda, reina di Scotia, un testo teatrale di Federico della Valle del 1591 ma pubblicato nel 1628, una delle perle della drammaturgia italiana del XVII secolo. Per me, che venivo da studi classici e da una fondamentale passione per l’opera, arrivare alla Paolo Grassi, che è una grandissima scuola di teatro, è stata una bella impresa perché non avevo nessuna esperienza teatrale diversamente dai miei compagni e fu un apprendistato molto faticoso ma istruttivo. Al terzo anno, in forma totalmente autogestita, avevo voglia, dopo tanto Shakespeare, Grotowski, ecc. di poter dare spazio al mio immaginario: sin dai tempi del liceo adoravo questo testo grondante di gioielli barocchi retorici e pieno di una musicalità tutta nostrana e che appunto mi riportava al capolavoro di Donizetti: già lì nasceva il mio amore per Gaetano. In quella mia prima creazione drammaturgica misi tutta la mia anima: lo spettacolo era in una sala della Paolo Grassi con il pubblico in cerchio, un sipario divideva il pubblico in due, da un lato gli uomini, dall’altro le donne, e le attrici prendevano per mano gli spettatori e li portavano in varie postazioni. Lì era già evidente la mia volontà di rendere totalizzante l’esperienza teatrale.
RV – Poi ci sono stati gli anni dell’ASLICO e Reggio Emilia: che cosa le hanno dato queste prime esperienze?
FM – Credo di aver vissuto una fase congiunturale molto particolare perché la regia lirica in Italia era ancora un’esperienza avventurosa, tendenzialmente basata sulla bottega di un giovane artista che faceva da assistente a un grande maestro e poi col tempo si faceva le ossa. L’incontro con l’ASLICO è stato una grandissima occasione che mi ha permesso di imparare a fare il regista e soprattutto di imparare a considerare i cantanti come dei performer completi. Ricordo che tutte le produzioni erano caratterizzate non solo da un intenso periodo di prove, ma da settimane di laboratori in cui avevo grandi giovani cantanti con i quali si aveva la possibilità di misurare nuove strade lavorando sull’interpretazione, sul corpo e questo mi fece capire che bisogno ci fosse di aggiornamento del linguaggio operistico, soprattutto in Italia, riguardo alla drammaturgia, ossia la capacità che ha l’opera di raccontare storie anche sotto traccia o comunque di mettere a fuoco l’esigenza di tradurre la narrazione del passato con quella contemporanea. E dall’altro si sentiva il bisogno di aggiornare la figura del cantante lirico come performer contemporaneo. Questo lavoro, che è ancora in atto e non ha smarrito il suo senso, mi ha portato negli anni a trovar casa in alcune realtà teatrali. L’ASLICO e Reggio Emilia sono state le grandi case operistiche dove ho avuto la fortuna di farmi le ossa e di rinnovare il linguaggio operistico e fare le prime prove di gestione artistica di un progetto complesso. Grazie e Daniele Abbado dal 2004 al 2008 avevo uno spazio, il Teatro Cavallerizza, una programmazione, una vera e propria stagione off in cui, tramite impegnativi laboratori per ragazzi delle scuole superiori. Portavamo in scena degli spettacoli in forme totalmente nuove e che sono poi diventati progetti televisivi di Sky Classica. Ho avuto quindi la fortuna che tendenzialmente un regista operistico non ha, ossia quella di avere un luogo di sperimentazione regolare.
RV – E arriva il Primo Premio Abbiati con Bianco, Rosso e Verdi: è la prima consacrazione ufficiale?
FM – Il premio Abbiati del 2011 è stato una grande soddisfazione perché veniva premiato un lavoro di drammaturgia originale, un testo scritto da me che univa varie pagine verdiane. Avevo a disposizione un lussuosissimo parterre: l’orchestra, la banda, il corpo di ballo, l’intera squadra tecnica del teatro Massimo di Palermo per creare un grande spettacolo destinato al pubblico più giovane. Tutte le mie varie vocazioni – autore, regista, organizzatore… – avevano forse per la prima volta a disposizione una materia prima lussuosissima e destinata a creare qualcosa di importante. È stato uno spettacolo fortunatissimo, che è stato replicato tantissime volte e ha formato la gioventù palermitana per anni.
RV – Venezia, l’Arena di Verona e poi Macerata, quest’ultimo forse l’impegno più lungo prima di Bergamo. Avrebbe voluto cambiare qualcosa del Festival allo Sferisterio?
FM – Anche La Fenice di Venezia è stata una casa operistica molto felice, dove ho avuto la possibilità, grazie a Fortunato Ortombina, di firmare i miei primi grandi spettacoli: da Killer di parole di Claudio Ambrosini col libretto di Pennac, alla Bohème, dall’Otello alla Lucia. La Fenice è veramente una grandissima famiglia artistica: faccio fatica a pensare a un altro teatro dove i dipendenti e i collaboratori sono così affezionati a quel posto come se fosse casa loro. L’Arena di Verona è stata un appuntamento fondamentale e Roméo et Juliette mi ha permesso di mettere a prova un’attitudine da direttore artistico. Quello di Gounod fu un titolo di grande coraggio per la programmazione di chi allora gestiva l’Arena e consapevoli di questo facemmo tutto un lavoro di flash mob e web tv che nel 2011 era fantascienza. Quelli furono momenti in cui si capì che il teatro d’opera, persino l’Arena, smetteva di essere un tempio a cui i fedeli arrivavano bruciando incensi, ma doveva essere un centro di aggregazione che aveva l’obbligo di cercare un nuovo pubblico e di inventarsi nuovi modi per mettersi in evidenza. Tutto questo portò l’attenzione su di me del consiglio di amministrazione del Festival di Macerata. Arrivato lì la prima cosa che notai fu che non funzionava bene il rapporto con la città, che viveva lo Sferisterio come un corpo estraneo, un’astronave che atterrava d’estate, razziava e se ne andava via. Mentre era una grande risorsa e un miracolo artistico. La prima cosa che cercai di fare fu quella di portare l’opera fuori del teatro e in questo fu fondamentale l’esperienza del Flauto magico per strada che Daniele Abbado mi commissionò per celebrare quello messo in scena da padre e figlio, Claudio e Daniele. Un’esperienza che contagiasse la cittadinanza in una grande festa teatrale, una notte bianca del Flauto magico, e sentii che questa era la strada giusta per far conoscere ai maceratesi il loro teatro. E quindi nacquero “la notte dell’opera” e tutte le iniziative che andavano sotto il titolo di Festival Off.
RV – Il Donizetti Opera di Bergamo è uno dei festival più rinomati, attesi e in buona salute tra quelli in Italia, se non nel mondo. Un festival che non si è fermato nemmeno in tempo di pandemia: nel 2020 le tre opere sono state registrate senza pubblico e trasmesse in streaming. Ed è un festival in cui la percentuale di stranieri che attraversano le Alpi per arrivare a questo appuntamento supera il 50%, ma anche la comunità locale mi sembra che partecipi.
FM – Io ho scoperto Donizetti tendenzialmente fuori Bergamo, quando ho iniziato ad appassionarmi all’opera andando alla Scala: ricordo la Lucia di Lammermoor che vidi nel ’92 nella produzone di Pier Alli con la Devia, e fu una folgorazione. Ritornare a Bergamo, la mia città di formazione, aveva il valore di un riscatto: Donizetti è il bergamasco più famoso al mondo, è uno dei maggiori compositori, quello che ha fatto parlare italiano nel mondo, ha fatto amare la musica italiana e non è giusto che il detto nemo propheta in patria dovesse valere ancora per lui. Quando sono arrivato a Bergamo ho trovato una città che aveva voltato le spalle al suo compositore e quindi la creazione di un festival donizettiano andava in due direzioni: da un lato la revisione di edizioni critiche che fossero alla base di un allestimento in qualche modo di riferimento nel panorama internazionale, dall’altro un festival prestigioso e capace di attrarre spettatori, turisti e appassionati da tutto il mondo. Quanto più se ha un sapore locale molto forte, come Aix-en-Provence, come Salisburgo, e questo può accadere se i primi ambasciatori ospiti del festival sono i cittadini stessi. E quindi abbiamo fatto un potente lavoro di sensibilizzazione e divulgazione. Se a casa tua hai un tesoro così prezioso è insensato e contro natura tenerlo nascosto agli abitanti di quella casa.
RV – La fortuna del Festival Donizetti ha a che fare con un autore prolifico: quelli di Verdi e di Rossini hanno esaurito da tempo i titoli, mentre per il Gaetano c’è ancora molto da tirare fuori. E poi ci sono le nuove versioni, gli adattamenti… Basteranno i prossimi cinquant’anni a esaurire l’argomento? Ma un festival non è solo scoprire titoli poco conosciuti, che cosa deve essere per lei?
FM – Stiamo attraversando un periodo di grande transizione socio-culturale e noi operatori culturali siamo chiamati a giocare un ruolo importante affinché questa trasformazione volga verso prospettive e scenari fertili, positivi, costruttivi, pacifici. Sappiamo bene che nei momenti di transizione si può crollare verso il basso, verso la guerra, il terrore e la dittatura, e qui il Festival Donizetti cerca di giocare la sua parte. È innanzitutto un festival monografico, quindi una manifestazione culturale con lo scopo di restituire la volontà originaria del compositore, la prima cosa di cui ci si deve occupare. Esattamente come per aprire un museo bisogna restaurare le opere che fanno parte del museo. Ma questo non esaurisce la missione di un festival, che è soprattutto una realtà culturale che deve dare la dimensione di un grande raduno festoso degli amanti della bellezza in una festa a tema, che nel nostro caso è Donizetti. Il rapporto col territorio è quindi fondamentale: quel compositore è nato in quella terra e quella terra se la porta dentro. L’essere poi quella di Bergamo una terra di confine ha comportato una grande esterofilia drammaturgica, complice anche la temperie romantica di cui Donizetti è stato uno dei primi interpreti in musica. Ed è una terra povera, Gaetano proveniva da una famiglia poverissima e non è un caso che nelle sue opere gli ultimi sono destinati a diventare evangelicamente i primi. Questi sono valori tematici che vanno ben oltre le opere: in un sorta di santuario laico di questo compositore è importante far sentire immortale o comunque ancora valido il suo lascito testamentario. Nel commissionare nuove opere, nel dare vita a eventi che traducano oggi il senso di quell’attività, io spesso ragiono sull’onda di un motto quasi scherzoso: ma cosa farebbe Gaetano se fosse qui, come si comporterebbe? E indiscutibile che Donizetti sia stato uno deigli ultimi grandissimi compositori ad utilizzare i cantanti en travesti, inizialmente per rappresentare personaggi adolescenziali, poi con Mamma Agata una grandiosa drag queen. Quest’anno abbiamo voluto celebrare il compleanno di Gaetano chiamando DJ di musica elettronica perché in qualche modo Donizetti, con la sua capacità di immettere ritmi di danza correnti in quel periodo, imprimeva un’orecchiabilità e un’elettricità nuove nell’opera a tal punto da essere “dozzinale”, commerciale, come la musica di oggi è accusata. E così abbiamo avuto dunque delle drag queen, artisti la cui identità sessuale è fluida e ciò ha causato un po’ di sommovimento. Ma niente di paragonabile a quello che Gaetano è stato capace di fare in vita, sintomo che allora forse stiamo facendo la cosa giusta.
RV – Quest’anno ha messo in scena L’aio nell’imbarazzo, un’opera buffa, mentre nel 2019 fu L’ange de Nisida, la prima versione de La favorite che abbiamo appena visto, mentre nel ’21 fu la Medea in Corinto di Mercadante. Pensa di esprimersi meglio con l’opera buffa o con il dramma?
FM – Bella domanda! Finora, anche per una certa versatilità nella gestione di grandi mezzi, grandi masse, grandi allestimenti, penso all’Aida all’NCPA di Pechino, uno spettacolo gigantesco, la maggior parte dei titoli operistici che ho realizzato sono stati dei drammoni, opere a tinte fosche. D’altronde grandi mezzi richiedono grandi sentimenti. L’esperienza dell’Ange de Nisida è stata formidabile perché mi ha permesso di misurarmi col genere semi-serio che ritengo davvero interessante, la sfida che all’inizio dell’Ottocento Rossini e Donizetti avevano intrapreso proprio perché il Romanticismo nascente e la riscoperta di Shakespeare fecero capire come il sentimento del grottesco, la convivenza di registri diversi, erano la forma più congeniale per rappresentare la realtà: il reale non è mai o solo comico o solo tragico, la nostra vita è tragicomica, convivono sempre anime diverse. Anche l’Alcina di Glyndebourne è stata un’occasione per raccontare una serie di vicende intrecciate e dense, ma con un’ironia che il pubblico inglese ha apprezzato. L’aio nell’imbarazzo è la prima opera buffa che affronto dopo lo Schicchi. Credo molto nel comico, e la commedia all’italiana lo dimostra, perché dietro la risata c’è sempre un atteggiamento di disvelamento del reale che sta alla base dell’arte. Lo scopo è offrire uno specchio e scoprire la realtà, anche tramite l’evasione.
RV – Com’è stata la collaborazione con Vincenzo Milletarì, il giovane e talentuoso direttore siculo-pugliese che lavora di preferenza nel Nord Europa e che qui è alla sua prima opera in forma scenica in Italia?
FM – L’aio nell’imbarazzo è stata un’esperienza memorabile per noi che l’abbiamo vissuta: è stato un gioco di apprendimenti e di insegnamenti reciproci. Alex Esposito è un grande amico e compagno d’arte ed è stato un gioco di magistero in cui ognuno ha dato e preso molto. Avere Corbelli è stata poi la realizzazione di un sogno: ricordo il suo Leporello nel Don Giovanni di Luca Ronconi a Bologna nel 1991 quando ero ancora al liceo: il suo personaggio era basato sulla figura di uno dei Fratelli Marx e non ho mai visto un’adesione così religiosamente totale al personaggio e così straordinariamente personale. Vincenzo è un po’ l’emblema di tutto questo: è un giovane maestro, talentuosissimo, garibaldino, ha sicuramente dato tantissimo a tutti noi, così come penso abbia anche preso tanto. È stata un’esprienza memorabile.
RV – Ha un sogno, una regia d’opera nel cassetto, una che probabilmente farà? E una che vorrebbe ma che difficilmente potrà fare?
FM – Sono molte le opere che sogno di mettere in scena: da un lato L’elisir d’amore che non ho mai fatto – in effetti io ho fatto pochissimo Donizetti – perché credo che da bergamasco sono in grado di percepire profondamente quel tipo di comicità molto amara, schiva che sottende profondamente quel capolavoro. Adoro il Macbeth, adoro il Don Carlo, ma fondamentalmente il mio cuore batte nel repertorio barocco. L’Alcina di Glyndebourne è stata la seconda opera barocca che ho messo in scena dopo l’Orlando Furioso di Vivaldi ed è dove la mia formazione filologica in ambito letterario e storico-artistico lì trova pane per i suoi denti. Mi piacerebbe fare in futuro Le convenienze ed inconvenienze teatrali perché è molto divertente e credo che lì ci sia moltissima genialità. Quello che difficilmente potrei fare è Richard Strauss: il repertorio tedesco mi è estraneo culturalmente benché ne ami molto le opere, particolarmente Der Rosenkavalier e Ariadne auf Naxos. Sono sommi capolavori, ma non conoscere bene la lingua tedesca in opere in cui il libretto di Hofmannsthal e la musica sono così intimamente unite mi fa sentire inadeguato.
RV – Qual è il suo compositore preferito? E quello più stimolante da mettere in scena?
FM – Il mio compositore preferito è… Händel-Mozart-Donizetti, ma adoro anche Gluck. Comunque siamo sempre tra Settecento e Ottocento, da quelle parti lì. Il più stimolante in scena è forse tra quelli che amo meno, Puccini. Nella mia vita privata ascolto tantissima musica e di tutti i generi – opera, naturalmente, ma anche musica afro-americana, soul – mentre non ascolto mai Puccini. Ho messo in scena ben tre volte, di cui una alla Fenice, La bohème, che è uno dei capolavori più ispirati che mai siano stati concepiti. Penso che sia l’opera che meglio raffigura lo spirito e le illusioni della gioventù. Puccini è il compositore che ha il più grande senso della musica teatrale al mondo, ma non mi piace, non corrisponde alla mia sensibilità…
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