Salome


 
foto © Fabrizio Sansoni

Richard Strauss, Salome

Roma, Teatro dell’Opera, 7 marzo 2024

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Salome, un incubo nero

Che cosa hanno in comune Sarah Bernhardt, Theda Bara, Patrick Dupond e Montserrat Caballé? Che hanno interpretato l’inquietante personaggio di Salome rispettivamente a teatro, al cinema, in un balletto, all’opera.

Soggetto ambito dal cinema muto, prima ancora che Strauss presentasse la sua Salome, la “danza dei veli” aveva avuto innumerevoli versioni coreografiche, da Loïe Fuller a Ida Rubinstein a Mata Hari, mentre del dramma di Oscar Wilde da cui deriva si ricordano le discusse interpretazioni di Carmelo Bene e di Lindsay Kemp.

L’opera è stata spesso presente nei cartelloni del Costanzi – l’ultima volta fu nel 2007 – il teatro che ora ospita in coproduzione con l’Opera di Francoforte lo spettacolo in cui il regista Barrie Koski fornisce una prospettiva diversa dal solito: gli spettatori assistono allo svolgimento della nota vicenda come in un incubo notturno, dal fondo buio della cisterna di Jochanaan. «Wie schwarz es da drunten ist! Es muss schrecklich sein, in so einer schwarzen Höhle zu leben! Es ist wie eine Gruft…» (Come è scuro là in fondo! Deve essere orribile vivere in una grotta così nera… È come una tomba…), dice Salome nella seconda scena e infatti il palcoscenico è rigorosamente vuoto e buio. La scenografia di Katrin Lea Tag, che firma anche i costumi, è praticamente assente, le immagini sono bandite, solo Salome e quelli che interagiscono con lei sono illuminati da uno spot luminoso, un raggio di quella Luna onnipresente nel testo. Tutti gli altri personaggi sono solo voci. L’unico oggetto in scena è un gancio da macellaio che nel finale scende dall’alto nel buco del pavimento e risale con la testa del profeta. Un momento di tensione tremenda, quasi insopportabile con quel rullo dei timpani in fortissimo nell’orchestra.

Salome è frequentemente rappresentata ed è un lavoro su cui si è posata la polvere della tradizione. Il regista australiano-tedesco si impegna a eliminare anche il minimo granello di quella polvere sbarazzandosi primo di tutto del kitsch biblico nelle architetture scenografiche e nei costumi: le prime semplicemente non esistono, Kosky rinuncia a ogni forma di visualizzazione; i secondi sono contemporanei, doppio petto grigio su camicia nera per Erode, tailleur Chanel per la moglie, divisa militare per Narraboth e completo nero per il paggio.

Salome è in scena prima ancora che inizi la musica, quando nel buio si sentono rumori inquietanti provenire da ogni punto della sala del teatro. La donna appare con un enorme copricapo piumato che la trasforma in un’attinia/uccello del paradiso, fasciata in un abito lungo in luccicante lamé, abito che cambierà in continuazione rimanendo però nell’ambito dei tre colori simbolici, bianco (verginità), rosso (desiderio) e nero (morte), che sono anche i colori delle caratteristiche del profeta ammirate dalla donna: il bianco della pelle, il rosso delle labbra, il nero dei capelli. Nella sua messa in scena «testo e musica parlano da soli, sono così potenti da non poter essere illustrati», dice il regista. Qui non si viene distratti da seduzioni visive, tutto si concentra sui pochi personaggi illuminati dalla luce fredda ed essenziale di Joachim Klein. Vista e udito giocano con ambiguità in questo lavoro di Strauss in cui l’ingresso in scena dei due personaggi principali è teatralmente differito: di Salome sentiamo parlare dalle guardie che la descrivono e del profeta sentiamo la voce prima di vedere la sua figura. Ma Kosky sceglie invece di mostrarci subito la principessa che è quasi sempre in scena e ne fa il perno su cui ruota la vicenda, il motore attivo. Salome qui non è una figura passiva, vittima delle attenzioni del patrigno, come si è visto in altre produzioni. Per Kosky non si tratta di un dramma borghese, di una storia padre/patrigno-figlia. Il regista restituisce alla vicenda la sua carica intensa e scandalosa di storia d’amore, perverso sì, ma sempre amore. I duetti sono ad alta tensione erotica quando ai sempre più violenti insulti del profeta la principessa di Giudea risponde con crescente eccitazione. Anche Jochanaan viene in parte sedotto dalla ragazza che si avvinghia al suo corpo, ma è solo un momento e la repulsione per la «figlia di Babilonia» prevale nell’integerrimo profeta. 

La tensione culmina nella scena della “danza dei sette veli”, qui del tutto simbolica: la donna estrae dal suo sesso con crescente eccitazione una interminabile treccia di capelli, cresciuti dentro di lei da quella ciocca che lei aveva poco prima strappato al profeta. E mai come qui la sensualità quasi lasciva della musica è messa in evidenza, con quel crescendo nel ritmo e nel volume sonoro che allude a un orgasmo – trent’anni prima della Lady di Šostakovič! Molto efficace è anche la coppia Erode/Erodiade, una coppia quasi buffa in cui l’arroganza e la debolezza del primo si intrecciano con la cinica sicurezza della seconda che sa esattamente quello che vuole: la distruzione del profeta.

Le prime interpreti di Salome furono cantanti wagneriane – «Salome era vista come una continuazione del Tristan e la principessa giudaica la sorella isterica di Isolde», scrive sul programma di sala Antonio Rostagno – ma per la prima italiana al Regio di Torino il 22 dicembre 1906, il direttore, lo stesso Strauss, volle la bellissima Gemma Bellincioni, la Santuzza di Cavalleria Rusticana, che danzò di persona senza servirsi della controfigura, quella «pantomima dell’eros femminile, opposto alla moderazione della donna […] proposta nell’Italia giolittiana» (ancora Restagno). Vocalmente si passava così ad un’interprete del repertorio verista, dalla tecnica vocale imperfetta ma piena di temperamento. Curiosamente, il giorno prima, alla Scala di Milano, Toscanini dirigeva la stessa opera in una prova aperta a un ristretto pubblico. Come sarebbe interessante poter confrontare i due stili interpretativi, quello misurato e distaccato del tedesco e quello vigoroso e quasi aggressivo dell’italiano! 

Marc Albrecht, indiscussa autorità nel repertorio tardo-romantico, sceglie una terza via. Salome è un’opera che spalanca una finestra su un paesaggio musicale completamente nuovo e la sua lettura mette in luce, oltre un secolo dopo, la grande modernità della scrittura straussiana e approfitta dell’occasione offerta dall’Opera di Roma per ridare nuova vita a questa «musica da camera scritta per cento musicisti», tanti sono i particolari strumentali presenti nella partitura. Il suo è un approccio analitico che però tiene sempre conto delle esigenze espressive del testo e nella sua direzione si alternano con sapienza sia il dramma sia la sensualità, senza che una prevalga sull’altra. Molta attenzione è riservata all’equilibrio tra le voci in scena e l’orchestra, soprattutto nel caso della Salome di Lise Lindstrom, che sostituisce l’originalmente prevista Sara Jakubiak, che ha voce sicura negli acuti ma non nel registro medio-basso. Il suo particolare timbro un po’ acerbo esalta il carattere previsto dal regista: una bambina più che una donna, capricciosa ma che sa quel che vuole e lo ottiene, quasi una femminista in anticipo sui tempi. Con la duttilità della voce e una forte presenza scenica il soprano americano delinea alla perfezione la complessità del personaggio.

Non ha problemi di proiezione vocale invece lo Jochanaan di Nicholas Brownlee, basso-baritono che accentua il tono umano del profeta con un fraseggio espressivo e una grande attenzione alla parola. Il sempre peculiare tenore John Daszak mette in scena un Erode non grottesco, come spesso viene raffigurato, ma tormentato non solo dalla paura ma anche dalla temibile moglie, una efficace Katarina Dalayman. Un magnifico Joel Prieto dà voce all’unico personaggio umano della vicenda, quel Narraboth giovane e appassionato che presto si suicida ed esce così di scena. Eccellente anche il Paggio di Karina Kherunts mentre nella folta schiera degli altri personaggi, in ombra visivamente ma ben presenti vocalmente, si distinguono Michael J. Scott, Christopher Lemmings, Marcello Nardis, Eduardo Niave, Edwin Kaye (i cinque litigiosi ebrei), Zachary Altman e Nicola Straniero (Soldato e Nazareno), Alessandro Guerzoni (Un uomo di Cappadocia) e Giuseppe Ruggiero (Uno schiavo). Ottima prova quella fornita dall’Orchestra del Teatro per bellezza di timbro strumentale, duttilità e precisione nei momenti più complessi.

Il pubblico ha salutato con molta soddisfazione la parte musicale e i suoi interpreti ma ha espresso qualche sparuto dissenso per la parte visiva. Togliere la polvere va bene, ma lasciateci i sette veli, sembrava voler intendere qualcuno senza rendersi conto di aver invece assistito a uno spettacolo quasi memorabile per forza teatrale e carico di una tensione che non ha un momento di stanchezza.