Beatrice di Tenda

 

foto © Marcello Orselli

Vincenzo Bellini, Beatrice di Tenda

Genova, Teatro Carlo Felice, 17 marzo 2024

★★★☆☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Il penultimo Bellini a Genova, grandi voci ma regia non pervenuta

Con Beatrice di Tenda si arrestava il proficuo sodalizio di Bellini con il librettista Felice Romani. Per diverse ragioni si interrompeva infatti la collaborazione con chi gli aveva scritto Il pirata, La straniera, Zaira, I Capuleti e i Montecchi, La sonnambula e Norma, ossia tutte le opere dopo il 1826. L’opera successiva, I puritani, sarebbe stata versificata da Carlo Pepoli e una riconciliazione tra Bellini e Romani ci sarebbe forse stata se non fosse avvenuta prematuramente la morte del compositore catanese. 

La Beatrice di Tenda è dunque la sua penultima opera e quella che più si stacca dalle precedenti per la mancanza di grandi arie e cabalette, elemento che, nonostante la presenza della diva Giuditta Pasta, ne decretò l’incerto esito alla prima veneziana del marzo 1833 e la scarsa popolarità successiva. In tempi moderni si deve a Joan Sutherland il recupero di questo titolo negli anni ’60 del secolo scorso. La sua fu un’interpretazione quasi metafisica per astrazione e raffinata linea vocale, a cui si contrappose poco dopo quella più naturalistica e drammatica di Leyla Gencer. Ora a Genova il soprano americano Angela Meade sfoggia la sua prodigiosa proiezione vocale, la precisione delle agilità, i filati preziosi e il fraseggio accurato che abbiamo ammirato altre volte nella parte di questa figura angelicata, pura e martire trasfigurata nella pace celeste che l’attende. La voce però ha un filo di metallico e un vibrato che prima non c’erano e la presenza scenica rimane quella che è, così che il personaggio, già di per sé non trascinante dal punto di vista emozionale, diventa ancora meno empatico del solito.

Annunciato leggermente indisposto, Mattia Olivieri ha lasciato tutto il pubblico in attesa di qualche sintomo della sua non perfetta forma, ma inutilmente: il baritono emiliano ha stupito tutti con una performance da manuale per il timbro meravigliosamente morbido, il canto omogeneo su tutti i registri, l’accento e l’espressività. Quanta strada ha fatto dai ruoli leggeri e buffi di qualche tempo fa! Il suo Filippo Maria Visconti, che ricordiamo aveva vent’anni meno della moglie, un abisso incolmabile per quell’epoca, con la sua presenza scenica fa diventare il perfido personaggio se non accettabile nelle ragioni per cui fa condannare la donna, per lo meno più comprensibile e indubbiamente fascinoso.

Il personaggio certamente non eroico di Orombello trova in Francesco Demuro una linea di canto elegante e un timbro piacevole ma l’impervia tessitura porta il tenore sardo a sbiancare gli acuti, anche se in linea con l’estetica belliniana. Non sembrano molto belcantistici invece i suoni marcati nelle consonanti e l’eccessiva espressività di Carmela Remigio, una Agnese del Maino meglio recitata che cantata. Peculiare nella voce l’Anichino di Manuel Pierattelli, l’unico personaggio umano in questa corte spietata mentre anche Giuliano Petouchoff fornisce buona prova nel breve intervento di Rizzardo del Maino. Il coro, istruito da Claudio Marino Moretti, è un vero e proprio personaggio che commenta continuamente le azioni. Qui esibisce buona intonazione, precisione e duttilità. 

La musica di quest’opera è quasi un unicum nella produzione belliniana: il tono dominante è scuro, mancano come s’è detto pagine melodicamente orecchiabili, strette e cabalette trascinanti e le scene si susseguono senza spettacolari cambiamenti di colore. Insomma, la drammaturgia è sobria pur nella tragicità degli eventi. Il direttore Riccardo Minasi ha dato efficace risalto alle pagine drammatiche, un po’ meno a quelle liriche, ma ha saputo fornire il giusto respiro ai cantanti e dosare l’equilibrio sonoro tra buca e palcoscenico. Apprezzato anche l’aver presentato il lavoro quasi senza tagli.

Il regista Italo Nunziata ha scelto di ambientare la vicenda non nel 1418 né all’epoca di Bellini bensì, inspiegabilmente, a fine Ottocento con gli eleganti abiti femminili richiamanti nella ricchezza dei broccati elementi del Rinascimento, ma tutti uguali per le coriste, mentre coristi e personaggi maschili sono in abiti da sera, disegnati da Alessio Rosati. Nella scenografia di Emanuele Sinisi il castello di Binasco è uno spazio chiuso e oscuro delimitato da quinte e pannelli mobili che sembrano soffitti di cemento squarciati. Le grandi fotografie di particolari architettonici che appaiono in certi momenti sono un omaggio a Ola Kolehmainen (non Kolemhainen com’è scritto nel programma di sala), fotografo finlandese contemporaneo. Un vecchio dagherrotipo che appare quando Beatrice ricorda il defunto marito Facino Cane e una sbiadita foto della Corte Suprema americana quando si insediano i giudici sono ulteriori elementi di questa scenografia. Le luci fisse di Valerio Tiberi accentuano la claustrofobia dell’ambiente in cui è assente la luce naturale esterna.

La scarsa drammaturgia offerta dal libretto ha suggerito al regista una lettura rinunciataria e totalmente statica. Gli unici movimenti in scena sono quelli dei pannelli o del coro, quando metà entra da sinistra e l’altra metà da destra, si incrociano nel mezzo, c’è chi sale i tre gradini e chi li scende, i maschietti impettiti a dritta e le donne che fanno le belle statuine a manca. Una coreografia che si ripete stancamente per tutti gli atti. Ai cantanti non è offerto nessun appiglio per rendere più intensi i duetti e i concertati e l’inamovibilità della protagonista sembra contagiare quasi tutti i presenti in scena. Che poi dopo le indicibili torture subite sia Beatrice che Orombello si presentino senza un graffio e perfettamente pettinati e vestiti non stupisce più di tanto. Il recente criticato allestimento parigino di Peter Sellars al confronto aveva almeno offerto qualche motivo di interesse in più.

Si è comunque trattato di un allestimento lineare, senza “stranezze” che l’attempato pubblico della domenica pomeriggio del Carlo Felice ha salutato con molto calore e autentiche ovazioni per la Meade e l’Olivieri.