Aroldo

Giuseppe Verdi, Aroldo

★★★★☆

Rimini, Teatro Amintore Galli, 27 agosto 2021

(video streaming)

Aroldo inaugura per la seconda volta il teatro di Rimini

«Sono un po’ stanco di questi crociati. Qualche cosa di più moderno e di più piccante» richiede Verdi al librettista Piave che gli sta rimaneggiando lo Stiffelio di sei anni prima per riproporlo come Aroldo.

Prendono in parola il compositore gli artefici della nuova messa in scena dell’Aroldo al Teatro Amintore Galli di Rimini: la vicenda è spostata dalla Scozia dei tempi delle Crociate (!) all’Italia fascista degli anni ’30; il crociato Aroldo appena arrivato dalla Terra Santa diventa il prode legionario Aroldo di ritorno dalla conquista dell’Africa Orientale; la Palestina e la Siria del libretto diventano l’Abissinia; Briano, il «pio solitario», è un ascaro copto; il servo Jorg è un camerata e la tempesta del quarto atto diventa la tempesta di bombe su Rimini di quella notte del ’43 quando la sala del teatro fu ridotta in macerie.

Un forte legame è quello tra l’Aroldo e il Galli: qui l’opera aveva debuttato il 16 agosto 1857 per inaugurarlo come Teatro Nuovo (così si chiamava allora), e qui ritorna dopo 164 anni a celebrare la rinascita dell’edificio. È infatti la prima vera produzione lirica pensata per questo teatro dopo la Cenerentola semiscenica – madrina d’eccezione Cecilia Bartoli – con cui era stato riaperto tre anni fa.

Artefici dell’operazione attuale sono il direttore Manlio Benzi e i registi Emilio Sala ed Edoardo Sanchi, i quali pongono la storia del teatro stesso al centro della drammaturgia dell’Aroldo. Il loro diventa un allestimento site specific, dove la scenografa Giulia Bruschi si limita a impiegare le scritte di regime a caratteri cubitali in un palcoscenico praticamente vuoto: esposto nella sua nudità e con le maestranze tecniche in vista il teatro diventa uno dei protagonisti. I costumi di Raffaella Girardi ed Elisa Serpilli, che trasformano Mina in una vamp dei telefoni bianchi, Aroldo in immacolata divisa un giovane Duca D’Aosta e il padre un podestà in orbace, e il montaggio video di Matteo Castiglioni creano uno spettacolo di grande forza espressiva nonostante le oscurità e le luci di Nevio Cavina che rendono difficile la visione su schermo. La definizione dell’immagine trasmessa non è poi delle migliori, tanto che certe azioni bisogna immaginarle, e ci sono pure due salti nella registrazione nel terzo e nel quarto atto.

Prima dell’opera arriva sul palcoscenico con la sua bicicletta l’attore Ivano Maroschetti a raccontare la vicenda del teatro ora Amintore Galli e del suo sipario che vediamo annerito di fumo e polvere. Poi inizia la musica. Siamo dunque nel 1935 e i volantini che piovono dall’alto – richiamo non peregrino al film Senso di Visconti… – riportano le parole, tutte in maiuscolo, di Dio, patria, famiglia, dovere, onore, sacrificio, i temi su cui si fondava l’ideologia fascista, ma parole che hanno anche un dirompente significato per la vicenda del fuggevole adulterio il cui esito stiamo per vedere. Sullo sfondo passano immagini di propaganda del Ventennio e ascoltiamo anche il frammento di un discorso del Duce alla folla osannante. Prima del quarto atto il classico calendario che si sfoglia ci porta al 28 dicembre 1943: Mina e il padre vagano tra le macerie dei bombardamenti, si vedono anche quelle del teatro. I valori che avevano dominato per tutta l’opera nel finale “evaporano” in una apoteosi di riconciliazione: «Oh istante sublime! | Oh gioia insperata! | Trionfi la legge divina d’amor!». I personaggi si tolgono i costumi e si presentano in abiti contemporanei, mentre dall’alto scende il sipario storico dipinto dal Coghetti finalmente restaurato e il teatro viene restituito al nostro oggi con la sua sala sfavillante di luci.

Destini opposti quelli delle due opere verdiane: Stiffelio non ebbe successo ai suoi tempi ma è fatto segno di attento recupero ai nostri; Aroldo ebbe un successo memorabile al suo apparire per poi venire quasi dimenticato dopo essere stato considerato la brutta copia dell’originale, un suo succedaneo a prova della censura dello Stato Pontificio dell’epoca. Non così la pensa Manlio Benzi alla testa dell’Orchestra Luigi Cherubini che occupa tutta la platea mentre l’esiguo pubblico occupa i palchi. Il direttore affronta con vigore questa partitura verdiana che forse non è al passo coi suoi tempi – tra Stiffelio e Aroldo ci sono state le opere della trilogia popolare, I vespri siciliani e il Simon Boccanegra – ma ha superato la rigida struttura recitativo-aria-cavatina-duetto per organizzarsi in grandi blocchi drammatici, e la direzione di Benzi mette bene in evidenza questa svolta della maturità verdiana. Complimenti anche alla sua abilità nel governare strumentisiti molto distanti fra loro causa il distanziamento da Covid-19.

Il soprano russo Lidia Fridman si conferma interprete di grande presenza scenica, dal timbro particolare e penetrante. Mina è l’unico personaggio femminile ed è lei il carattere principale, la forza drammaturgica, la protagonista che porta a un’ipotesi di catarsi finale fondata sul perdono. Nell’Aroldo Antonio Corianò mette in campo una vocalità tenorile sostenuta da una voce di grande proiezione di cui non abusa: mezze tinte e piani preparano la “conversione” del marito colpito nell’onore e votato al perdono nel finale. In Egberto Michele Govi esibisce uno strumento potente ed espressivo, peccato che la dizione non sempre sia chiara e le parole talora siano mezze mangiate. Il Briano del basso Adriano Gramigni è efficace nel suo ruolo di deus ex machina risolutore. Con il Godvino di Cristiano Olivieri si capisce l’improvvisa decisione di Mina di lasciare l’amante alla sua sorte per tornare tra le braccia del marito legittimo: non c’è confronto tra l’aitante Corianò e il meno giovane e vocalmente appannato Olivieri.

Coprodotto con Modena e Reggio Emilia, lo spettacolo è offerto da Opera Streaming ed è al momento disponibile su YouTube.

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