Maurice Maeterlinck

Ariane et Barbe-bleu

Paul Dukas, Ariane et Barbe-bleu

★★★☆☆

Lione, Opera Nouvel, 24 marzo 2021

(video streaming)

Il rifiuto della libertà

Una coppia appena sposata in macchina. Dai finestrini si vede scorrere la campagna. Lei è ancora vestita di bianco, lui ha una folta barba blu. Fuori campo si sente la folla: «À mort! À mort! […] Retournez! | N’entrez pas! N’entrez pas! C’est la mort!». Le voci degli abitanti del villaggio inutilmente mettono in guardia la sposa, che è decisa a scoprire il mistero che circonda suo marito: «Il m’aime, je suis belle | et j’aurai son secret» risponde decisa Ariane alla nutrice che l’aspetta al castello.

L’Ariane et Barbe-bleue fa parte di un festival on line dal titolo “Femmes libres?” che l’Opéra de Lyon dedica alla donna con conferenze, interviste al femminile e spettacoli dedicati a tre personaggi del teatro musicale: l’Ariane dell’opera di Dukas, la Judith del Castello del duca Barbablù di Bartók e la Mélisande di Maurice Maeterlink con un evento al Museo del tessuto sulle musiche di Fauré, Debussy, Schönberg e Sibelius.

Destinato inizialmente a Edvard Grieg, il libretto dell’Ariane et Barbe-bleu ou La délivrance inutile pubblicato nel 1902 e da lui definito «un canevas pour le musicien. Trois petits actes très brefs sans aucune prétension et qui n’attendent toute leur valeur de la musique qu’y mettra le musicien», dopo la rinuncia del compositore fu proposto a Paul Dukas che lavorò alla sua intonazione fino al 1906 e che al proposito scrisse: «Nessuno vuole essere liberato. La liberazione è costosa perché è l’ignoto, e gli uomini (e le donne) preferiranno sempre una schiavitù “familiare” a quella terribile incertezza che è il peso della “libertà”. E poi la verità è che non si può liberare nessuno, è meglio liberare sé stessi. Non solo è meglio, ma è l’unico modo. E queste signore lo mostrano molto  bene a questa povera Arianna che ne era all’oscuro e che crede che il mondo ha sete di libertà mentre aspira solo al benessere: appena queste signore sono trascinate fuori dalla loro cantina, lasciano andare la loro liberatrice per il loro gioielliere-carceriere (un bel ragazzo, tra l’altro) come era opportuno! Questo è il lato “comico” dell’opera, perché c’è, almeno nel poema, un lato satirico di cui la musica non potrebbe tenere conto senza rendere l’opera abbastanza incomprensibile».

Questo aspetto “comico” non sembra essere stato preso in considerazione dal regista Àlex Ollé de La Fura dels Baus che invece considera il lavoro un inno alla liberazione e alla scoperta della verità, come afferma in un’intervista. La scenografia di Afons Flores copia il labirinto che cala dall’alto della produzione di Stefano Poda, che comunque non influisce molto sulla drammaturgia e rimane appena discernibile nell’oscurità che non rende facile la ripresa dello streaming. Le diverse porte sono risolte con un fascio di luce di colore e l’ultima si apre sul salone in cui si svolge la festa di nozze con le altre mogli tra gli invitati. I tavoli saranno poi impilati a piramide, una barricata in verticale, per il tentativo di fuga (verso il soffitto?) delle donne capeggiate da Ariane. Il terzo atto è dominato da una grande cornice, lo specchio di un bagno per signore ed è dalle quinte che Ariane e la nutrice si allontaneranno, lasciando le altre donne avanzare verso il proscenio con il marito ancora legato alla sedia. Il realismo che vediamo in scena non risolve certo il simbolismo del lavoro e il lungo intervento prima dell’inizio dello spettacolo di due membri di un collettivo che rivendica l’occupazione del teatro non ha aiutato a entrare nell’atmosfera. 

Alla testa dell’orchestra del teatro Lothar Koenigs ricostruisce con sapienza la struttura di questa “sinfonia con voce” dove domina in assoluto Ariane – Barbe-bleu (qui il basso Tomislav Lavoie) ha solo poche battute nel primo atto e delle cinque mogli una è muta. Katarina Kernéus prende in carica il personaggio che tratteggia con efficacia, ma è superata vocalmente dalla nutrice di Anaïk Morel per colore e fraseggio (la lingua madre aiuta molto).

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Pelléas et Mélisande

Claude Debussy, Pelléas et Mélisande

★★★☆☆

Ginevra, Grand Théâtre, 18 gennaio 2021

(video streaming)

Fare di Pelléas un opéra-ballet? No, grazie

Nel 2018 ricorrevano i cento anni dalla morte di Claude Debussy e l’Opera di Anversa aveva pensato di celebrare il compositore con un allestimento del suo unicum teatrale affidato a Damien Jalet e Sidi Larbi Cherkaoui, entrambi coreografi, che hanno fatto del Pelléas et Mélisande un opéra-ballet con l’apparato visivo e concettuale affidato all’artista Marina Abramović. Due anni dopo lo spettacolo è ripreso dal Grand Théâtre di Ginevra che lo aveva coprodotto e le perplessità sull’operazione vengono confermate.

In scena otto maschioni in culottes color carne, che ne simulano la nudità, che amplificano gesti e intenzioni dei personaggi, ne chiariscono i sottintesi o contrappuntano la partitura con gesti fluidi o formnoe tableaux vivants di corpi inviluppati. Un po’ troppo per la musica di Debussy che è quasi impalpabile, suggerisce più che affermare. La solitudine dei personaggi qui è immersa in una folla in continuo movimento di corpi la cui anatomia viene privilegiata dalla ripresa televisiva a scapito della visione generale e distogliendo l’attenzione da quanto viene cantato. La regia attoriale è trascurata e i cantanti si rivolgono al pubblico inesistente senza quasi interagire fra di loro.

Di buon livello gli interpreti, soprattutto la glaciale Mélisande di Mari Eriksmoen che non lascia mai trasparire il tormento interiore. Per questo risolta fin troppo esteriore la sofferenza di Golaud, un espressivo ma non sempre troppo controllato vocalmente Leigh Melrose, mentre Jacques Imbrailo è un sensibile ma anche troppo trepidante Pelléas. Il soprano Marie Lys non fa molti sforzi per sembrare un ragazzino, né Yvonne Naef per essere una memorabile Geneviève. Più che corretto invece il medico di Justin Hopkins. Dizione non esemplare per i cantanti non di lingua francese.

Ottima la direzione intensa ma trasparente di Jonathan Nott, che mantiene la tensione di una musica fatta anche di lunghi silenzi, qui parzialmente riempiti da un cupo ronzio cosmico e dai contorcimenti di un ballerino al proscenio.

Gli elegantissimi costumi di Iris van Herpen collocano l’azione in un medioevo di fantascienza cui si riferiscono anche le immagini video di spazi interstellari di Marco Brambilla proiettate in uno schermo circolare che sembra un occhio di Sauron vigilei sul destino dei personaggi. Assieme a grandi cristalli nella scenografia della Abramović domina la figura del cerchio  – il perimetro in cui avviene l’azione, il bordo della fontana, lo schermo sul fondo – simbolo della ciclicità della vita. «Il faut qu’il vive, maintenant, à sa place | C’est au tour de la pauvre petite» (Ora deve vivere al posto di lei. Tocca alla povera piccina) sono le ultime parole nell’opera di Arkel riguardo alla neonata che Mélisande ha partorito, qui un’incongrua ragazzina di oltre dieci anni.

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Pelléas et Mélisande

Claude Debussy, Pelléas et Mélisande

★★★★★

Londra, Sadler’s Wells, 18 novembre 2008

(registrazione video)

Quando immaginazione e creatività compensano ampiamente la scarsità dei mezzi a disposizione

Azzardata scommessa quella dell’Independent Opera di portare il lavoro di Debussy in un ambiente quanto mai inadatto, apparentemente, quale il Lilian Baylis Studio di Londra, una delle due sale del glorioso Sadler’s Wells Theatre (1) – una sala rettangolare con un minuscolo palcoscenico e 180 posti distribuiti su otto ripide file.

Scommessa pienamente vinta grazie all’adattamento musicale di Stephen McNeff e alla messa in scena di Alessandro Talevi. Il primo riduce l’orchestra a 35 elementi invece dei 50 previsti mantenendo tutte le prime parti, il secondo fa di necessità virtù ideando una geniale drammaturgia che si adatta al claustrofobico ambiente e rende ancora più soffocante l’atmosfera del primo capolavoro del teatro musicale moderno. La regia di Talevi rifugge da un minimalismo di comodo per affrontare e realizzare una drammaturgia complessa e intrigante che è molto difficile ritrovare negli altri allestimenti di questo lavoro di Debussy, al più ricorrenti a decorativi tableaux in stile liberty o a un depurato simbolismo psicanalitico.

La mancanza di profondità del palcoscenico è genialmente risolta ponendo strumentisti e interpreti vocali su piani diversi: tre aeree piattaforme permettono ai cantanti di muoversi al di sopra dell’orchestra piazzata di sotto. Per una volta suoni e voci sono alla stessa distanza e la musica si sviluppa dal basso, sotto i cantanti, le cui voci hanno quindi una maggiore evidenza. L’ambientazione, se così si può dire, di questa scenografia ridotta all’osso è quella dell’epoca della rappresentazione (1902) con strani macchinari e vecchi proiettori le cui luci creano l’atmosfera della scena della grotta (atto II, scena prima) o della torre (atto III, scena prima) in maniera semplice ed efficace in cui la quasi perenne oscurità è perforata da fasci di luce radente – l’efficace design luci è di Matthew Haskins. Nel castello di Allemonde i personaggi, in pesanti costumi tardo vittoriani di Madeleine Boyd (che disegna anche la scenografia), si muovono su pedane semoventi (2) e Arkel è su una sedia a rotelle, tutto è manovrato a distanza da una serva: ad Allemonde dominano rigidità e immobilismo. Anche alcuni elementi architettonici (una finestra, frammenti di colonne, una lampada) si muovono su rotaie: il castello è come una macchina, un meccanismo repressivo dell’era industriale moderna, un ambiente che, come Mélisande, non è felice. Gli abitanti hanno sempre a che fare con sotterranei e abissi minacciosi appena sotto i loro passi – chiara metafora dell’inconscio che si andava rivelando in quegli stessi anni nello studio viennese di Sigmund Freud. Mélisande porta un temporaneo sollievo a questa atmosfera opprimente e Arkel lascia la sedia a rotelle e muove i primi passi. La presenza di tre serve mute aggiunge una strana tensione nel misterioso castello. Le stesse donne appariranno alla fine quali angeli della morte attorno al corpo senza vita di Mélisande.

La scena della torre e della capigliatura non è evitata come fanno semplicemente molti registi, ma elaborata e risolta in maniera geniale: Mélisande è all’arcolaio e come filo usa i suoi capelli. Alla fine di questa stessa scena l’ambiguo momento di tenerezza quando Golaud mette a posto una ciocca di Pelléas lascia il dubbio se si tratti di invidia per la giovinezza del fratellastro o di attrazione fisica per lo stesso, gettando così una luce diversa sulla gelosia di Golaud. Un dubbio, assieme a quelli copiosamente seminati da Maeterlinck nel testo, che si rafforza quando, dopo averlo strangolato, Golaud si china a baciarlo. Anche la scena dei sotterranei, è sviluppata con mezzi sorprendentemente semplici e nel contempo inquietanti. Un altro momento di grande emozione è quello tra Golaud e Yniold, un dialogo di tensione lancinante che termina con una sfuggente immagine di Pellèas e Mélisande riflessi in uno specchio con espressione spaventata e colpevole. Nel finale, quando Arkel invita a lasciare la stanza alla morte di Mélisande, «Venez… il ne faut pas que l’enfant reste ici dans cette chambre… Il faut qu’il vive, maintenant, à sa place. C’est au tour de la pauvre petite» (3), dopo che il cadavere è sparito, inghiottito nel pavimento, la luce invade la scena e vediamo seduta di spalle la bambina di Mélisande. Sarà lei a riportare la vita nel castello?

L’ardua impresa di riorchestrare per un organico minore la partitura del Pelléas ha come effetto di metterne più a nudo le trascoloranti armonie e rendere più nitidi i temi melodici. È così che nella direzione di Dominic Wheeler quando Arkel chiede a Mélisande se deve chiudere la finestra e lei gli risponde: «Non… jusqu’à ce que le soleil soit au fond de la mer» (4) si sente distintamente in orchestra uno dei temi de La mer, gli schizzi sinfonici che Debussy scriverà pochi anni dopo. Wheeler utilizza molto opportunamente gli interludi originali, più brevi di quelli riscritti da Debussy per coprire i lunghi cambi di scena all’Opéra Comique.

Eccellente il cast vocale, dominato dalla Mélisande tutt’altro che esangue del soprano Ingrid Perruche, dal bel timbro e dal ragguardevole volume sonoro. Il tono baritonale del giovane norvegese Thorbjørn Gulbrandsøy delinea un Pelléas inizialmente chiuso in sé stesso, poi sempre più appassionato a mano a mano che la vicenda procede. La coppia non sprizza una grande carica erotica, forse troppo compresa della severità vittoriana. Il personaggio più complesso e interessante è quello di Golaud, qui affidato a un magistrale Andrew Foster-Williams che domina la scena per autorevolezza vocale e sensibilità. Anche per il baritono inglese la dizione è impeccabile. Questo non è certo un problema per il francese Frédéric Bourreau, Arkel di grande umanità. Julie Pasturaud (Geneviève) e Caryl Hughes (Yniold, e qui si sente che la cantante non è francese, infatti è gallese) completano un cast ineccepibile che ha avuto solo tre recite per farsi valere e convincere un più numeroso pubblico della bellezza di questo unicum operistico di Debussy.

(1) Storico teatro del quartiere di Islington, che ebbe origini nel 1683 e che è arrivato alla sua sesta reincarnazione in un moderno progetto architettonico inaugurato nel 1998.
(2) Nel 2017 Barrie Kosky utilizzerà dei settori rotanti per il suo Pelléas alla Komische Oper di Berlino.
(3) Venite… Non bisogna che la bimba resti qui in questa stanza… Ora deve vivere al posto di lei. Tocca alla povera piccina.
(4) No… fin quando il sole non sarà in fondo al mare.

Pelléas et Mélisande

foto Toni Suter T+T Fotografie

Claude Debussy, Pelléas et Mélisande

★★★☆☆

Zurigo, Opernhaus, 8 maggio 2016

(video streaming)

Mélisande sul lettino dello psicoterapista

Dmitrij Černjakov a Zurigo decontestualizza Pelléas et Mélisande come farà l’anno successivo con la Carmen a Aix-en-Provence o con Les Troyens a Parigi: niente tetro castello qui, niente fontana, niente grotta marina, niente sotterranei, niente torre e non c’è neanche la capigliatura della enigmatica fanciulla: tutto è nell’immaginazione dei protagonisti – e del pubblico.

Mentre in Carmen l’idea forte sarà quella di far vivere la vicenda come un gioco di ruolo terapeutico a un uomo in crisi, qui in crisi è Mélisande, giovane traumatizzata da qualche misteriosa esperienza del suo passato, che si rifugia in un autismo rabbioso fino a che il dottore/Golaud, nell’intento di farle superare il trauma, se la porta a casa per inserirla in un’atmosfera famigliare, non meno pericolosa però.

Sarà che Carmen è un’altra cosa, con la sua alternanza di parlato e di cantato; sarà che la sfacciata musica di Bizet ha un impatto ben diverso dell’estenuato declamato di Debussy; sarà che la protagonista, seppur brava, deve rimanere inquadrata in una fissa espressione spaventata e imbronciata per tutta la durata dell’opera, ma questa volta la lettura del regista russo non convince pienamente nonostante la profondità dell’idea di fondo – si tratta pur sempre di Černjakov, uno dei più intriganti metteur en scène di oggi. Se nulla è certo nelle parole del dramma di Maeterlinck, qui non solo le parole perdono significato, anche i personaggi non sono più quelli: lo psicoterapeuta a un certo punto si comporta come uno psicopatico brutalizzando moglie e figlio – ma non uccide il fratello che semplicemente se ne va via di casa – mentre il vecchio libidinoso Arkel cerca di baciare la giovane Mélisande e il bambino Yniold non è così innocente, quasi un doppio della matrigna con i suoi astratti furori.

E poi c’è lei, Mélisande, che agisce da elemento perturbatore di una famiglia di oggi insopportabilmente borghese che si attacca a gesti rituali (come bere in continuazione dell’acqua – ecco dov’è l’acqua che manca nella scenografia e che viene citata ben venti volte nel libretto!) – in un silenzio teso che sottolinea l’incomunicabilità dei personaggi.

Le quindici scene del dramma si susseguono inesorabili, separate da istanti di buio totale. L’atmosfera brumosa del dramma simbolista di Maeterlinckm tradotta nel lirismo fluttuante di Debussy, diventa qui il nitido interno di una villa modernista con i suoi grandi spazi, un’enorme vetrata che dà su un bosco di alti alberi scossi eternamente dal vento – unica concessione a una natura che spaventa – e mobili di design. Nella scenografia disegnata dallo stesso Černjakov vediamo un alto ambiente in diagonale: una grande porta a soffietto a sinistra e uno schermo al plasma sulla parete; la parete destra è inclinata e tagliata da due finestre, per terra due chaise longue per il riposo; al centro in fondo la zona pranzo schermata da una leggera tenda azionata elettricamente. Le pareti e il pavimento sono grigi e tutti gli elementi d’arredo bianchi. Solo il legno chiaro della porta immette un elemento naturale in questo interno asettico abilmente illuminato dal design luci di Gleb Filshtinsky.

Sullo schermo televisivo compaiono alcune clip del comportamento turbato della giovane in ospedale prima della decisione del dottore che l’ha in cura di portarla a casa sua per continuare il trattamento – ma anche perché se ne è innamorato. E qui la giovane incontra un altrettanto inquieto e introverso Pelléas, con cui riesce finalmente a comunicare. Ma l’erotismo è completamente assente tra di loro: più che un’illecita relazione, la loro sembra l’unione di due giovani spaesati che si trovano ma non sanno cosa fare delle loro vite, ancor meno dei loro corpi. E se togli l’elemento sensuale da un Pelléas visivamente decontestualizzato come questo, che cosa rimane?

Lo understatement della regia di Černjakov non sembra condiviso dalla direzione di Alain Altinoglou, che offre una lettura drammatica della partitura ben lontana da una visione art nouveau: ci sono momenti nella sua esecuzione musicale di grande crudezza e modernità, quasi espressionistici. Lo sostengono interpreti di vaglia, tutti dalla perfetta dizione francese, sì anche il sudafricano Jacques Imbrailo, che ritorna nella parte di Pelléas con perfetta adesione e bel colore della voce. L’autorevole Kyle Ketelsen fa di Golaud il personaggio principale della vicenda mentre Corinne Winters è una Mélisande tormentata: dimentichiamo la misteriosa principessa dai veli fluttuanti, qui è in felpa con cappuccio e anfibi ai piedi, capigliatura corvina da homeless che non vede un pettine da tempo memorabile e uno sguardo che perfora e ti fa sentire in colpa senza sapere il perché.

Ariane et Barbe-bleu

Paul Dukas, Ariane et Barbe-bleu

★★★☆☆

Tolosa, Théâtre du Capitole, 4 aprile 2019

(video streaming)

Sulle orme di Mélisande

Come sempre negli spettacoli di Stefano Poda – autore oltre che della regia, della scenografia, dei costumi, delle luci e delle coreografie – l’aspetto meramente visivo ha il sopravvento sulla drammaturgia e sullo sviluppo logico della vicenda. D’accordo che nell’Ariane et Barbe-bleu sia il testo di Maeterlinck sia la musica di Dukas sono altamente evanescenti e simbolisti, ma se nella vicenda narrata dal libretto succede poco, in scena qui con Poda succede ancora meno e quel che succede avviene al rallentatore essendo gli interpreti zavorrati da lunghi e pesanti costumi. È il fondale con le fatidiche sette porte, un piranesiano gioco di scale e un bassorilievo brulicante di corpi umani, a dominare. Ritornano qui particolari dei suoi precedenti spettacoli, come i caschi tempestati di gemme della sua Turandot o il tulle bianco in cui sono imbozzolati i personaggi.

Il primo atto si apre con il personaggio muto di Alladine («elle ne parle pas notre langue»), qui l’attrice Dominique Sanda,  un’Ariane invecchiata (ha lo stesso abito) ancora e sempre innamorata del suo Barbe-bleu. I contadini in scena hanno la schiena dei loro bianchi costumi segnata dal sangue, la violenza subita dal padrone. Nel secondo atto sulle parole della nutrice «La porte se referme avec un bruit terrible et les murailles tremblent. Je n’ose plus marcher. Je reste ici. Nous ne reverrons pas la lumière du jour» un labirinto scende dall’alto fino a combaciare con quello luminoso tracciato nel pavimento, intrappolando le donne. E al centro del labirinto Ariane ritrova il suo Barbe-bleu Minotauro, ingabbiato in una teca di vetro. Il terzo atto vede il nero prevalere sul bianco nei costumi durante il momento della caccia all’uomo nel racconto delle donne, dove i “salvatori” sono ancora più minacciosi del cacciato. Il coltello con cui Ariane vuole tagliare le corde che legano l’uomo, viene usato invece contro le altre mogli, colpevoli di rispecchiare nella loro sottomissione la sua. Alla fine Alladine, Sélysette, Ygraine, Mélisande e Bellangère rimangono con l’uomo, mentre Ariane se ne va sola con la nutrice.

La tensione che manca nella drammaturgia di Poda si ha per fortuna nella direzione di Pascal Rophé che trova la giusta drammaticità e i colori di questa potente partitura. Sophie Koch debutta nella parte di Ariane cui dedica una declamazione magistrale, Janina Baechle non è sempre vocalmente a suo agio come nutrice, mentre le altre quattro moglie offrono la maggior luminosità delle loro voci. La quasi irrilevante parte vocale di Barbe-bleue è qui affidata a Vincent Le Texier.

Pelléas et Mélisande

Claude Debussy, Pelléas et Mélisande

★★★★★

Berlino, Komische Oper, 15 ottobre 2017

(video streaming)

Erotismo e horror nel Debussy di Kosky

Barrie Kosky, che ha fatto della Komische Oper di Berlino uno dei più innovativi e stimolanti teatri d’Europa, stupisce ancora una volta con un allestimento completamente differente da quanto aveva finora proposto. Niente di sgargiante o irriverente in questa produzione dell’unicum teatrale di Debussy. Davanti ai nostri occhi si sviluppa infatti una vicenda cupa e inquietante.

Ritagliata in un sipario azzurro dipinto, la scenografia è un diorama formato da una fuga di cornici en abîme che formano uno spazio chiuso ossessivo e raggelante le cui proporzioni sono quelle di un vecchio fotogramma. Il colore nero e i pallini rotondi, che ricordano le perforazioni di una pellicola, rafforzano l’idea che si confermerà nella scena della discesa alla grotta vissuta come in un vecchio film del terrore dalla pellicola rigata. Il richiamo al cinema espressionista tedesco, scopertamente voluto nel suo Flauto magico, qui è più filtrato e stilizzato da Kosky e dal suo scenografo Klaus Grünberg: un insieme di elementi rotanti permette ai personaggi di entrare e uscire senza mai quasi camminare, come fossero tanti Nosferatu in un incubo dalle evidenti valenze psicanalitiche.

In scena nessun oggetto, tutto è affidato al gioco luci, dello stesso Grünberg, che suggeriscono non tanto gli ambienti quanto gli stati d’animo dei personaggi, ognuno dei quali è caratterizzato da una particolare gestualità, un linguaggio di corpi costretti in una scatola angusta: Pelléas entra in scena come un ragazzone introverso, spalle curve, testa bassa; Golaud avrebbe un carattere più arrogante se anche lui non fosse angosciato fisicamente e psicologicamente, il che non giustifica la sua natura violenta; Arkel è un vecchio losco; Yniold un ragazzino nervoso che si mangia le unghie e ha un rapporto tormentato col padre Golaud; Geneviève sembra l’unica figura stabile in questa famiglia sconnessa. Mélisande è la giovinezza che sconvolge questo castello abitato da vecchi, è l’unica viva, con abiti colorati che cambia per sottolineare i cambiamenti del suo ruolo da adolescente sperduta a sposa, da amante a madre. Tutti gli altri personaggi sembrano già morti fin dall’inizio e non ci si stupisce quando nell’ultima scena anche Pelléas, appena ammazzato dal fratello, si unisce anche lui alla galleria di morti viventi che assistono alla morte – questa sì vera – di Mélisande.

La lettura cameristica e sensibilissima del direttore canadese Jordan de Souza dà grande spazio ai cantanti, come quando riduce al silenzio l’orchestra al momento del bacio dei due giovani per far sentire solo i loro respiri. La sua performance tocca i vertici della liricità negli interludi strumentali che mettono la voglia di ascoltare questo giovane concertatore anche in un altro repertorio.

Per una lettura così particolare e intensa occorreva un cast altrettanto particolare e intenso e qui, a cominciare dalla Mélisande di Nadja Mchantaf, l’abbiamo. Il suo sguardo perduto, la fisicità del corpo con le braccia che annaspano o si trasformano in ramo si alleano a una vocalità dal timbro particolare che si esprime in modi tormentati nel delineare una figura che cerca la luce, una via d’uscita, anche solo una finestra, che qui non c’è, per uscire da una condizione di vittima angosciata. Il giovane soprano tedesco ha come antagonista il nevrotico Golaud – sempre incerto tra la ricerca della verità e la gelosia irrazionale, l’amore disperato e la violenza gratuita – reso molto efficacemente da Günther Papendell. Dominik Köninger, il protagonista dell’Orpheus di Kosky di cinque anni fa, qui è un sensibile Pelléas dal chiaro timbro baritonale. Il basso Jens Larsen dà voce a un inquietante Arkel, mentre Nadine Weissmann è una sicura Geneviève. Eccellente il giovane interprete di Yniold, proveniente da uno dei tanti cori di voci bianche che qui al sud delle Alpi neanche riusciamo a concepire.

Pelléas et Mélisande

PELLEAS ET MELISANDE, Claude Debussy, Drame lyrique en cinq actes, d’apres la piece de Maurice Maeterlinck, Direction musicale Esa-Pekka Salonen, Mise en scene Katie Mitchell, Dramaturge Martin Crimp, Decors Lizzie Clachan, Costumes Chloe Lamford, Lumiere James Farncombe, Responsable des mouvements Joseph W. Alford, Chœur Cape Town Opera Chorus, Orchestre Philharmonia Orchestra, Pregenerale au GTP le 28 juin 2016. Avec : Stephane Degout (Pelleas), Barbara Hannigan (Melisande), Laurent Naouri (Golaud), Franz Josef Selig (Arkel), Sylvie Brunet-Grupposo (Genevieve), Chloe Briot (Yniold), Thomas Dear (Le Medecin) (photo by Patrick Berger/ArtComArt)

Claude Debussy, Pelléas et Mélisande

★★★★★

Aix-en-Provence, Grand Théâtre de Provence,  7 luglio 2016

(live streaming)

Gli universi paralleli di Mélisande

Il secondo appuntamento con l’opera al Festival di Aix-en-Provence quest’anno è quello con Pelléas et Mélisande di Claude Debussy, eseguito nell’acusticamente ideale Grand Théâtre de Provence, così da poterne godere al meglio le sottigliezze timbriche portate magnificamente in luce dal maestro Esa-Pekka Salonen ritornato qui dopo la indimenticabile Elektra di Chéreau e per la terza volta sullo spartito in forma scenica. Qui è la Philharmonia Orchestra lo strumento prescelto dal direttore finlandese per dipanare una colonna sonora da film del brivido.

Altri motivi di interesse sono la messa in scena di Katie Mitchell e il nome degli interpreti principali: Stéphane Degout (Pelléas), Barbara Hannigan (Mélisande) e Laurent Naouri (Golaud). Degout e Naouri sono gli stessi interpreti dell’edizione viennese del 2009 ora su DVD e c’è poco da aggiungere per sottolineare la perfetta aderenza ai personaggi e l’eleganza e proprietà vocale dei due sommi cantanti. Golaud è un marito appassionato prima di diventare un geloso fratricida e Naouri riesce a esprimere tutte le possibili sfaccettature del suo carattere con la vocalità e la presenza scenica che riconosciamo al marito di Natalie Dessay (la indimenticata Mélisande dell’edizione citata). Non è da meno il Pelléas psicologicamente turbato di Degout, alla sua cinquantesima volta nel ruolo, inizialmente impacciato e abbottonato come un Forrest Gump, poi più audace con la cognata, ma sempre con lo sguardo fuggente e i movimenti goffi.

Chloé Briot era stata l’Yniold dell’esecuzione in forma di concerto a Torino: allora ci era sembrata eccellente e ora si conferma nel giudizio anche se qui Yniold è una ragazza anche lei un po’ turbata. Franz Josef Selig e Sylvie Brunet-Grupposo formano la coppia dei vecchi Arkel e Geneviève. Quest’ultima dà una lettura della lettera che è una lezione di stile ed espressività. Anche il ruolo del dottore ha qui in Thomas Dear una presenza inusuale.

E poi lei, Mélisande. Oltre che della voce, è l’uso del suo corpo che fa della Hannigan un’interprete unica nel panorama lirico mondiale. Movimenti danzati, contorsionismi, una presenza scenica magnetica fatta di sguardi e gesti sospesi, una vocalità prodigiosa piegata alle minime sfumature, una dizione eccellente – non si riesce a fare l’elenco di tutti gli stupefacenti talenti esibiti dal soprano canadese. (Al prossimo MiTo Settembre Musica la vedremo dirigere un’orchestra!)

La regista Katie Mitchell fa piazza pulita dei simbolismi e dei misteri non detti del testo di Maeterlinck (1) e legge la storia come una vicenda borghese passata alla lente di quel Freud che in quegli stessi anni trasformava dal suo studio viennese la Weltanschauung del nostro occidente. Non molto distante è anche lo spirito di Lewis Carroll: non sappiamo mai cosa si trovi al di là di una porta e a un certo punto per uscire da una stanza i personaggi entrano in un mobile, proprio come Alice!

La scena si apre su una camera da letto: Mélisande è vestita da sposa, smarrita, in mano un fazzoletto insanguinato e si assopisce sul letto. Poi la seguiamo nel bagno attiguo e quando torniamo con lei nella camera questa è invasa da un albero frondoso mentre erbe crescono dal pavimento sconnesso. La donna rivive in sogno gli ultimi accadimenti, l’incontro di Golaud nella foresta, il matrimonio per riconoscenza, il rapporto con Pelléas.

Come nella Alcina dello scorso anno qui a Aix o nella Lucia di Lammermoor di Londra e prima ancora in Written on Skin, sempre ad Aix, la Mitchell divide la scena in vari ambienti in più livelli. Qui non sono quelli di uno «château très vieux et très sombre”, bensì quelli di una villa borghese anni ’50 che viene in parte invasa dalla natura esterna. In questo allestimento la fluidità dei cambiamenti di scena ha un che di onirico, come quando in sogno ci sembra naturale che un luogo si trasformi in un altro. Anche i ralenti servono a sostenere questa atmosfera non reale la cui “logica” è alla base dello strepitoso lavoro fatto dalla scenografa Lizzie Clachan. Ma chapeau anche alle maestranze del teatro che l’hanno realizzato con trasformazioni rapidissime, con il montaggio di un vero e proprio puzzle. Si tratta di un considerevole gruppo di tecnici dietro le quinte che alla fine vengono alla ribalta per ricevere dal pubblico i meritati applausi.

Mélisande, il personaggio al centro della vicenda, è sempre presente (è il suo sogno!) anche quando il libretto non la prevede e ha un alter ego muto che rappresenta la moglie desiderata da Golaud, molto distante dalla turbata e sempre smarrita Mélisande. Si può dire che noi pubblico vediamo concretizzati i desideri e le paure dei personaggi. Sulla scena convivono tre livelli diversi, tre universi paralleli – il vissuto, il sogno, il ricordo – e la logica temporale è infranta: la figlia che nasce alla fine è già presente da subito, la donna è a momenti incinta in altri no e così via per altre incoerenze tipiche dei sogni.

Innumerevoli quindi sono i momenti spiazzanti dell’allestimento, come nella scena dei capelli dove non abbiamo torri e chiari di luna, ma Mélisande sola che allatta la sua bambina mentre le canta come una ninna nanna: «Mes longs cheveux descendent jusqu’au seuil de la tour; | Mes cheveux vous attendent tout le long de la tour». Qui la donna mette a nudo il suo subconscio e l’arrivo successivo di Pelléas è allo stesso tempo desiderato e temuto. I suoi capelli erano stati motivo di sensuale trasalimento per i due uomini, ma anche i capelli di Geneviève a un certo punto avevano turbato Mélisande stessa.

Seppure lontana da una lettura “letterale” del libretto (ma nel caso di Maeterlinck quale sarebbe?), quella proposta dalla Mitchell non è lontana dallo spirito del testo. Lo stanno a testimoniare i muri umidi e il verde che dall’esterno invade gli interni. Non manca certo l’acqua nell’allestimento di quest’opera così “liquida” (2): la troviamo ad esempio in fondo alla piscina abbandonata che serve come grotta marina e come «fontaine des aveugles», ma soprattutto nella musica, nei suoni trascoloranti di questa partitura unica nel suo genere. I fremiti della natura qui sono piuttosto fremiti dell’anima e il dramma simbolista assume a tratti le apparenze di un thriller con i suoi silenzi pieni di tensione. Con questa Mélisande non siamo molto lontani dalle protagoniste dei film di Hitchcock, la seconda moglie (Rebecca), Marnie, Madeleine (Vertigo, La donna che visse due volte) – e anche qui ci sono scale… Spingono verso questa lettura anche certe inquadrature “filmiche” dello spettacolo.

(1) L’autore ha affermato una volta, probabilmente per depistare i suoi lettori, che Mélisande è una delle donne fuggite da Barbablù.

(2) La parola eau (acqua) ricorre venti volte nel libretto, mer (mare) otto volte.

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Pelléas et Mélisande

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Claude Debussy, Pelléas et Mélisande

Torino, RAI Auditorium Arturo Toscanini, 15 ottobre 2015

(esecuzione in forma di concerto)

«Je ne suis pas heureuse ici»

Per l’inaugurazione della sua nuova stagione l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI ha eseguito in forma concertistica il capolavoro teatrale di Debussy, Pelléas et Mélisande. La sua unica opera per il teatro costituisce l’opera anti-wagneriana per eccellenza, ma non riesce tuttavia a fare a meno delle influenze del compositore tedesco e ciò si sente in più punti della partitura che rimandano al Parsifal o al Sigfrido. Vocalmente l’influsso maggiore, come ha ricordato Paolo Gallarati nell’introduzione all’opera che ha preceduto il concerto, è poi quello del Musorgskij del Boris, né va dimenticato il fascino subito da Debussy per le atmosfere di quel Poe di cui non riuscirà a completare la sua Fall of the House of Usher dopo averci lavorato sopra per quasi dieci anni.

Pelléas et Mélisande è l’unico dramma musicale portato a compimento da Debussy e inaugura, con un profondo mutamento di stile e di linguaggio, il teatro lirico del Novecento, ma proprio per questo non è stato capito subito. Alla prima del 1902 alla frase di Mélisande «Je ne suis pas heureuse ici» (Non sono felice qui) qualche buontempone del pubblico sembra abbia aggiunto ad alta voce «Nous non plus!» (Neanche noi!)… La mancanza di arie, l’andamento da poema sinfonico cantato e il suo “wagnerismo” divisero la critica di allora con Camille Saint-Saëns tra gli oppositori più accaniti da una parte e Vincent d’Indy fra gli estimatori dall’altra. L’opera è stata abbastanza trascurata nella prima parte del XX secolo fino a che Pierre Boulez non ha riacceso i riflettori su di essa con la sua personale lettura a Londra nel 1969.

In assenza di scene, e questa volta senza proiezioni di vedute o illustrazioni, si apprezzano maggiormente la rarefazione – quanti silenzi in quest’opera! – e le esplosioni orchestrali, gli stessi de La mer. Pelléas è un’opera liquida: il mare, la fontana, l’acqua stagnante dei sotterranei…  e del mare ha la lucentezza perennemente trascolorante. Uniche concessioni alla vista in questa esecuzione concertistica sono il gioco discreto delle luci, l’entrata e uscita dalle porte del palco dell’auditorium degli interpreti e soprattutto la loro misurata gestualità. Tutti convincenti attori infatti sono i cantanti impegnati ed eccellente la loro prestazione vocale. Ognuno ha fornito una perfetta caratterizzazione del proprio personaggio.

Sandrine Piau, apprezzatissima interprete del repertorio barocco, è una Mélisande ideale per la trepidante ingenuità della misteriosa fanciulla che ha il vizio di lasciar cadere nell’acqua oggetti preziosi. I trasalimenti adolescenziali sono resi con una vocalità educatissima e piena di una malinconia che non si sa definire. Pelléas passionale è invece quello dalla voce particolarmente chiara del baritono Guillaume Andrieux, la cui presenza vocale si impone per giovanile baldanza e proprietà nel porgere il declamato di Debussy. Scolpito nel bronzo risonante il Golaud di Paul Gay, il vero protagonista dell’opera, che ha messo magnificamente in luce tutte le innumerevoli sfaccettature del personaggio. Arkel ha avuto nella nobile e imponente voce dell’insigne basso Robert Lloyd le profonde sonorità dell’unico che sia vicino con il suo affetto a Mélisande. Geneviève affetta da un accento un po’ troppo inglese quella di Karan Armstrong, mentre prodigiosamente in parte Chloé Briot, un Yniold prototipo di tanti altri fanciulli della musica di quel periodo, da Humperdinck a Ravel a Mahler.

Juraj Valčuha ha condotto in porto il vascello dell’orchestra con sapienza mettendo in luce tutte le raffinatezze e modernità di quest’opera che doveva aprire una nuova strada al teatro in musica, ma che rimase invece un unicum, come ricorda Fiamma Nicolodi nell’ampio saggio contenuto nel programma di sala: «Non solo Pelléas et Mélisande sarà l’unica opera teatrale scritta da Debussy a sopravvivere accanto a una selva di progetti e abbozzi incompiuti, ma il suo modello, frutto di un delicato equilibrio fra gusto e tradizione, intuito e ragione o, per usare le parole dell’autore, fra natura e immaginazione, non avrà seguito nella storia del teatro musicale moderno. Resterà un pezzo unico che, com’è proprio di alcuni (rari) capolavori, non ammette repliche neppure al prezzo di un falso».

Pelléas et Mélisande

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★★★★★

L’unicum teatrale di Debussy

Il dramma di Maurice Maeterlinck, apparso nel 1892, è alla base di famose trasposizioni sinfoniche: Faurè (1898), Schönberg (1902), Sibelius (1905), ma l’opera di Debussy è in assoluto la più nota e l’unica a dar voce ai personaggi di questa triste vicenda ispirata dall’amore proibito di Francesca per il cognato Paolo.

Atto I. Una foresta nel fantastico regno d’Allemonde. Golaud, nipote del re Arkèl, si è smarrito in una fitta foresta e qui incontra, ai bordi una fontana, una misteriosa fanciulla, che afferma di essere fuggita da una terra lontana e di chiamarsi Mélisande; all’invito di lui, di recarsi alla reggia, essa, come trasognata, segue i suoi passi. Una stanza del castello. Golaud teme l’opposizione del sovrano al suo proposito di sposare Mélisande; ma sarà il fratellastro Pelléas, accendendo una fiaccola sulla torre più alta del Castello, a comunicargli l’assenso di Arkèl. Mélisande frattanto non riesce il dissimulare la tristezza che la opprime; si confida con Geneviève, madre di Golaud, che cerca di rasserenarla e l’affida a Pelléas con il quale andrà a vegliare Yniold, il figlio adolescente che Golaud ha avuto dalla prima moglie.
Atto II. Una fontana nel parco del castello. Pelléas e Mélisande si avvicinano ad una fontana e la fanciulla ricorda l’incontro con Golaud che oggi è suo sposo. Lancia poi in aria l’anello nuziale, che scivola nell’acqua; il dono del marito non potrà più essere recuperato. Golaud giace ferito nel suo letto in seguito ad una caduta da cavallo; è assistito amorevolmente dalla giovane sposa, che improvvisamente scoppia in lacrime. Golaud l’attira dolcemente a sé e così si accorge che al suo dito manca l’anello. Alle domande di lui Mélisande afferma di averlo smarrito sulla riva del mare ed accetta l’invito a tentare di recuperarlo, facendosi però, data l’ora tarda, accompagnare da Pelléas. I due giovani, alla ricerca dell’anello, si ritrovano all’ingresso di una grotta al cui interno scorgono tre mendicanti addormentati; Mélisande resta fortemente impressionata e si allontana sconvolta.
Atto III. Ad una finestra del castello Mélisande si intrattiene con Pelléas; ella sta ravviando i suoi biondi e lunghi capelli che improvvisamente si riversano e si avvolgono intorno a Pelléas che li afferra e li sfiora con le labbra. Sopraggiunge Golaud; rimprovera i due per l’atto infantile compiuto e poi si allontana turbato ed in preda a foschi pensieri. I sotterranei del castello. Pelléas avverte nel suo animo un indefinibile senso di angoscia sin quando, nei sotterranei, si trova in pericolo di precipitare nell’acqua cupa e stagnante e viene trattenuto da Golaud. Una terrazza. Golaud, il quale comincia a nutrire più di un sospetto, avverte Pelléas che Mélisande sarà presto madre e che anche la più piccola emozione potrebbe nuocerle. La gelosia ora si impadronisce dell’animo di Golaud, che chiama a sé Yniold per conoscere da lui la verità; ed il fanciullo rivela che spesso Pelléas e Mélisande si trovano insieme e che un giorno, durante un violento uragano, vide i loro volti sfiorarsi. Anche ora, sforzando lo sguardo, scorge Pelléas nella stanza di Mélisande: entrambi, come trasognati si volgono verso la luce.
Atto IV. Pelléas sta per intraprendere un lungo viaggio e Mélisande accoglie il suo desiderio di incontrarla un’ultima volta; Golaud frattanto, convinto ormai della colpevolezza della sposa, l’afferra per il lunghi capelli e la getta a terra. Il re Arkél accorre in aiuto di Mélisande e le chiede se il nipote sia ebbro. “No. Ma non mi ama più”, risponde la donna. Una fontana nel parco. Yniold cerca una biglia d’oro che ha perduto; il passaggio di un gregge e del pastore lo mette in angoscia. Mélisande si avvia all’incontro con Pelléas, nel parco; e qui i due vengono sorpresi da Golaud che, con la spada in pugno, si precipita su Pelléas, colpendolo a morte. Egli si avventa poi su Mélisande che, sebbene ferita, riesce a fuggire verso la vicina foresta.
Atto V. – Una camera nel castello. Mélisande, nella sua stanza, si risveglia da un sonno profondo; la lieve ferita, ma ancora più la recente maternità, l’hanno oltremodo spossata. Non risponde alle ripetute richieste di Golaud, che vuol sapere se vi fu colpa nel suo legame con Pelléas; comincia poi a delirare e a piangere, quindi si spegne dolcemente. Accanto ad essa Golaud turba con i suoi singhiozzi soffocati il silenzio della morte.

Il testo del simbolista Maeterlinck corrispondeva esattamente a ciò che Debussy da tempo stava cercando: un dramma che si allontanasse dai modelli correnti del teatro borghese e dagli argomenti letterari e fantastici cari ai musicisti suoi contemporanei, più o meno influenzati dal teatro wagneriano. In una dichiarazione del 1889 Debussy sosteneva che il poeta dei suoi sogni avrebbe dovuto essere quello che «concepirà dei personaggi la cui storia e il cui ambiente non apparterranno ad alcun tempo e ad alcun luogo». Dunque con Pelléas et Mélisande le sue aspirazioni si trovavano improvvisamente realizzate, grazie a un testo che fa della reticenza, del mistero, della lontananza dalla storia la radice principale della sua poetica. Mélisande è un personaggio ingenuo, a tratti fanciullesco, non risponde mai alle domande: «Quel mal vous a-t-on fait? Je ne veux pas le dire! je ne peux pas le dire!», «D’où venez-vous? Je me suis enfuie! enfuie… enfuie…», «Oui, mais d’où vous êtes-vous enfuie? Je suis perdue! Perdue!», «Où êtes-vous née? Oh! oh! loin d’ici… loin… loin…», «Pourquoi êtes-vous venu ici? Je n’en sais rien moi-même.», «Quel âge avez-vous? Je commence à avoir froid…» (atto I, scena prima) (1). Perde la diffidenza solo quando Golaud le confessa che si è perduto egli stesso.

La presente edizione del 2009 viene dal Theater an der Wien. Bernard de Billy trae dall’orchestra sinfonica di Vienna le trascoloranti armonie della partitura e in scena abbiamo un cast di prim’ordine. Golaud è il vero protagonista della vicenda e qui, con la presenza di Laurent Naouri, abbiamo tutte le complesse sfaccettature di questa figura. Suo fratellastro Pelléas è il bravissino e affascinante Stéphane Degout mentre Melisande ha il fisico minuto di Mme Naouri, ossia Nathalie Dessay, che qualcuno definisce non in parte, ma che invece ha la voce adatta a tratteggiare la figura sfuggente e misteriosa della fanciulla trovata piangente presso una fonte in un bosco misterioso. Marie-Nicole Lemieux abbandona i panni delle eroine barocche per dar voce alla piccola parte di Geneviève, Philip Ens è un Arkel dolente e infine Beate Ritter ha la statura, l’aspetto e la voce perfetta del piccolo Yniold.

La scenografia di Chantal Thomas utilizza l’espediente della piattaforma girevole per realizzare tutte le numerose scene previste dal libretto e per dare l’idea del carattere ciclico e ossessivo del dramma. Inoltre non cerca di ricreare sul palcoscenico il simbolismo della musica o lo stile art nouveau molte volte visto: il suo è un ambiente quasi borghese, così come i costumi inizio novecento. Laurent Pelly si concentra sui rapporti tra i personaggi ed è maestro nel dare verità scenica ai giochi quasi innocenti dei due giovani («Vous êtes des enfants» continua a ripetere Golaud) o alla terribile scena con il piccolo Yniold.

Due tracce audio, nessun extra e quattro paginette smilze ad accompagnare i due dischi.

(1) Che male vi hanno fatto? Non lo voglio dire! Non posso dirlo! Da dove venite? Sono fuggita! fuggita! Sì, ma da dove siete fuggita? Mi sono persa! persa! Dove siete nata? Oh, lontano da qui… lontano… Perché siete venuta qui? Non lo so neanch’io. Quanti anni avete? Comincio ad aver freddo…

Ariane et Barbe-bleue

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★★★★☆

La sindrome di Stoccolma

Quattro anni prima del Barbablù di Bartók, Paul Dukas nel 1907 mette in musica il dramma di Maurice Maeterlinck così come aveva fatto Claude Debussy con un altro lavoro dello scrittore belga, Pelléas et Mélisande (1902). La prima interprete del Barbablù di Dukas, Georgette Leblanc, fu la stessa del Pelléas e il tema che sentiamo al secondo atto è proprio una citazione di quello di Mélisande, chiaro omaggio al maestro tanto ammirato.

La figura storica su cui si sono basate prima la fiaba di Perrault e poi, tra le altre, la farsesca Barbe-Bleue di Offenbach è quella del barone Gilles de Rais, militare che aveva combattuto al fianco di Giovanna d’Arco, ma è ricordato per le sue sadiche crudeltà, tra cui lo stupro e l’assassinio di numerosi fanciulli, e delle sue sei  mogli.

Atto 1. Scena: una vasta e sontuosa sala semicircolare nel castello di Barbe-bleue. Ariane è destinata ad essere la sesta moglie di Barbe-bleue. Quando lei e la sua nutrice arrivano al castello di Barbe-bleue, vengono accolte (fuori scena) da un coro di contadini che chiedono a gran voce la morte di Barbe-bleue perché credono che abbia ucciso le sue ex mogli. Ariane è convinta che siano ancora vive. Prima bisogna disobbedire: è il dovere primordiale quando un ordine è minaccioso e inspiegabile. Barbe-bleue le ha dato sette chiavi delle sue stanze del tesoro: le sei d’argento che le è permesso usare, ma la settima chiave d’oro è proibita. Ariane dice che questa è l’unica chiave che conta e va a cercare la settima porta mentre la sua nutrice apre le altre. La nutrice gira la serratura della prima porta e una cascata di gioielli e altri tesori fuoriesce. La seconda porta rivela una “pioggia di zaffiri”; la terzo, un “diluvio di perle”; la quarto, una “cascata di smeraldi”; la quinta, “un funesto torrente di rubini”. Ariane non è impressionata dalle gemme, sebbene il contenuto della sesta, “valanghe di diamanti giganteschi”, le susciti un grido di meraviglia. La sesta porta rivela anche la cripta contenente la settima ad Ariane. Ignorando l’avvertimento della sua nutrice, gira la chiave d’oro nella serratura. All’inizio non rivela nient’altro che oscurità, poi “i suoni soffocati di canti lontani si alzano dalle viscere della terra e si diffondono per tutta la sala”. Sono le voci delle altre mogli di Barbe-bleue che cantano una canzone popolare “Les cinq filles d’Orlamonde”. La nutrice è terrorizzata e cerca di chiudere di nuovo la porta ma non riesce a spostarla mentre le voci si avvicinano. Alle ultime parole della canzone, Barbe-bleue entra nella sala e accusa Ariane. Lui le dice che per colpa della sua disobbedienza sta abbandonando la felicità che le ha offerto. Barbe-bleue la prende per un braccio e cerca di trascinarla verso la settima porta. Mentre lo fa, i contadini furiosi rompono le finestre e irrompono nella sala per affrontare Barbe-bleue, che estrae la spada in difesa. Ma Ariane con calma si rivolge alla folla e chiede loro “Cosa voletei? – Non mi ha fatto del male” prima di chiudere loro la porta.
Atto 2. Scena: una vasta sala sotterranea, inizialmente avvolta in un’oscurità quasi completa. La settima porta si è chiusa dietro Ariane e la nutrice. Esplorano l’oscurità con l’aiuto di una lampada. Ariane non ha paura e crede che Barbe-bleue le libererà di sua spontanea volontà. Trova le altre mogli nascoste nell’oscurità, vestite di stracci e terrorizzate, ma vive. Le abbraccia e dice che è venuta a liberarle. Chiede loro se hanno cercato di scappare. Una moglie (Sélysette) risponde: “Non potremmo; tutto è sbarrato e chiuso a chiave; inoltre è vietato.” Chiede i loro nomi e loro li danno, tranne Alladine che è straniera e incapace di parlare. Gocce d’acqua dalla volta spengono la lampada di Ariane e loro vengono immerse nell’oscurità. Ma Ariane pensa di riuscire a distinguere una debole fonte di luce e si avvicina a tentoni. Scopre che è una finestra di vetro colorato ricoperta di sporcizia. Prendendo una pietra, rompe i vetri uno ad uno ed è abbagliata dalla luce che entra. Le mogli la seguono. Possono sentire il suono del mare, il vento tra gli alberi e il canto degli uccelli. Guardano un paesaggio di campagna verde mentre l’orologio di un villaggio suona il mezzogiorno. Ariane dice loro di non avere paura ma di seguire i gradini di pietra che conducono al mondo esterno.
Atto 3. Scena: la stessa dell’Atto 1. Le magiche difese del castello hanno impedito alle mogli di scappare e si ritrovano nell’atrio, ma sono felici finché sono con Ariane. Barbe-bleue non si vede da nessuna parte. Ariane è certa che presto saranno liberate. Aiuta le altre mogli a decorarsi con i gioielli delle sei porte. La nutrice entra e dice loro che Barbe-bleue sta arrivando. Guardano attraverso le finestre solo per vedere la carrozza di Barbe-bleue caduta in un’imboscata dei contadini ribelli. La guardia del corpo di Barbe-bleue viene abbattuta e lui viene picchiato duramente. Ariane li supplica di non ucciderlo ma non possono sentire. I contadini abbattono la porta del castello ed entrano con Barbe-bleue legato. Tacciono alla vista delle sue mogli e cedono volentieri il loro prigioniero ad Ariane in modo che possa “vendicarsi”. Le li ringrazia e li convince a lasciare il castello. Le mogli si prendono cura delicatamente del Barbe-bleue ferito prima che Ariane tagli i suoi legami con un pugnale. Barbe-bleue è libero e guarda in silenzio Ariane. Lei gli dice “Addio”. Lui fa un debole tentativo di fermarla, poi cede. Ariane chiede alle altre mogli se vogliono seguirla. Nessuna di loro accetta l’offerta e Ariane parte da sola con la sua nutrice. Le mogli si guardano l’un l’altra, poi Barbe-bleue, che alza lentamente la testa.

Arianna si presenta al castello del suo Barbablù/Minotauro animata da coraggiose e pie intenzioni redentrici, ma i suoi slanci non verranno ricambiati – già Maeterlinck aveva sottotitolato il suo dramma ‘La délivrance inutile’. Quale dono di nozze l’eroina riceve sei chiavi d’argento e una d’oro, che danno accesso a splendidi gioielli. Con le prime sei apre altrettante porte-scrigno, ma si entusiasma solo alla vista di quella che contiene diamanti, affascinata dalla loro luminosità («O mes clairs diamants!»). Disobbedendo all’ordine di Barbablù, si serve anche della settima e scopre che le sue cinque precedenti spose, delle quali non si aveva più alcuna notizia, sono prigioniere nelle segrete del castello. Invano Arianna le conduce all’aria aperta e fa riassaporare loro le gioie della natura in fiore e del sole. Sottratte alla prigionia con l’aiuto degli uomini del villaggio, le cinque spose hanno paura di affrontare il mondo esterno, rifiutano la libertà e scelgono di restare nella loro dolente dimora, mentre Arianna si allontana seguita dalla sola nutrice.

Quasi una parodia del masochismo femminile nell’opera, Ariane è però anche la storia di una donna cosciente del potere della sua bellezza sull’uomo, tema molto novecentesco. Non è da sottovalutare poi la ribellione dei contadini verso il padrone, anticipando così i conflitti del nuovo secolo.

L’orchestra di Dukas ha un peso soverchiante che supplisce a una scarsa incisività dei profili melodici:  è quasi un poema sinfonico con voce obbligata. E qui, in questa produzione del 2011 al teatro del Liceu di Barcellona, la voce è quella di Jeanne-Michèle Carbonnet, voce metallica e senza molti colori e dalla dizione improbabile, anche se il soprano americano riesce comunque a tenere la scena in questo ruolo defatigante.

Vocalmente, quello di Barbablù è uno dei ruoli più brevi che possano capitare a un baritono: otto (!) battute nel primo atto, assente nel secondo atto e completamente muto nel terzo. José van Dam, dopo il suo addio alle scene dell’anno precedente, torna per prestare la sua figura al personaggio del titolo. Ruolo di maggior rilievo è quello della nutrice di Arianna, qui una veramente ottima Patricia Bardon. Brave anche le interpreti delle cinque mogli ed eccellente la direzione di Stéphane Denève, perfettamente a suo agio in questo tipo di repertorio.

Il regista Claus Guth e lo scenografo Christian Schmidt si sbarazzano delle brume tardo-romantiche suggerite dal libretto e fanno del castello di Barbablù con i suoi ponti levatoi e fossati una villetta di periferia che vediamo dall’esterno durante il preludio orchestrale con le sue finestre che nascondono chissà quale mistero inquietante. Il velario si alza e siamo all’interno: un grande ingresso con sei porte che assomiglia alla sala d’attesa di un ambulatorio. Alla fine del primo atto il pavimento si aprirà per mostrarci le “segrete del castello” in cui vivono recluse le precedenti cinque mogli. L’economia di mezzi scelta da Guth è evidente nel tenere nascosto il coro iniziale degli uomini del villaggio di cui sentiamo solo le voci e anche il loro ingresso in scena per liberare Ariane è rappresentato dalla silhouette di poche figure dietro i vetri smerigliati della porta d’ingresso. La natura, concetto primario nell’opera di Maeterlinck, è qui limitata alle poche rose rosse sfatte dei bouquet di nozze delle mogli e alla proiezione sui muri della casa di abeti nella neve. Non c’è traccia di mare, cielo, paesaggio sotto il sole e la luce dell’esterno è solo un flash abbagliante. Tutto il dramma è claustrofobico e ai confini della pazzia: le mogli segregate hanno ognuna un’ossessione e un tic e nel terzo atto Barbablù è legato a un letto di metallo con un’Ariane infermiera sulla cui sanità mentale non scommetterei molto (la Kathy Bates di Misery sembra appena dietro l’angolo). La regia psico-horror è molto audace, ma dubito che l’opera sarebbe stata più allettante con un allestimento che seguisse alla lettera il dettato mitologico-simbolista del libretto.