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Georg Friedrich Händel, Giulio Cesare in Egitto
Parigi, Théâtre des Champs Élysées, 18 maggio 2022
(live streaming)
Cesare e i due fratelli
Un soprano e due controtenori sono musicalmente le punte di diamante del Giulio Cesare in Egitto che il Théâtre des Champs Élysées ha messo in scena con la direzione di Philippe Jaroussky, un controtenore (fu Sesto nel Giulio Cesare a Salisburgo nel 2012 e in quello alla Scala del 2019) passato alla direzione d’orchestra, e la regia di Damiano Michieletto, al suo secondo Händel dopo l’Alcina di Salisburgo.
Il soprano è Sabine Devieilhe, una Cleopatra che uguaglia quella indimenticabile di Natalie Dessay per intensità espressiva e felicità vocale, con preziose variazioni in cui privilegiando il registro acuto in cui è perfettamente a suo agio, colorature spettacolari e un inaspettato temperamento attoriale in cui sembra eccellesse al suo tempo Francesca Cuzzoni, creatrice della parte. Sbalorditivo è il contrasto che Devielhe riesce a realizzare fra le pagine brillanti della donna che seduce («Tu la mia stella sei» atto I, «V’adoro pupille», atto II) e quelle più tragiche della donna che soffre («Se pietà di me non senti» atto II, «Piangerò la sorte mia» atto III). I due controtenori non potrebbero essere più diversi, pur rivelandosi entrambi sorprendenti. Franco Fagioli è già stato Giulio Cesare in passato mentre adesso affronta la parte di Sesto, il figlio vendicatore del padre, un personaggio che qui assume una particolare rilevanza drammatica. Il ruolo di soprano che fu della Durastanti trova perfetta corrispondenza nelle spericolate agilità e nella enorme estensione che va dalle note sopracute a quelle più basse, tutte espresse con impressionante proiezione. Resta il timbro artefatto e innaturale con cui il cantante argentino sembra voler far rivivere la particolarità degli storici castrati. E poi c’è il Tolomeo di Carlo Vistoli (Giulio Cesare l’anno scorso a Basilea nell’esecuzione in concerto della versione del 1725), contraltista che riprende la parte che fu di Gaetano Berenstadt. Le qualità dell’artista romagnolo sono la omogeneità della voce nei diversi registri, il timbro naturale, la favolosa proiezione che gli permette di utilizzare tutti i livelli sonori, la grande espressività e la magistrale dizione. Il regista gli confeziona un personaggio di grande complessità nel rapporto con la sorella Cleopatra e Vistoli si dimostra estremamente ricettivo restituendo forse il miglior Tolomeo mai visto sulla scena. La parte eponima, che fu del Senesino, è affidata alle doti contraltili di Gaëlle Arquez, cantante che ha frequentato repertori ben differenti, da Vivaldi a Offenbach, da Rameau a Bizet rivelandosi quasi sempre convincente. Qui deve creare un personaggio che Michieletto descrive «quasi spettatore, come se tutto quello che doveva realizzare (le conquiste, la gloria, le vittorie) fossero tappe già compiute del suo percorso; un uomo solo, un po’ goffo, che non ne combina una di giusta» e la cantante francese supera brillantemente la prova attoriale con un’ottima prova vocale. Prove meno entusiastiche sono offerte dagli altri interpreti, non tanto la pur efficace Cornelia di Lucile Richardot o il Nireno del terzo controtenore Paul-Antoine Bénos-Djian, quanto l’Achilla monocorde e stentoreo di Francesco Salvadori e il Curio un po’ grezzo di Adrien Fournaison.
Alla testa dell’Ensemble Artaserse Philippe Jaroussky realizza una lettura della partitura che favorisce i cantanti (lui ne sa qualcosa…) sia nei recitativi sia nei da capo, generalmente più lenti per dare maggior spazio alle variazioni. La compagine orchestrale rende alla perfezione i colori previsti dal compositore che ha scelto di connotare molti numeri musicali con uno strumento solista: il violino, il flauto, l’oboe, il fagotto e il corno. Qui vengono omesse cinque delle 44 arie: due di Cleopatra («Tutto può donna vezzosa» e «Venere bella»), una di Cesare («Non è si vago e bello», forse quella di cui si sente più la mancanza), una di Achilla(«Se a me non sei crudele») e una di Cornelia («Cessa omai di sospirar»). Per ragioni squisitamente drammaturgiche nell’atto terzo la scena nona viene prima della settima trasferendo la gioia incredula di Cleopatra («Da tempeste il legno infranto») nel finale.
Nell’intensa lettura di Michieletto il personaggio di Giulio Cesare riprende il suo posto principale: lo vediamo fin dall’inizio doppiato da una figura trattenuta da fili rossi che gli impediscono di agire liberamente, fili che nel finale formeranno una matassa indistricabile tessuta dalle Parche (citate nel libretto sia da Cesare che da Sesto), qui giovani fanciulle nude quasi onnipresenti che abitano una zona nera in secondo piano, quasi un fregio animato, che rappresenta il mondo dei morti. Mondo che verrà separato dal bianco proscenio da un telo trasparente su cui si avventeranno i sette congiurati che uccideranno Cesare. Con lo stesso telo Sesto soffocherà Tolomeo e ne sarò il sudario. Spesso presente è anche la figura di Pompeo, che ritorna dall’aldilà per rincuorare la moglie e chiedere vendetta al figlio, il quale vestirà i suoi abiti mentre Pompeo nudo assurgerà a statua di marmo ai cui piedi verrà assassinato Cesare.
Il semplice ma ingegnoso dispositivo scenico di Paolo Fantin, illuminato con grande efficacia dalle luci di Alessandro Carletti, e i costumi di Agostino Cavalca, che mescolano la contemporaneità con le toghe dei congiurati, formano uno spettacolo visivo di grande suggestione che coniuga in perfetto equilibrio mito antico e dramma moderno.
⸪