
Georges Bizet, Carmen
★★★☆☆
Bregenz, Seebühne, 21 luglio 2017
(diretta tv)
La Carmen del lago
Formula vincente quella dei Bregenzer Festspiele: lo spettacolo clou (quello sulla piattaforma nel lago) è uno solo, viene replicato trenta e più volte con il tutto esaurito e ripreso l’anno successivo. In totale sessanta e passa recite in modo da ammortizzare la costosa messa in scena. E così Bregenz fa i soldi. Verona invece, con quasi il doppio di spettatori della sua Arena, affonda nei debiti ed è a un passo dalla bancarotta.
Ovviamente, nel caso della cittadina sul Lago di Costanza all’incrocio di Svizzera, Austria e Germania, si gioca tutto sulla scenografia, che quest’anno è affidata al genio della inglese Es Devlin la quale, a parte gli allestimenti dei concerti pop di Kanye West, Lady Gaga, Beyonce, Adele, U2, Lenny Kravitz e tanti altri (spettacoli che l’hanno resa ricca, famosa e Officer of the Order of the British Empire!) da tempo presta la sua opera in prestigiosi teatri lirici e collabora con Kasper Holten, attuale Opera Director del Covent Garden, cui si deve la regia di questa Carmen.
La drammaturgia con cui Holten narra la nota vicenda è comprensibile e lineare e il regista prende molto sul serio il tema dell’acqua. Come se fossimo sul Guadalquivir, le sigaraie attingono dal lago per rinfrescarsi, nel lago si getta Carmen per sfuggire alla cattura (o per lo meno una sua sportiva controfigura), le frenetiche danze avvengono a fior dell’acqua con grandi spruzzi sollevati dai ballerini, i contrabbandieri si muovono su silenziose barche e Carmen non viene uccisa a colpi di navaja, bensì affogata nell’acqua la cui superficie è cosparsa di rose rosse. E una rosa rossa è quella che Don José rigira fra le mani mentre ascolta distrattamente Micaëla parlargli della madre.
Durante il preludio vediamo dei bambini giocare in scena: Carmen bambina con il suo vestitino rosso se ne sta in disparte. Lei è la diversa. Suo unico passatempo è quello delle carte, che a un certo punto getta per aria. Ed è questo suo gesto ingrandito mille volte e reso architettonicamente quello che vediamo realizzato nella scenografia di Es Devlin: alcune carte formano un grande arco in alto tra due mani gigantesche (quelle di Carmen con i disegni all’henné) mentre le altre servono da praticabili, passerelle, anfratti, scendendo fino a lambire l’acqua. Alcune appena emergono dalla superficie del lago. Un abile gioco di 3D mapping vi proietta le immagini dei semi classici (ed ecco la regina di cuori, il fante di fiori…) o dei tarocchi (la Morte!) o cartoline di Siviglia o ancora il volto di Micaëla ripresa in primo piano. Deludente è invece la realizzazione visiva del sognante entr’acte tra il secondo e il terzo quadro, qui reso con funamboli (!). Solo Calixto Bieito nella sua Carmen è riuscito a dare un significato poetico all’“andantino quasi allegretto” con il torero che si offre nudo alla luce lunare.
Sigarette e soldi sono presenti in abbondanza nella messa in scena mentre i costumi di Anja Vang Kragh distinguono i diversi personaggi in maniera netta: i vestiti trasandati ma provocanti delle sigaraie, quelli sgargianti dei gitani e dei contrabbandieri, le divise gialle dei militari, il traje de luz di Escamillo e i diversi abiti di Carmen, tutti declinati nel colore rosso.
Le due ore in cui è obbligato lo spettacolo costringono a tagli dolorosi: i dialoghi parlati quasi scompaiono, cori vengono omessi e così pure la ripresa delle arie. Anche l’intervallo viene a mancare. Se non altro si accentua la dinamica dell’azione sottolineata in orchestra da Paolo Carignani nella sua quasi concitata lettura della partitura.
Eterogeneo il cast di interpreti – nel corso delle recite sono tre i cantanti che si avvicendano nei ruoli principali, due in quelli secondari. Protagonista indiscussa della serata del 21 luglio è la seducente Carmen di Gaëlle Arquez. Il mezzosoprano francese, che ha debuttato recentemente nel ruolo a Francoforte, ha un bellissimo timbro chiaro che rende ancora più femminile e in un certo modo fragile il ruolo della gitana e si avvantaggia della lingua madre per rendere al meglio tutte le sfumature della parola. La sua vocalità, affinata nel repertorio barocco, apporta eleganza ed esattezza in un ruolo che talora sfocia nello sguaiato, cosa che qui non succede mai pur nel grande temperamento dell’artista.
Parte male il Don José del tenore svedese Daniel Johansson, suoni opachi e incertezze di intonazione. Poi la prestazione migliora, ma la sua «Fleur» non è comunque tra le cose memorabili. Sicurezza e presenza vocale luminosa quella di Elena Tsallagova, anche lei ammirata nel repertorio barocco e belcantistico, e che qui delinea una volitiva quanto sfortunata Micaëla. Neanche l’Escamillo di Scott Hendricks sfugge a imprecisioni di attacchi e di intonazione e manca del tutto l’aspetto seducente del personaggio.
Voci ovviamente amplificate, ma con una spazializzazione eccezionale. Se non fosse per il vento che scompiglia vesti e capelli neanche sembrerebbe di stare all’aperto. Ottima la regia video della televisione svizzera.
⸪