Prosper Mérimée

La Périchole

  

Jacques Offenbach, La Périchole

Parigi, Théâtre des Champs Élysées, 15 novembre 2022

★★★★☆

Dopo un quarto di secolo si ricostituisce il team Minkowski/Pelly per Offenbach

Recensendo il DVD del 2004 de La Grande-duchesse de Gérolstein scrivevo: «Terza produzione offenbachiana della premiata ditta Minkowski & Pelly dopo Orphée aux enfers e La Belle Hélène, ci aspettiamo ora al­meno La Périchole fra le tante operette del Mozart degli Champs-Élysées che ancora mancano all’appello».

Molto tempo dopo, sulle tavole del Théâtre des Champs-Élysées si realizza quell’auspicio e si rinnova quel glorioso sodalizio – delle vere “nozze d’argento”, essendo passati 25 anni dal 1997 dell’Orphée – che ha visto Marc Minkowski alla direzione, Laurent Pelly alla regia e ai costumi, Agathe Mélinand ai dialoghi e Chantal Thomas alle scenografie.

Nel 1829 Prosper Mérimée aveva pubblicato su “La Revue de Paris” la pièce in un atto Le Carrosse du Saint-Sacrement ispirata a un personaggio reale, Micaela Villegas, un’attrice del XVIII secolo divenuta amante del viceré del Perù Don Maluel da cui si era fatta regalare una carrozza con cui andare in chiesa con grande scandalo dei benpensanti. Chiamata dal suo spasimante perra chola (cagna di meticcia), da cui il nome Périchole, divenne la protagonista dell’opéra-bouffe su testo di Ludovic Halévy e Henri Meilhac che Jacques Offenbach presentò il 6 ottobre del 1868 al Théâtre des Variétés di Parigi in una versione in due atti che divennero tre nella nuova versione del 25 aprile 1874. In entrambe le edizioni la protagonista fu Hortense Schneider.

Atto I. A Lima, il Viceré del Perù (Don Andrès) esce per intrattenersi in incognito, o per lo meno lo crede, con i suoi uomini che sono stati pagati per adularlo. Due cantanti di strada, La Périchole e il suo amante Piquillo, cercano invano di guadagnare il denaro necessario per sposarsi. Mentre Piquillo si allontana, La Périchole si addormenta per alleviare la fame. Il Viceré, affascinato dalla sua bellezza, le offre di essere la sua damigella d’onore. La Périchole non vulle farsi ingannare, ma in preda alla fame, accetta e scrive una lettera di addio a Piquillo. La lettera lo getta nella disperazione e vuole impiccarsi. Fortunatamente, viene salvato dal primo gentiluomo di corte che sta cercando un marito per la futura favorita del Viceré per mantenere le apparenze. Dopo essersi saziati e notevolmente ubriacati, Piquillo e La Périchole si sposano, senza che il giovane cantante si renda conto dell’identità della moglie.
Atto II. Il giorno dopo il matrimonio, smaltita la sbornia, Piquillo fa sapere alla “moglie” di amare un’altra donna, ma il galateo esige che prima presenti ufficialmente la sua sposa al Viceré. Quando scopre che La Périchole è diventata la sua amante e la sua favorita, scoppia in un’esplosione di rabbia, insulta il monarca e viene immediatamente mandato nella prigione per i mariti recalcitranti.
Atto III. Prima scena. La Périchole viene a visitare Piquillo in prigione. Dopo una scenata da parte di lui, la donna lo informa di non aver ceduto alle avance del Viceré. Il suo piano di fuga è semplice: corrompere il carceriere. Il carceriere si presenta, ma non è altro che il Viceré travestito, che fa rinchiudere insieme i due colpevoli. Ma un vecchio prigioniero permette loro di fuggire attraverso un tunnel che ha scavato. Nella seconda scena Piquillo e La Périchole si trovano in città, ma vengono individuati da una pattuglia. Al Viceré la Périchole e Piquillo cantano le loro disgrazie, commuovendo il monarca che, magnanimo, permette loro di vivere liberi e felici.

Con La Périchole Offenbach si allontana dal solco dell’opéra-bouffe fino a quel momento tracciato per affrontare il cammino che lo porterà ai Contes d’Hoffmann. Il compositore, che si era specializzato nel mettere la musica in burla, sa anche avvicinarsi alle rive del lirismo con una storia di amori contrastati dalla miseria e dal potere tiranno dove la malinconia tinge le inquietudini e i tormenti della Périchole e del suo amante Piquillo. Questo è il motivo per cui il pubblico dell’epoca rimase perplesso davanti a un lavoro che si avvicinava più all’opéra-comique che al turbine satirico de La Belle Hélène o de La vie parisienne. Quello del 1868 fu un mezzo fiasco: una donna ubriaca in scena e un matrimonio con entrambi gli sposi ubriachi furono gli elementi che indispettirono parte del pubblico e il successo di alcune pagine – furono particolarmente apprezzati i couplet «On sait aimer quand on est espagnol!» e la lettera firmata «La Périchole | qui t’aime mais qui n’en peut plus!…» – non bastarono a mantenere il lavoro in repertorio. Il contesto politico poi si era fatto particolarmente critico col conflitto franco-prussiano e solo dopo il 1870 Offenbach potè riprendere la sua operetta. La versione del 1874 si arricchiva di un atto, dei 19 numeri del 1868 cinque venivano eliminati, il primo atto rimaneva immutato, il secondo atto si concludeva con l’ensemble dei “maris récalcitrants”, il terzo comprendeva la scena della prigione che richiamava ironicamente l’analoga scena de L’Africaine di Meyerbeer qui arricchita dallo spassoso duetto di Miguel de Panatellas e Pedro de Hinoyosa e della lunga aria del tenore «Voilà donc le lit de l’honnête homme».

È questa la versione scelta da Minkowski e Pelly i quali separatamente hanno già affrontato il capolavoro offenbachiano: Minkowski nel 2018 in una registrazione a Bordeaux per Palazzetto Bru Zane e Pelly nel 2003 all’opera di Marsiglia. Ed è la terza produzione de La Périchole a Parigi quest’anno (!) dopo quella al Théâtre du Gymnase (Gossaert/Coudray) a gennaio e quella all’Opéra Comique (Leroy/Lesort) a maggio.

Per questa nuova produzione Pelly ha sottolineato i due aspetti complementari di questo lavoro, quello comico/satirico e quello serio/drammatico: qui c’è una donna che si prostituisce per fame mentre un uomo abusa del suo potere. Il personaggio del viceré è sì burlesco, ma è pur sempre un predatore e l’ambientazione è ai giorni nostri poiché la figura del dittatore libidinoso non ha mai smesso di essere attuale. Nettamente distinte sono le ambientazioni dei vari quadri: la piazza della città, con la facciata di un condominio proletario e un immenso poster del faccione del viceré, c’è un chiosco di fast food e tavoli per la mescita di alcolici a buon mercato; il palazzo è tutto specchiere dorate, divani di velluto, donne in crinoline d’argento e uomini in polpe argentate; la prigione è una grande gabbia metallica che prende tutto il palcoscenico; nella scena finale il poster del viceré è danneggiato e coperto di scritte. La regia di Pelly è come sempre attentissima alla musica, con i movimenti che seguono i suoni con grande fluidità e una cura attoriale maniacale, dove ogni singolo personaggio in scena ha il suo ruolo in un meccanismo preciso. I dialoghi attualizzati dalla Mélinand rendono ancora più vivace e piccante la vicenda.

Alla testa dell’agile compagine dei Musiciens du Louvre formata da 37 eccellenti strumentisti, Marc Minkowski riprende la lettura leggera e trasparente che ha consegnato su disco. Cesellati sono i preludi strumentali, le dinamiche sono varie, i tempi lenti languorosi, quelli vivaci briosi ma senza eccesso, il volume sonoro quello previsto da Offenbach per le orchestre che aveva a disposizione mentre il diapason a 440 Hz fornisce un suono brillante. Le migliori condizioni per una compagnia di canto perfetta nei personaggi secondari, se secondario si può considerare il ruolo di Don Andrès de Ribeira, uno strepitoso e vocalmente autorevole Laurent Naouri che del viceré offre un ritratto completo, dai fremiti libidinosi, ai moti di dispetto per la sconfitta alla versione clemente del monarca che dona la libertà ai due giovani evasi – ma non al vecchio prigioniero il quale neanche più si ricorda perché è in galera ma è contento di ritornarci per continuare il suo decennale lavoro di scavo per evadere. Efficaci caratteristi sono Rodolphe Briand e Lionel Lhote, Comte Miguel de Panatellas e Don Pedro de Hinoyosas rispettivamente, così come le scatenate «trois cousines», e poi altezzose cortigiane, Chloé Briot, Alix Le Saux, Éléonore Pancrazi. Nei ruoli parlati del Marquis de Tarapote e del vecchio prigioniero si distingue l’attore Eddy Letexier. Salvatore Caputo dirige il sempre vivace e preciso coro dell’opera di Bordeaux.

Nella parte della Périchole si avvicendano Antoinette Dennefeld e Marina Viotti. Alla seconda recita è il turno della cantante francese. Il mezzosoprano strasburghese ha bella voce, anche se non grandissima, ottima presenza scenica ed elegante fraseggio, ma manca di quella verve che ci si aspetta da un personaggio talmente caratterizzato, così che sono i momenti lirici che convincono maggiormente rispetto a quelli più ironici. Lo stesso si può dire per il Piquillo di Stanislas de Barbeyrac, che per di più accusa qualche leggera difficoltà nel registro acuto e nelle agilità pur in una linea vocale di grande eleganza e simpatica presenza scenica. Il pubblico ha apprezzato e ha risposto con calorosi applausi. Ancora una volta, evviva Offenbach!

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Carmen

Georges Bizet, Carmen

Torino, Cortile dell’Arsenale, 21 giugno 2022

Carmen in formato tascabile nel cortile dell’Arsenale

Nell’ambito della 28ª edizione della Festa della Musica, il Teatro Regio di Torino porta en plein air le ultime produzioni della sua stagione, essendo inagibile la sala in cui si stanno ultimando i lavori di adeguamento e rinnovamento dell’impianto scenico.

Dopo Cavalleria rusticana, nel cortile dell’Arsenale va in scena Carmen, in una versione che la drammaturgia di Sebastian Schwarz, direttore artistico del teatro, riduce nei personaggi e nei numeri musicali come l’anno scorso era stato fatto con Madama Butterfly e prima ancora col Flauto Magico al Festival Mozart in piazza San Carlo. Se là un narratore impersonava Schikaneder per raccontare la storia e cucire i vari momenti musicali, qui è Yuri d’Agostino, un attore nei panni di un Georgs Bizet non a suo agio con la lingua francese, a presentare la sua ultima creazione – Bizet morirà infatti nel 1875 non ancora trentasettenne a tre mesi dalla prima – partendo dalla novella di Prosper Mérimée adattata a libretto da Henri Meilhac e Ludovic Halévy. L’impossibilità di portare nella sua integralità la versione originale di Carmen in uno spazio come questo, ha spinto per la realizzazione di un qualcosa di diverso, ossia proporre al pubblico un’illustrazione dell’opera secondo un intento quasi didattico: ecco allora una selezione delle arie più celebri introdotte dal suo autore nella sua casa di Bougival all’epoca della prima, poi ci si sposta agli inizi del Novecento e anche oltre: nella regia di Paolo Vettori nel finale saltano fuori i telefonini per i selfie con il cadavere di Carmen.

Il tutto avviene in uno spazio delimitato dalle semplici scenografie di Claudia Boasso: una parete di maxi azulejos con al centro lo stemma della città di Siviglia per i primi atti, pannelli con disegni di tauromachia per l’ultimo. Laura Viglione veste di nero il coro, mentre la protagonista del titolo ha pantaloni e maglietta a righe bianche e blu: l’abito rosso a balze che ci aspetteremmo resta sempre buttato su una sedia e anche la giacca del traje de luz del torero Escamillo gliela vedremo indossata solo nei saluti finali, questo a marcare la distanza da una lettura folcloristica di una vicenda di grande modernità in cui José rappresenta il maschio che non si arrende alla scelta di libertà della sua donna. Carmen rimane comunque debitamente uccisa nel finale, qui non ci sono gli stravolgimenti a cui abbiamo talora assistito. Il Bizet in scena aiuta a comprendere sia gli aspetti sociologici e psicologici della vicenda sia le particolarità musicali di una partitura quasi dimezzata, senza i dialoghi – né parlati come nella versione originale per l’Opéra Comique, né cantati come nella versione per Vienna – e con i personaggi ridotti a quattro. Dopo l’ouverture, suonata come se uscisse da un disco posto sul grammofono, si ascolta subito il coro delle sigaraie, la Habanera di Carmen, il duetto di Don José con Micaëla e con la Seguidilla termina il primo atto. Anche nel secondo atto di otto numeri musicali ne rimangono quattro, essendo del tutto assenti Frasquita, Mercedes, il Dancairo, il Remendado e Zuniga. Nel terzo atto mancano gli ensemble e nel quarto il coro iniziale. Ridotto così all’essenziale il dramma di Carmen risalterebbe con ancor maggior forza se l’interprete protagonista avesse più carisma e più incisive qualità vocali, ma il mezzosoprano georgiano Ketevan Kemoklidze, anche se ha portato in scena il personaggio numerose volte, non riesce ad affascinare: la sensualità è affidata alle doti sceniche più che a quelle canore, con un registro basso poco sonoro e una proiezione vocale non delle migliori e ulteriormente penalizzata dalla non ottimale acustica dell’ambiente. Benedetta Torre è una Micaela sensibile che dà il meglio nel primo atto, mentre l’aria del terzo atto («Je dis que rien ne m’épouvante») ha un che di sfocato e irrisolto. Decisamente insufficiente la prova del giovane Zoltán Nagy, un Escamillo vocalmente sbiadito e senza personalità.

Vola a tutt’altra altezza invece Jean-François Borras, uno dei migliori frutti della scuola tenorile francese d’oggi. Il suo Don José sfoggia magnifico fraseggio, dizione (ovviamente) impeccabile e una presenza vocale non stentorea e gridata: la resa della romanza «La fleur que tu m’avais jetée» è memorabile per  eleganza e resa in maniera superlativa con i colori e le intenzioni giuste, tra le migliori mai sentite. E finalmente si ascolta il finale in pianissimo (c’è sì una doppia forcella sulla ai di «je t’aime» ma “sempre pp” prescrive la partitura, una sola p in meno dell’orchestra che suona ppp), sulla linea di un Vickers, certo non in quella di un Del Monaco che inseriva oltre all’acuto forte pure il singhiozzo. Così forse non si sollecitano i facili entusiasmi del pubblico, ma così l’ha scritto l’autore e così va cantata. Punto. Peccato che gli spettatori non l’abbiano capito, tributando la stessa dose di applausi indifferentemente ai quattro interpreti.

Sesto Quatrini dà una lettura all’insegna della sobrietà, molto trasparente, con tempi rilassati e volumi sonori contenuti. Forse non l’ideale per un’esecuzione all’aperto, ma ci ha risparmiato le atmosfere bandistiche e i colori rutilanti di certe esecuzioni. Comunque, non vediamo l’ora di ritornare a godere dell’opera al chiuso.

Carmen

Georges Bizet, Carmen

★★★★☆

Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre 2009

(diretta streaming)

Emma Dante debutta nella lirica con una sanguigna e violenta Carmen al femminile

A distanza di pochi mesi due allestimenti della Carmen fanno a loro modo storia nel cammino interpretativo della rivoluzionaria opera di Bizet: a Barcellona Calixto Bieito ambienta la vicenda nella Spagna franchista, a Milano, per l’inaugurazione della stagione del Teatro alla Scala, Emma Dante debutta nella lirica e lo fa con una vivissima carica di teatralità. Nella sua lettura Mérimée è trasferito in un cupo sud di epoca imprecisata, con le processioni, i riti religiosi e le superstizioni che permeano e scandiscono la vita del sud – qualunque sud.

Ma soprattutto, il suo è uno sguardo femminile: è la condizione della donna subordinata all’uomo quella che racconta la Dante. Fin da subito contrapposti sono il dinamismo femminile e il suo creare la vita (la ragazza incinta) con una maschile neghittosità (i tre che sonnecchiano a bocca aperta sventagliandosi). La vivacità in scena è resa dalle ragazze della Compagnia Sud Costa Occidentale fondata dieci anni prima dalla stessa regista. Le stesse ragazze insceneranno subito dopo una baruffa di inusitata violenza, una violenza fino a quel momento repressa. Gli uomini sono irrigiditi nelle uniformi e non sono nulla senza quei fucili che puntano a più riprese contro le donne senza mai usarli.

Nella scenografia di Richard Peduzzi gli alti muri di mattoni creano i soffocanti ambienti di un sud oppresso anche dal caldo. Non c’è luce solare in questa Carmen, l’ombra, la notte dominano su questo mondo arcaico. Anche la taverna di Lilas Pastia è un ambiente ipogeo – vi si scende con degli ascensori un po’ incongrui. Nel quarto atto la piazza dell’arena ha un alto muro ricoperto di ex-voto lasciati dai toreador e tra le facciate si insinuano strette aperture da cui José attende al varco la sua Carmen. Per tutta la profondità del palcoscenico oscilla in alto un grande turibolo che espande volute d’incenso in preparazione del consummatum est finale: l’elemento religioso è una presenza costante nello spettacolo della Dante. Le sigaraie si presentano come delle monache a rimarcare il loro ruolo di clausura e doppiamente gioioso diventa il loro liberarsene per rinfrescarsi con l’acqua della fontana. Micaëla non si muove senza la presenza di un prete e due chierichetti con una grande croce sbilenca: la ragazza è l’emblema stesso della religione della famiglia, non pensa altro che al matrimonio e sotto alla nera mantella veste l’abito da sposa. Lei è la mamma stessa, che impersonerà infatti morente nel letto nel suo ultimo incontro con José.

Sono presenti fin all’inizio delle prefiche che vedremo nel finale sorreggere il cadavere di Carmen mentre passa un nero funerale. Ma il momento che ha fatto fremere le care salme nel pubblico è quello in cui nel terzo atto José, sparando a Escamillo, colpisce invece il Cristo sulla croce e lo manda in frantumi: non un rigurgito anticlericale, come qualcuno ha avventatamente proposto, ma l’evidente rappresentazione di «quel particolare momento [che] significa per José la fine di ogni equilibrio tra la sua natura di represso, la sua educazione in seminario, il suo trasgredire alle regole». Da probo soldato, a disertore, a contrabbandiere, ad assassino. E «il duello ce lo presenta debole e vile – un duello da brivido, Escamillo a mani nude che domina a ogni istante, atterra José ripetutamente e l’ultima volta farebbe per andarsene sprezzante, ma lui l’assale alle spalle» scrive ancora Elvio Giudici (L’Ottocento, volume primo).

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Dopo tante Carmen questa risulta quasi una novità, non solo perché la versione è quella della edizione critica curata da Robert Didion, quasi completa (tre ore di musica) e con i dialoghi parlati, seppure accorciati, ma perché Barenboim – che dirige a memoria con una gestualità molto originale – lascia la sua impronta nella concertazione. Nella sua direzione manca forse la sensualità, prevalendo la cura del particolare strumentale e la trasparenza sonora, ma i colori sono magistralmente evidenziati, elemento determinante in una partitura come quella di Bizet. Un’abile gestione dei tempi, generalmente larghi, e dei volumi sonori porta a una Carmen altamente drammatica che va dai pianissimi dell’introduzione a «La fleur» ai ritmi in crescendo parossistico della “chanson bohème”.

Nel cast si ha la rivelazione del mezzosoprano georgiano Anita Rachvelishvili, venticinquenne uscita dalla scuola della Scala, che prende in carico la parte di Carmen con una padronanza vocale stupefacente e una già matura presenza scenica che non trascende mai in volgarità, cosa non rara nella rappresentazione della «femme dangereuse», come la definisce Micaëla. La Dante fa di Carmen la figura dominante su un José bamboccione indeciso che conosce solo la violenza con le donne: prima è lei che lo domina, alla fine quando lui cerca di possederla con violenza, basta che lei lo guardi negli occhi perché il coraggio gli venga a mancare. E sarà lei infatti a dargli la navaja con cui verrà ammazzata.

Perfetto attorialmente è Jonas Kaufmann, assecondando perfettamente la psicologia del personaggio imposto dalla regia. Che poi vocalmente il risultato superi ogni più ottimistica previsione non è scontato, e il suo don José rimarrà un ruolo di riferimento per molto tempo per luminosità del registro acuto, ma soprattutto per la dolcezza delle mezze voci e per la sensibilità dell’espressione.

Delusione per gli altri due personaggi: Adriana Damato è una Micaëla con problemi di tecnica e dalla gestualità goffa; Erwin Schrott è l’Escamillo ideale per presenza scenica – e lo è più di qualunque altro – ma esordisce stonando nei suoi couplets e anche in seguito manca di musicalità. Una serata non ben riuscita la sua. Adriana Kučerová e Michèle Losier sono due efficaci Mercédès e Frasquita, la prima svettante con i suoi acuti negli ensemble; Francis Dudziak e Rodolphe Briand sono il Dancaire e il Remendado; Mathias Hausmann è un buon Moralès; quasi inascoltabile lo Zuniga di Gábor Bretz.

Emma Dante restituisce forza e scandalo all’opera di Bizet com’è giusto che sia, ma ovviamente la mancanza della Spagna da cartolina e gli accenni agli elementi cattolici indispettiscono il loggione e parte della platea che contestano rumorosamente la regia alla fine dopo le acclamazioni per i due protagonisti principali e il direttore. Cose che succedono. Soprattutto alla Prima della Scala.

Carmen

foto Edoardo Piva © Teatro Regio

Georges Bizet, Carmen

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 18 dicembre 2019

Carmen al tempo del Franchismo

La stagione lirica del Regio prosegue con un titolo sicuro come Carmen, una delle opere più rappresentate al mondo, che ritorna a Torino per la terza volta in sette anniin tre produzioni differenti. Proveniente dalla stagione 2005 del Teatro Lirico, allora spettacolo insignito del Premio Abbiati, l’allestimento è stato reso possibile anche grazie all’aiuto finanziario dell’associazione Amici del Regio.

Nulla spiega la necessità di riproporre ancora una volta e a breve distanza di tempo questo titolo se non la speranza di attirare in teatro più pubblico nuovo oltre a quello consueto. Di certo non quella di aver trovato gli interpreti d’eccezione, perché i cantanti in scena sono più che decorosi, ma non entusiasmano. Il mezzosoprano franco-armeno Varduhi Abrahamyan lascia i ruoli en travesti del repertorio belcantistico (Arsace nella Semiramide del ROF questa estate, Malcon ne La donna del lago del 2016 ecc.) e si conferma una valida presenza vocale, ma come Carmen non ha quella sensualità che ci si aspetterebbe e seppure corretti non ci sono momenti memorabili nella sua performance: certo non la habanera né la seguidilla, forse meglio il terzetto delle carte a cui presta il colore scuro del suo timbro. Anche il don José di Andrea Carè è efficace, ma avaro di sfumature. Bello lo slancio lirico della Micaëla di Marta Torbidoni, ma c’è un po’ troppo vibrato nella voce. Vocalmente gagliardo e scenicamente autorevole l’Escamillo di Lucas Meachem. Giusto l’apporto del cast nei ruoli secondari però la dizione del francese non sempre risulta impeccabile.

Il giovane Giacomo Sagripanti fornisce una lettura brillante e senza eccessi melodrammatici della partitura ed è validamente assecondato dagli strumentisti dell’orchestra del teatro. Ottimi come sempre i due cori, quello del Regio e quello di voci bianche. La sacrosanta scelta della versione con i dialoghi parlati si scontra con la capacità attoriale dei cantanti, non sempre ineccepibile, e con la lunghezza dello spettacolo, che con tre intervalli raggiunge le quattro ore.

Il regista Stephen Medcalf situa la vicenda nel primo periodo franchista e il grido di libertà di Carmen assume qui un valore ben più forte, ma  a parte ciò non si può dire che la personalità dei personaggi sia stata oggetto di uno scavo profondo – ma la colpa è soprattutto dei librettisti. La presenza dell’esercito e della Guardia Civil è sempre cospicua e contagia anche i bambini in rigida formazione militare. Il regista è molto fedele al libretto così che Micaëla ha la treccia bionda di prammatica («jupe bleu et natte tombante»), i cocci di un piatto sostituiscono le nacchere (questo nella novella di Mérimée) e il corteo di Escamillo ha le fiaccole citate nel testo («Une promenade aux flambeaux!»). L’attualizzazione dell’ambientazione permette di introdurre nella scena dei contrabbandieri un aereo che atterra in una pista delimitata da bidoni di benzina, ma per il resto le scenografie di Jamie Vartan sono evocative ed efficaci nella loro semplicità. Meno convincente il finale: Carmen cerca di scappare da don José che le corre dietro e la uccide non visto dal pubblico. Il delitto diventa visibile quando uno dei pannelli che suggeriscono le mura dell’arena scorre di lato mostrando la folla festante del dopo corrida che continua a inneggiare verso il fondo anche quando Escamillo entra in scena mentre i militari si voltano a guardare inebetiti il cadavere e l’assassino.

Carmen

Georges Bizet, Carmen

★★☆☆☆

Londra, Royal Opera House, 2 luglio 2019

(video streaming)

Kosky è originale come sempre, ma la sua Carmen decostruita non convince

3 ore e mezza? Sì, tanto dura la Carmen messa in scena da Barrie Kosky all’Opera di Francoforte nel 2017 e ripresa ora alla Royal Opera House, un’ora più del normale. Senza i dialoghi parlati né i recitativi musicati da Guiraud, qui una voce fuori scena, probabilmente quella di Carmen, lega i vari numeri musicali talora estesi o in due edizioni diverse, come la habanera eseguita nella consueta versione e di seguito in quella originale poi scartata da Bizet. Inizialmente erano stati proposti anche i couplet cantati da Moralès nel primo atto, poi cassati nel corso delle riprese londinesi. I testi parlati sono tratti dalla novella di Mérimée o dalle didascalie del libretto di Meilhac e Halévy e superano in durata i dialoghi tagliati. Talora quasi imbarazzanti sono i momenti in cui la cantante che interpreta Carmen rimane ferma e muta in primo piano cercando l’espressione giusta a quanto viene detto dalla voce recitante.

Che la Carmen non fosse un pezzo di finto folclore iberico lo si era capito da tempo grazie anche a Calixto Bieito e alla sua memorabile versione. Ma Kosky va molto oltre e ci vuole convincere che Carmen sia un musical in cui la vicenda è mero pretesto per balletti vivacissimi. Tutta l’azione si svolge infatti su una ripidissima scalinata: Broadway si mescola con Weimar, il musical americano col cabaret tedesco e nelle coreografie di Otto Pichler, affidate a sei scatenati ballerini, il flamenco si affianca al charleston, il tango allo “strike-a-pose” di Madonna alle lezioni di aerobica.

Carmen appare prima in costume da torero rosa poi come un gorilla – richiamo sottile ma inutile al costume di una delle Kit Kat Klub girls nel film di Bob Fosse? – da cui si spoglia per rimanere in pantaloni, camicia bianca e cravatta come Marlene Dietrich, e poi nel finale con un sontuoso strascico che occupa l’intera scalinata e a cui si aggrappa inutilmente Don José per trattenerla.

Non c’è momento che non sia visivamente sorprendente, ma diventa difficile giudicare la performance musicale in tale mancanza di coerenza drammatica: non ci sono personaggi, solo dei cantanti “aria-producers”. La Carmen di Aigul Akhmetshina è corretta ma niente più. Irriconoscibile invece Bryan Hymel, Don José lagnoso e legnoso, dalla intonaziona incerta. Ci auguriamo che si sia trattato di una serata negativa. Del tutto fuori parte Luca Pisaroni come Escamillo, pesante e senza verve. Non vanno meglio gli interpreti delle parti secondarie. Kristina Mkhitaryan si rivela la migliore, una Micaëla tenera ma non sdolcinata, di bella voce e fine espressività. Julia Jones si affida al mestiere per leggere la partitura correttamente senza particolari bellurie. Ma che ingrato compito il suo doversi interrompere ogni volta!

Nel finale dopo che Carmen è stata colpita a morte la donna si rialza e allarga le braccia verso il pubblico nel gesto di dire «Visto? Era tutta una finzione!». Ce n’eravamo accorti.

 

Carmen

Georges Bizet, Carmen

★★★☆☆

Liegi, Théâtre Royal, 30 gennaio 2018

Dall’arena del circo a quella della corrida

La fascinazione del regista Henning Brockhaus per il circo si conferma ancora una volta: dopo il suo Pergolesi del 1994, anche ora nella Carmen si scende nell’arena. I numeri musicali di Bizet diventano i numeri di un circo di inizio ‘900 con gli acrobati, i trapezisti, gli animali veri e finti, la pista circolare, gli artisti coi lustrini e i pennacchi, le gallerie piene di pubblico. In tal modo il regista intende sottolineare il carattere popolare dell’opera immergendola in uno spettacolo di varietà circense: le sigaraie sono artiste, i contrabbandieri hanno baffi a manubrio e bombetta di paglia, le donne sono sciantose con le piume in testa. Il tutto in una confusione pittoresca ma ben gestita esaltata dai costumi di Giancarlo Colis e dalla scenografia piena di colori di Margherita Palli i quali  trasformano questa Carmen in Pagliacci. E simile è l’atmosfera che si respira, dai furenti scoppi di gelosia alla coltellata finale.

Dopo un numero piuttosto banale di flamenco (che ritornerà a più riprese nel corso dello spettacolo per sottolineare, come se fosse necessario, la componente spagnola dell’opera), una donna in rosso e incinta passa tra i bambini che imitano le belve e toglie loro la maschera. La donna ritornerà anche lei più volte. Non è l’unica stramberia della serata, a parte l’entrata di Carmen su un elefante, ma quella di Brockhaus si colloca sostanzialmente tra le letture più tradizionali, ben diversamente da quanto aveva fatto Carsen con il circo del suo Rigoletto.  Per non parlare delle Carmen di Bieito o di Černjakov.

La versione scelta è quella originale con i dialoghi parlati, ma così ci vorrebbero dei cantanti che fossero anche eccellenti attori e che la regia non avesse momenti vuoti che allentano il ritmo della tragica vicenda. Di buon livello gli interpreti dalla Carmen sensuale di Nino Surguladze che sfoggia un notevole physique du rôle e una vocalità intensa, alla Micaela di Silvia Dalla Benetta che incarna perfettamente il ruolo dell’“altra” donna senza averne l’aria dimessa da santarellina, anzi con una sua presenza molto femminile. Don José ben intonato ed espressivo quello di Marc Laho, forse un po’ troppo elegante vocalmente l’Escamillo di Lionel Lhote.

Direzione talora pesante quella della Scappucci con tempi estremizzati come ad esempio il lentissimo e strascinato inizio di «Les tringles des sistres tintaient» che diventa poi un ritmo forsennato, mettendo in difficoltà le cantanti. Ma neanche l’orchestra sembra delle più raffinate.

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Carmen

 

Georges Bizet, Carmen

★★★★☆

Aix-en-Provence, Grand Théâtre de Provence, 6 luglio 2017

(video streaming)

Carmen, The game

Che cosa fare di una delle opere più rappresentate e conosciute al mondo? Se la Carmen viene ridotta ai minimi termini a Bregenz, ad Aix-en-Provence arriva quella terapeutica di Dmitrij Černjakov.

Ma è proprio Carmen? Il sipario si apre su quello che sembra l’atrio di una banca o di hotel o di una clinica di lusso: pareti e pavimenti di lucido marmo, salottini in pelle nera. Capiremo trattarsi dell’ultima ipotesi: una coppia in crisi a causa della mancanza di desiderio dell’uomo e quello che potrebbe essere il direttore della clinica parlano di un progetto terapeutico, ossia la rappresentazione di uno psicodramma, quello di Carmen, come un gioco di ruoli. L’uomo non sembra convinto, ma cede per far piacere alla donna. Dopo questo preambolo parlato esplode, letteralmente, il preludio di Bizet nella direzione abbagliante di Pablo Heras-Casado alla guida dell’Orchestre de Paris. Anche dopo la sua lettura brillerà di mille colori e sfumature e con un ritmo che però verrà spezzato dalle interruzioni della regia. Della musica in partitura comunque il direttore granadino non farà mancare nemmeno una nota.

L’uomo deve consegnare orologio e cellulare a un funzionario mentre un altro distribuisce dei cartellini coi nomi dei ruoli: all’uomo tocca quello di Don José, al funzionario stesso quello di Morales, al coro quelli dei soldati. La donna, bionda con filo di perle e soprabito rosa, sarà Micaëla. Le immagini della scena vengono riprese anche da telecamere di sicurezza e le didascalie del libretto sono lette su fogli arancione e i dialoghi quasi soppressi. Nella finzione tutto avviene nell’immaginazione: non c’è nessuna “garde montante” e il coro di bambini fuori scena è mimato dagli uomini. Poi arrivano le “sigaraie”, delle impiegate che si uniscono a loro nel bere un bicchiere di vino e fumare una sigaretta. Entra in scena la “Carmencita”, in ritardo e per di più ha dimenticato la battuta! Cerca di mettersi una rosa tra i capelli e finalmente attacca la sua habanera in modo caricaturale, ma vocalmente ineccepibile,  giocando alla femme fatale, ma che alla fine chiede a Josè di aiutarla a districare dai capelli la rosa da lanciargli. E mancarlo! L’atmosfera è quella goliardica di un ufficio che si vuole divertire alla festa di fine anno quando manca il capufficio. L’irruzione di una pattuglia di polizia che arresta Carmen sembra porre fine alla “festa” e ristabilire una certa realtà mentre Carmen canta la seguidilla in manette. Ma ritorna il direttore e ricorda che è tutto un gioco e sono tutti attori. L’unica che sembra ribellarsi è la donna/Micaëla: «Vous êtes tous fous!».

Nel medesimo ambiente è la scena della taverna di Lillas Pastia dove arriva Escamillo, doppio petto bianco, occhiali da sole e sigaro. Il “torero” incanta tutti con il suo racconto. Carmen riesce a convincere Don José a disertare e a seguirla tra i contrabbandieri. Anche «La fleur» all’inizio è resa con uno straniamento che sarebbe piaciuto a Brecht, ma poi l’atteggiamento di José verso la donna cambia.

Nel terzo atto “José” dovrebbe abbandonare il gioco, ma si rifiuta di farlo: ormai è emotivamente coinvolto da Carmen mentre Micaëla non sembra indenne al fascino di Escamillo e le sue paure non sembrano tanto per il «lieu sauvage» quanto del cadere in tentazione. In effetti i due fanno proprio una bella coppia!

All’inizio del quarto atto un altro paziente entra al posto di “José”, che è stato estromesso dal gioco e che ora si aggira come invisibile nelle scene che ripetono quelle con il coro di bambini e l’arrivo delle sigaraie e poi di Escamillo. Quando Carmen e José rimangono soli avviene quello che sappiamo: l’uomo accoltella la donna per gelosia, «Ceci n’est pas un jeu!» aveva detto a un certo punto. Ma il coltello è un coltello di scena, di quelli con la lama retrattile. Anche questo era tutto finto. Il gioco è ancora saldamente in mano di chi l’ha ideato e l’unico che continua a crederci è “José”. “Micaëla” può riportarselo via.

Ecco, bisognava raccontarla tutta passo dopo passo questa Carmen per chi non l’ha vista al Grand Théâtre de Provence. Non è certo la Carmen per chi non conosce l’opera, ma dal regista russo nemmeno ci si poteva aspettare la Spagna da cartolina con le mantiglie (le nacchere invece ci sono), ma questo di Černjakov è un punto di non ritorno nell’allestimento di un’opera: nelle interviste il regista ha dichiarato di non amare quest’opera, di non credere alla storia di gitane provocanti e toreador di cui qui ha fatto una specie di parodia. Non è Carmen, ma è comunque uno spettacolo intrigante che per riuscire deve avere degli interpreti “speciali” con una presenza scenica fuori del comune e qui tutti ce l’hanno grazie all’eccezionale lavoro attoriale fatto dal regista russo.

Di Stéphanie d’Oustrac conoscevamo l’intelligenza drammatica e la dizione esemplari, qui ampiamente confermate. Il tenore americano Michael Fabiano si rivela del tutto convincente nel ruolo di chi finge di essere nel ruolo di José, con bellurie vocali soprattutto nei momenti lirici. Il soprano franco-danese Elsa Dreisig è una luminosissima e mai remissiva Micaëla. Purtroppo il baritono statunitense Michael Todd Simpson ha grande prestanza scenica ma è vocalmente insufficiente. Della coppia Frasquita-Mercedes meglio la prima, Virginie Verrez, della seconda, Gabrielle Philiponet. Vocalmente equilibrati invece i contrabbandieri Guillaume Andrieux e Mathia Vidal. Efficaci le parti minori e ottimo il Choeur Aedes molto disinvolto in scena.

Successo senza riserva da parte del pubblico francese. Ma forse solo qui si può osare tanto con Carmen.

Černjakov può essere doppiamente contento: la settimana prima la Corte di Cassazione francese gli ha dato ragione sulla disputa con gli eredi di Francis Poulenc a proposito del suo allestimento a Monaco dei Dialogues des Carmélites.

CARMEN (Dmitri Tcherniakov 27 juin 2017)

CARMEN (Dmitri Tcherniakov 27 juin 2017)

CARMEN (Dmitri Tcherniakov 27 juin 2017)

CARMEN (Dmitri Tcherniakov 27 juin 2017)

CARMEN (Dmitri Tcherniakov 27 juin 2017)

Carmen

 

Georges Bizet, Carmen

★★★☆☆

Bregenz, Seebühne, 21 luglio 2017

(diretta tv)

La Carmen del lago

Formula vincente quella dei Bregenzer Festspiele: lo spettacolo clou (quello sulla piattaforma nel lago) è uno solo, viene replicato trenta e più volte con il tutto esaurito e ripreso l’anno successivo. In totale sessanta e passa recite in modo da ammortizzare la costosa messa in scena. E così Bregenz fa i soldi. Verona invece, con quasi il doppio di spettatori della sua Arena, affonda nei debiti ed è a un passo dalla bancarotta.

Ovviamente, nel caso della cittadina sul Lago di Costanza all’incrocio di Svizzera, Austria e Germania, si gioca tutto sulla scenografia, che quest’anno è affidata al genio della inglese Es Devlin la quale, a parte gli allestimenti dei concerti pop di Kanye West, Lady Gaga, Beyonce, Adele, U2, Lenny Kravitz e tanti altri (spettacoli che l’hanno resa ricca, famosa e Officer of the Order of the British Empire!) da tempo presta la sua opera in prestigiosi teatri lirici e collabora con Kasper Holten, attuale Opera Director del Covent Garden, cui si deve la regia di questa Carmen.

La drammaturgia con cui Holten narra la nota vicenda è comprensibile e lineare e il regista prende molto sul serio il tema dell’acqua. Come se fossimo sul Guadalquivir, le sigaraie attingono dal lago per rinfrescarsi, nel lago si getta Carmen per sfuggire alla cattura (o per lo meno una sua sportiva controfigura), le frenetiche danze avvengono a fior dell’acqua con grandi spruzzi sollevati dai ballerini, i contrabbandieri si muovono su silenziose barche e Carmen non viene uccisa a colpi di navaja, bensì affogata nell’acqua la cui superficie è cosparsa di rose rosse. E una rosa rossa è quella che Don José rigira fra le mani mentre ascolta distrattamente Micaëla parlargli della madre.

Durante il preludio vediamo dei bambini giocare in scena: Carmen bambina con il suo vestitino rosso se ne sta in disparte. Lei è la diversa. Suo unico passatempo è quello delle carte, che a un certo punto getta per aria. Ed è questo suo gesto ingrandito mille volte e reso architettonicamente quello che vediamo realizzato nella scenografia di Es Devlin: alcune carte formano un grande arco in alto tra due mani gigantesche (quelle di Carmen con i disegni all’henné) mentre le altre servono da praticabili, passerelle, anfratti, scendendo fino a lambire l’acqua. Alcune appena emergono dalla superficie del lago. Un abile gioco di 3D mapping vi proietta le immagini dei semi classici (ed ecco la regina di cuori, il fante di fiori…) o dei tarocchi (la Morte!) o cartoline di Siviglia o ancora il volto di Micaëla ripresa in primo piano. Deludente è invece la realizzazione visiva del sognante entr’acte tra il secondo e il terzo quadro, qui reso con funamboli (!). Solo Calixto Bieito nella sua Carmen è riuscito a dare un significato poetico all’“andantino quasi allegretto” con il torero che si offre nudo alla luce lunare.

Sigarette e soldi sono presenti in abbondanza nella messa in scena mentre i costumi di Anja Vang Kragh distinguono i diversi personaggi in maniera netta: i vestiti trasandati ma provocanti delle sigaraie, quelli sgargianti dei gitani e dei contrabbandieri, le divise gialle dei militari, il traje de luz di Escamillo e i diversi abiti di Carmen, tutti declinati nel colore rosso.

Le due ore in cui è obbligato lo spettacolo costringono a tagli dolorosi: i dialoghi parlati quasi scompaiono, cori vengono omessi e così pure la ripresa delle arie. Anche l’intervallo viene a mancare. Se non altro si accentua la dinamica dell’azione sottolineata in orchestra da Paolo Carignani nella sua quasi concitata lettura della partitura.

Eterogeneo il cast di interpreti – nel corso delle recite sono tre i cantanti che si avvicendano nei ruoli principali, due in quelli secondari. Protagonista indiscussa della serata del 21 luglio è la seducente Carmen di Gaëlle Arquez. Il mezzosoprano francese, che ha debuttato recentemente nel ruolo a Francoforte, ha un bellissimo timbro chiaro che rende ancora più femminile e in un certo modo fragile il ruolo della gitana e si avvantaggia della lingua madre per rendere al meglio tutte le sfumature della parola. La sua vocalità, affinata nel repertorio barocco, apporta eleganza ed esattezza in un ruolo che talora sfocia nello sguaiato, cosa che qui non succede mai pur nel grande temperamento dell’artista.

Parte male il Don José del tenore svedese Daniel Johansson, suoni opachi e incertezze di intonazione. Poi la prestazione migliora, ma la sua «Fleur» non è comunque tra le cose memorabili. Sicurezza e presenza vocale luminosa quella di Elena Tsallagova, anche lei ammirata nel repertorio barocco e belcantistico, e che qui delinea una volitiva quanto sfortunata Micaëla. Neanche l’Escamillo di Scott Hendricks sfugge a imprecisioni di attacchi e di intonazione e manca del tutto l’aspetto seducente del personaggio.

Voci ovviamente amplificate, ma con una spazializzazione eccezionale. Se non fosse per il vento che scompiglia vesti e capelli neanche sembrerebbe di stare all’aperto. Ottima la regia video della televisione svizzera.

Carmen

 

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Georges Bizet, Carmen

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 29 giugno 2016

Il vuoto attorno a Carmen

Carmen è l’ultima composizione di Bizet. Il compositore francese morirà esattamente tre mesi dopo la prima rappresentazione del 3 marzo 1875 a soli 37 anni. A dispetto dell’iniziale diffidenza del pubblico, l’opera fu apprezzata soprattutto dalla critica musicale del tempo, per lo meno da quelli che non lo accusavano del solito wagnerismo. Ora è la seconda opera più eseguita nel mondo dopo La traviata.

Unanimi, compositori che non avevano nulla in comune tra di loro, come Čajkovskij, Wagner, Brahms, Wolf, Puccini e Stravinskij, dimostrarono ammirazione per il lavoro di Bizet che era riuscito, con il suo innato senso delle proporzioni, a bilanciare perfettamente la musica tra l’espressione di feroci passioni, la sottile caratterizzazione dei personaggi e uno squisito artigianato musicale. Bizet aveva trovato il modo di rappresentare obiettivamente dall’esterno le emozioni dei suoi personaggi toccando così da vicino la realtà di tutti i giorni, ma dimostrando allo stesso tempo un sereno distacco. Il che gli valse talora l’accusa di un certo cinismo. E certo è che non si riesce a provare vero amore per il personaggio di Carmen: si piange per Mimi o Violetta, si soffre per Floria Tosca, ma per la gitana, in fondo in fondo, si arriva a pensare che la coltellata finale se l’è andata a cercare. Per Carmen il pubblico borghese della Terza Repubblica poteva sì scandalizzarsi, ma usciva dal teatro dopo aver assistito alla punizione della peccatrice, alla sconfitta del male. La morale era ancora una volta salva. Bontà sua, il critico musicale dell’“Observer” dopo la prima londinese ammetteva che, sebbene Carmen fosse dal punto di vista sociale ancora meno rispettabile della Traviata, comunque l’opera non era «openly offensive».

Carmen è l’unico personaggio ad esprimersi sempre in forme musicali molto ben definite e appartenenti al folklore spagnolo: esordisce con una habanera, poi la «sorcière infâme» intona una seguidilla con cui incanta il brigadiere, quindi è sua la “chanson bohème” e ancora la danza con le castagnette: Carmen si esprime sempre mediante testi altrui, quelli delle canzoni, a sottolineare i tratti da ragazza semplice che fa sue le parole appartenenti a un patrimonio popolare. Notiamo infine come Carmen è sì un nome tipico spagnolo, ma è anche quel termine latino che significa poesia, canto, ammaliamento, da cui la parola francese charme.

A bilanciare quello scandalo vivente che è Carmen, c’è nel libretto — ma non nel racconto di Mérimée da cui deriva— il personaggio di Micaëla, personaggio un tempo molto apprezzato, ma che poi è sempre più sceso nella valutazione critica, un po’ come è successo per i personaggi del Cuore deamicisiano che dalla venerazione iniziale sono diventati poi oggetto di sarcasmo sotto la penna di un Eco o di un Flaiano. Nella logica del libretto d’opera Micaëla è «la petite perfection», un’invenzione necessaria per fare da contrasto alla gitana tutto pepe. Quando Micaëla arriva trepidante tra i contrabbandieri per riportare sulla retta via l’amato José non è tanto il «lieu sauvage» a incuterle timore, quanto il dover affrontare quella donna «dangereuse, belle, aux artifices maudits». Mentre i richiami dei corni evocano la solitudine del luogo, la sua voce si distende su una frase in nove ottavi che avrebbero potuto scrivere Massenet o Gounod («Je dis que rien ne m’épouvante, | Je dis que je réponds de moi, | Mais j’ai beau faire la vaillante, | Au fond du cœur, je meurs d’effroi…»). Quanto siamo lontani dalla popolare hispanidad di Carmen! Quella di Micaëla è una vera aria da grand-opéra, che dà in quel momento alla modesta ragazza di campagna una statura da eroina del melodramma.

Altrettanto caratterizzati musicalmente sono i personaggi maschili. Quando Don José raccoglie il fiore che gli viene gettato dalla gitana, nell’orchestra corre un fremito premonitore: ha qui inizio la parabola di dannazione dell’uomo che da onesto brigadiere, per amore di questa donna diventerà prima complice, poi disertore, contrabbandiere e infine assassino. La figura convenzionale del toreador è ben delineata dall’intervento di Escamillo, che Bizet prescrive sia cantato «avec fatuité». Si ha qui una colorita immagine di un altro episodio di vita spagnola tradizionale, la corrida, con il suo rumore, «apostrophes, cris et tapage | poussés jusques à la fureur» di questa festa del coraggio premiato dall’amore della bella che attende il torero.

Proveniente da Zurigo, dove andò in scena nel 2008 con Vesselina Kasarova e Jonas Kaufmann e disponibile su DVD, è ora al Regio di Torino questo allestimento di Matthias Hartmann, regista tedesco e a quel tempo sovrintendente del Burgtheater viennese. Hartmann non scandalizza con la sua attualizzazione della vicenda né stravolge la storia, ma quello che non ha convinto il pubblico è il minimalismo assoluto dell’allestimento, tanto che la produzione di Bieito, vista proprio qui nel novembre 2012 e che aveva turbato allora le care salme, è ormai da archiviare tra i classici pur senza ventagli, mantiglie, nacchere, gonne con le balze, che ovviamente mancano anche qui: a Hartmann interessa il personaggio umano di Carmen e non l’ambiente che le sta intorno. E attorno a lei c’è solo una luce accecante su una pedana rotonda in cui è racchiuso il cerchio del destino di questa donna. Un ombrellone per riparare dal sole il corpo di guardia nel primo atto, un filo di lucine per la taverna di Lillas Pastia nel secondo, una luna enorme per la notte tra le montagne e un ulivo per il finale, ahimè senza pace però. Il minimalismo del regista tedesco fa piazza pulita di tutta la paccottiglia folkloristica della Spagna di maniera, ma non la sostituisce con nient’altro se non con trovatine di dubbio gusto come il cane automa, un’inquietante installazione alla Cattelan che scodinzola quando Carmen gli accarezza la testa, o i bambini con gli accendini per la coppia di innamorati dell’ultimo atto. E che dire di José che dopo aver colpito a morte la donna dichiara a sé stesso nel vuoto, perché non c’è nessun altro in scena, «Vous pouvez m’arrêter…».

Asher Fisch sceglie la versione originale con i dialoghi parlati con cui Carmen aveva debuttato all’Opéra Comique, versione che ormai si è comunemente imposta, mentre a Zurigo erano stati adottati invece i recitativi cantati di Guiraud. I tempi sono esatti, ma talora il volume dell’orchestra copre la voce di Don Josè, l’ucraino Dmytro Popov, che ha già cantato la parte a Oslo e ad Amburgo. Tenore più lirico che drammatico spesso risolve in un canto di forza certe sottigliezze arrivando un po’ svuotato alla fine. Il soprano moldavo Irina Lungu è una Micaëla vocalmente e scenicamente determinata e caldamente festeggiata dal pubblico. Vito Priante è un Escamillo fin troppo elegante, il ruolo richiederebbe una presenza e un tono più gradasso che mancano all’inamidato baritono napoletano. Nelle parti minori si fanno notare lo Zuniga di Luca Tittoto e l’attore Sax Nicosia come Lillas Pastia e poi guida di Micaëla nel «site pittoresque et sauvage».

E poi lei. Anna Caterina Antonacci ritorna a Torino dopo la superba prova del Dido & Æneas in forma di concerto per il festival MiTo al Carignano due anni fa. Non è solo vocalista d’eccezione – la voce non ha forse il calore o la sensualità della Rachvelishvili, la Antonacci però rende il suo personaggio meno “maledetto”, ma più femminilmente vero e fragile e per la prima volta il pubblico soffre per lei – è anche grandissima attrice che nei dialoghi esprime doti di recitazione che hanno raro riscontro sulle tavole dei teatri lirici. Nella stupefacente varietà di registri dell’opera, tutte le tinte della voce vi si sono impiegate e quasi non c’è discontinuità tra parlato e cantato, tanta è la naturalezza e la proprietà di dizione con cui l’artista porge i suoi interventi. Ogni dettaglio fonetico, ritmico e metrico delle parole del libretto viene messo sapientemente in luce e la grande tragédienne diventa sigaraia senza perdere nulla nell’intensità dell’interpretazione e della verità espressiva che aveva nella Medea (qui a Torino) o nella Cassandra (a Milano).

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Carmen

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★★★★★

Una Carmen sconvolgente

Il motivo principale per cui ero andato nel giugno 2012 al Regio di Torino ad assistere per l’ennesima volta a una rappresentazione di Carmen era il sapere che non avrei dovuto sorbirmi ventagli, mantiglie, nacchere, gonne rosse con le balze, passi di flamenco e tutta la paccottiglia folkloristica della Spagna di maniera che forse è esistita solo al di qua dei Pirenei nell’immaginario da cartolina degli scrittori e dei pittori che non sono mai stati nella penisola iberica.

Eppure la Spagna di Bieito, questo Tarantino dell’opera nato vicino a Burgos, è più vera che mai e giustamente scioccante – quindi adeguata al lavoro di Bizet che, non dimentichiamolo, scandalizzò i benpensanti del suo tempo, ma che nel contempo accese gli entusiasmi, tra i tanti, di Nietzsche il quale contrappose la sua musica così piena di sangue mediterraneo alla linfa esangue delle opere di Wagner: «Per la ventesima volta ho ieri assistito al capolavoro di Bizet e ancora l’ho udito con la stessa gentile reverenza. […] Essa è malvagia, perversa, raffinata, fantastica, eppure avanza con passo leggero e composto; la sua raffinatezza non è quella di un individuo, bensì di una razza. Si sono mai uditi sulla scena accenti più tragici, più dolorosi? E come sono ottenuti? Senza smorfie, senza contraffazioni di alcun genere, in piena libertà dalle bugie del grande stile» (Der Fall Wagner, 1888).

Tratto dal racconto omonimo di Prosper Mérimée e su libretto di Meilhac & Halévy, il lavoro debutta nel 1875 all’Opéra Comique con scarso successo dopo mesi di prove estenuanti, boicottaggi e lamentele da parte degli orchestrali secondo i quali la partitura era ineseguibile. Tra il pubblico della prima c’erano Gounod, Massenet, Delibes, Lecocq, Offenbach, Pasdeloup, Daudet e Dumas figlio. Tre mesi dopo Bizet moriva senza poter assistere al successo che la sua opera gradualmente guadagnava. Carmen è la seconda opera più eseguita nel mondo.

Atto primo. A Siviglia verso il 1820. Presso la manifattura di tabacchi, Moralès, capo dei dragoni, osserva l’andirivieni dei passanti. Giunge, dal suo paese di campagna, Micaëla, alla ricerca del brigadiere Don José. Le viene detto che José non è ancora arrivato, anche se non tarderà molto; la giovane quindi si allontana. Una grande animazione accompagna la comparsa sulla piazza delle ragazze, che escono dalla manifattura per la pausa. Solo José, giunto nel frattempo, si mostra disinteressato alle giovani: ama Micaëla e ha promesso alla madre di sposarla. Tutti gli uomini attendono la comparsa di Carmen, e quando finalmente la bella sigaraia compare le si stringono attorno mentre lei intona una habanera. Carmen si accorge dell’indifferenza di José e per provocarlo gli lancia un fiore prima di ritornare nella manifattura. José ne è turbato e, quasi inconsciamente, cela il fiore sotto la giubba. Ritorna Micaëla, consegna a José una lettera della madre e prima di tornarsene al paese lo bacia castamente. Grida improvvise s’odono provenire dalla manifattura: Carmen si è azzuffata con una compagna e l’ha ferita al volto. Zuniga, tenente delle guardie, l’arresta e ordina a José di condurla in prigione. Rimasta sola con il brigadiere la donna dà inizio alla sua opera di seduzione: gli promette amore in cambio della libertà cantando un seguidilla. José, definitivamente irretito, l’aiuta a fuggire.
Atto secondo. Un mese è passato. Nella taverna di Lillas Pastia, Carmen attende il ritorno di Don José, che è stato imprigionato per averla lasciata fuggire, danzando con le altre zingare una chanson bohème. Entra, fra le acclamazioni generali, il torero Escamillo, che vuole brindare con gli amici alla sua ultima vittoria. Egli rivolge qualche frase galante a Carmen, ma il pensiero della donna è rivolto solo a José e quando gli amici contrabbandieri la invitano a unirsi a loro per un nuovo colpo, la zingara rifiuta dichiarandosi troppo innamorata per questo genere di imprese. Giunge finalmente José, uscito di prigione, ma s’ode una tromba suonare la ritirata e il brigadiere si accinge a far ritorno in caserma. Grande è allora il dispetto di Carmen, che copre di scherno l’uomo. A nulla valgono le profferte d’amore di José e solo l’improvviso sopraggiungere di Zuniga interrompe il loro litigio. Scoppia una rissa, sedata dall’intervento dei contrabbandieri, e a quel punto José si vede costretto a unirsi a loro disertando l’esercito.
Atto terzo. La vita fra le montagne non si confà a Don José, torturato dai rimorsi. Anche il suo rapporto con Carmen non è più quello di un tempo. La zingara interroga le carte e il responso è terribile: la morte. Micaëla, nel disperato tentativo di redimere l’uomo che ama, giunge nel rifugio dei contrabbandieri implorando Don José di raggiungere la madre morente. L’uomo la segue, non senza aver prima minacciato Carmen della quale è follemente geloso.
Atto quarto. Di fronte all’arena di Siviglia, il popolo acclama festante il corteo dei toreri. Anche Carmen, ora innamorata di Escamillo, è fra la folla. Celato nella confusione generale vi è anche Don José, pazzo di gelosia. La zingara lo affronta, sola nella piazza deserta poiché tutti stanno assistendo alla corrida. José implora e minaccia. La vuole tutta per sé, ma la donna gli si nega. La sua mancanza di carattere l’ha annoiata e in segno di disprezzo gli getta in faccia l’anello che le aveva donato. A quel punto, furente e accecato dalla disperazione, José l’uccide.

Concepito per il Festival di Peralada del 1999, lo spettacolo prodotto da Calixto Bieito approda nel 2010 al Liceu di Barcellona con un cast stellare. Béatrice Uria-Monzon è perfetta come Carmen: una donna vera, sensuale, ma nello stesso tempo impaurita, fragile. All’inizio esce dalla cabina del telefono cantando una habanera non memorabile, ma nel corso dell’opera la sua voce calda e la sua presenza scenica conquistano sempre più. Alla fine si prova vero dolore per la sua morte – cosa che raramente accade in altre rappresentazioni di Carmen – e l’ultima scena è una delle più sconvolgenti mai viste a teatro. Roberto Alagna è in gran forma e il suo Don José è lirico, mai sguaiato o verista come molte volte è capito sentire. Con la sua intelligente ironia Erwin Schrott si ritaglia un Escamillo spiritoso, una parodia del machismo del toreador ispanico. Non gradevole nell’acuto la voce della Poplaskaya che canta le sue note alla perfezione, ma non riesce a infondere umanità al personaggio di Micaëla. Marc Piollet dirige con vivacità la partitura che ha i dialoghi parlati drasticamente tagliati per dare alla vicenda un senso di stringata drammaticità.

Ma veniamo alla regia di Bieito. Siamo a Ceuta, enclave spagnola in Marocco, negli anni ’70 del post-franchismo. Il palcoscenico, che ha il colore della arena della plaza de toros, è nudo e illuminato da un cerchio di luce. Una cabina telefonica vandalizzata, un palo per l’alzabandiera dei soldati, un’enorme sagoma di toro, di quelle che si vedono lungo le autostrade spagnole come pubblicità di una marca di liquori, le mercedes dei contrabbandieri, ecco tutte le scene in cui vive la vicenda. Le donne sono le vittime oppresse dalla povertà e dalla cultura machista: il coro dei bambini del primo quadro è formato da ragazze che chiedono cibo ai soldati, una ragazzina di dieci anni (la sorellina di Carmen?) nel secondo quadro ha come modelli di riferimento una Frasquita dedita all’alcool e una Mercédès che soddisfa sessualmente Moralès. Anche Carmen alla fine è trattata con violenza dal “bruto” Don José che le strappa la borsetta, la getta per terra. Memorabili momenti di teatro sono l’entr’acte tra il secondo e i terzo quadro con la iniziazione del torero nudo al chiaro di luna o la folla fuori campo del pubblico della corrida che applaude alla sfilata nell’ultimo quadro.

Accurata la regia video, nessun extra, sottotitoli in ben sette lingue, ma non c’è l’italiano. È la Carmen più sconvolgente e coinvolgente che si possa vedere in DVD. L’allestimento è stato insignito del premio della critica musicale “Franco Abbiati” per la miglior regia vista in Italia nel 2011.

  • Carmen, Barenboim/Dante, Milano, 7 dicembre 2009
  • Carmen, Fisch/Hartmann, Torino, 29 giugno 2016
  • Carmen, Heras-Casado/Černjakov, Aix-en-Provence, 6 luglio 2017
  • Carmen, Carignani/Holten, Bregenz, 21 luglio 2017
  • Carmen, Scappucci/Brockhaus, Liegi, 30 gennaio 2018
  • Carmen, Jones/Kosky, Londra, 2 luglio 2019
  • Carmen, Sagripanti/Medcalf, Torino, 18 dicembre 2019
  • Carmen, Quatrini/Vettori, Torino, 21 giugno 2022