Carmen

Georges Bizet, Carmen

Torino, Cortile dell’Arsenale, 21 giugno 2022

Carmen in formato tascabile nel cortile dell’Arsenale

Nell’ambito della 28ª edizione della Festa della Musica, il Teatro Regio di Torino porta en plein air le ultime produzioni della sua stagione, essendo inagibile la sala in cui si stanno ultimando i lavori di adeguamento e rinnovamento dell’impianto scenico.

Dopo Cavalleria rusticana, nel cortile dell’Arsenale va in scena Carmen, in una versione che la drammaturgia di Sebastian Schwarz, direttore artistico del teatro, riduce nei personaggi e nei numeri musicali come l’anno scorso era stato fatto con Madama Butterfly e prima ancora col Flauto Magico al Festival Mozart in piazza San Carlo. Se là un narratore impersonava Schikaneder per raccontare la storia e cucire i vari momenti musicali, qui è Yuri d’Agostino, un attore nei panni di un Georgs Bizet non a suo agio con la lingua francese, a presentare la sua ultima creazione – Bizet morirà infatti nel 1875 non ancora trentasettenne a tre mesi dalla prima – partendo dalla novella di Prosper Mérimée adattata a libretto da Henri Meilhac e Ludovic Halévy. L’impossibilità di portare nella sua integralità la versione originale di Carmen in uno spazio come questo, ha spinto per la realizzazione di un qualcosa di diverso, ossia proporre al pubblico un’illustrazione dell’opera secondo un intento quasi didattico: ecco allora una selezione delle arie più celebri introdotte dal suo autore nella sua casa di Bougival all’epoca della prima, poi ci si sposta agli inizi del Novecento e anche oltre: nella regia di Paolo Vettori nel finale saltano fuori i telefonini per i selfie con il cadavere di Carmen.

Il tutto avviene in uno spazio delimitato dalle semplici scenografie di Claudia Boasso: una parete di maxi azulejos con al centro lo stemma della città di Siviglia per i primi atti, pannelli con disegni di tauromachia per l’ultimo. Laura Viglione veste di nero il coro, mentre la protagonista del titolo ha pantaloni e maglietta a righe bianche e blu: l’abito rosso a balze che ci aspetteremmo resta sempre buttato su una sedia e anche la giacca del traje de luz del torero Escamillo gliela vedremo indossata solo nei saluti finali, questo a marcare la distanza da una lettura folcloristica di una vicenda di grande modernità in cui José rappresenta il maschio che non si arrende alla scelta di libertà della sua donna. Carmen rimane comunque debitamente uccisa nel finale, qui non ci sono gli stravolgimenti a cui abbiamo talora assistito. Il Bizet in scena aiuta a comprendere sia gli aspetti sociologici e psicologici della vicenda sia le particolarità musicali di una partitura quasi dimezzata, senza i dialoghi – né parlati come nella versione originale per l’Opéra-Comique, né cantati come nella versione per Vienna – e con i personaggi ridotti a quattro. Dopo l’ouverture, suonata come se uscisse da un disco posto sul grammofono, si ascolta subito il coro delle sigaraie, la Habanera di Carmen, il duetto di Don José con Micaëla e con la Seguidilla termina il primo atto. Anche nel secondo atto di otto numeri musicali ne rimangono quattro, essendo del tutto assenti Frasquita, Mercedes, il Dancairo, il Remendado e Zuniga. Nel terzo atto mancano gli ensemble e nel quarto il coro iniziale. Ridotto così all’essenziale il dramma di Carmen risalterebbe con ancor maggior forza se l’interprete protagonista avesse più carisma e più incisive qualità vocali, ma il mezzosoprano georgiano Ketevan Kemoklidze, anche se ha portato in scena il personaggio numerose volte, non riesce ad affascinare: la sensualità è affidata alle doti sceniche più che a quelle canore, con un registro basso poco sonoro e una proiezione vocale non delle migliori e ulteriormente penalizzata dalla non ottimale acustica dell’ambiente. Benedetta Torre è una Micaela sensibile che dà il meglio nel primo atto, mentre l’aria del terzo atto («Je dis que rien ne m’épouvante») ha un che di sfocato e irrisolto. Decisamente insufficiente la prova del giovane Zoltán Nagy, un Escamillo vocalmente sbiadito e senza personalità.

Vola a tutt’altra altezza invece Jean-François Borras, uno dei migliori frutti della scuola tenorile francese d’oggi. Il suo Don José sfoggia magnifico fraseggio, dizione (ovviamente) impeccabile e una presenza vocale non stentorea e gridata: la resa della romanza «La fleur que tu m’avais jetée» è memorabile per  eleganza e resa in maniera superlativa con i colori e le intenzioni giuste, tra le migliori mai sentite. E finalmente si ascolta il finale in pianissimo (c’è sì una doppia forcella sulla ai di «je t’aime» ma “sempre pp” prescrive la partitura, una sola p in meno dell’orchestra che suona ppp), sulla linea di un Vickers, certo non in quella di un Del Monaco che inseriva oltre all’acuto forte pure il singhiozzo. Così forse non si sollecitano i facili entusiasmi del pubblico, ma così l’ha scritto l’autore e così va cantata. Punto. Peccato che gli spettatori non l’abbiano capito, tributando la stessa dose di applausi indifferentemente ai quattro interpreti.

Sesto Quatrini dà una lettura all’insegna della sobrietà, molto trasparente, con tempi rilassati e volumi sonori contenuti. Forse non l’ideale per un’esecuzione all’aperto, ma ci ha risparmiato le atmosfere bandistiche e i colori rutilanti di certe esecuzioni. Comunque, non vediamo l’ora di ritornare a godere dell’opera al chiuso.

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