L’incoronazione di Poppea

  1. Haïm/Carsen 2008
  2. Bicket/Alden 2009
  3. Haïm/Sivadier 2012

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★★★★★

1. Un “moderno” capolavoro

Rappresentata durante il carnevale veneziano del 1643, L’incoronazione di Poppea è l’ultima opera di Claudio Monteverdi, che morirà nel novembre dello stesso anno. Dimenticata per oltre due secoli, fu riscoperta solo nel 1888. Il libretto, notevole per la forza e la vivacità con cui sono di­pinti i personaggi, è di quel Giovanni Francesco Busenello autore di quattro libretti per Francesco Cavalli, il musicista che probabilmente mise mano al finale per completare l’opera.

Il manoscritto originale della partitura de L’incoronazione di Poppea non esiste. Due copie superstiti presentano differenze significative l’una dall’altra: la prima è stata riscoperta a Venezia nel 1888, la seconda a Napoli nel 1930, quest’ultima è legata alla ripresa dell’opera in questa città nel 1651. Entrambe le partiture contengono essenzialmente la stessa musica, anche se ciascuna differisce dal libretto stampato e presenta aggiunte e omissioni uniche. In ogni partitura le linee vocali sono indicate con l’accompagnamento del basso continuo; le sezioni strumentali sono scritte in tre parti nella partitura di Venezia, in quattro parti nella versione di Napoli, senza specificare in entrambi i casi gli strumenti. Né la partitura di Venezia né quella di Napoli possono essere collegate all’esecuzione originale; sebbene la versione di Venezia sia generalmente considerata la più autentica, le produzioni moderne tendono a utilizzare materiale da entrambe.

La questione della paternità – in sostanza quanta parte della musica sia di Monteverdi – è controversa e potrebbe non essere mai del tutto risolta. Praticamente nessuna delle documentazioni contemporanee cita Monteverdi e nelle partiture sono state identificate musiche di altri compositori, tra cui alcuni passaggi presenti nella partitura de La finta pazza di Francesco Sacrati. Un particolare stile di notazione metrica utilizzato in alcuni passaggi delle partiture de L’incoronazione fa pensare al lavoro di compositori più giovani. Le aree di paternità più dibattute sono alcune parti del prologo, la musica di Ottone, la scena del flirt tra Valetto e Damigella e la scena dell’incoronazione, compreso il duetto finale «Pur ti miro».

Gli studiosi moderni propendono per l’idea che L’incoronazione sia il risultato di una collaborazione tra Monteverdi e altri, con il vecchio compositore che svolge un ruolo di guida. Tra i compositori che potrebbero aver assistito ci sono Sacrati, Benedetto Ferrari e Francesco Cavalli. L’età e la salute di Monteverdi potrebbero avergli impedito di completare l’opera senza l’aiuto di colleghi più giovani. Una specie di  bottega il cui il maestro progetta un dipinto e si occupa egli stesso dei dettagli importanti, ma lascia gli aspetti più banali agli apprendisti artisti più giovani. Ciononostante l’opera è generalmente accettata come parte del canone operistico di Monteverdi, il suo ultimo e forse più grande lavoro. E il primo di un nuovo genere, quello dell’opera a soggetto storico.

Prologo. Amore dichiara la propria sovranità sulla Fortuna e sulla Virtù nell’influenzare le sorti dell’uomo: lo spettacolo che seguirà sarà la dimostrazione di questa tesi.
Atto primo. È l’alba: Ottone si aggira sotto i balconi dell’abitazione di Poppea nella speranza di incontrarla, ma scorge due soldati di Nerone addormentati e fugge sconvolto per l’infedeltà dell’amante. Svegliatisi di soprassalto, i soldati si scambiano commenti sulla situazione precaria dell’impero e sulle vicende private di corte. Tacciono all’apparire di Poppea, che tenta di trattenere l’imperatore presso di lei. Poppea, rimasta sola, non nasconde la speranza di diventare imperatrice. Nessun giovamento trae Ottavia dal conforto filosofico propostole da Seneca che medita sull’infelicità nascosta sotto le «porpore regali» e viene visitato da Pallade, che gli annuncia la prossima fine, al che egli gioisce. Nerone comunica a Seneca la decisione di ripudiare Ottavia e ne nasce uno scontro sempre più serrato con Nerone  che accusa il maestro di «irragionevole comando». Nerone è poi raggiunto da Poppea, la quale rinfresca all’imperatore il ricordo della notte passata e, dopo averlo portato al massimo dell’eccitazione, gli fa ordinare immediatamente la morte di Seneca. Poppea si scontra con Ottone, che le rimprovera la sua infedeltà e viene poi compatito da Arnalta. Ottone è raggiunto dall’innamorata Drusilla, alla quale promette di dedicarsi, anche se commenta fra sé: «Drusilla ho in bocca, et ho Poppea nel core».
Atto secondo. Un liberto comunica al filosofo l’ordine di Nerone: Seneca avvisa serenamente i famigliari, che prorompono in un’invocazione a tre voci (“Non morir Seneca, no”). La scena successiva, come intermezzo di contrasto, presenta le schermaglie amorose del valletto e della damigella. Entra in scena Drusilla, senza assolutamente capire cosa le stia accadendo intorno. Trascinati dall’ottimismo di Drusilla, anche la nutrice e il valletto danno vita a una scena distensiva e comica. Ottone rinnova le sue promesse di fedeltà alla ragazza, chiedendole però di prestarle i suoi vestiti per compiere l’assassinio di Poppea. Drusilla sventatamente acconsente. Frattanto Poppea si affida ad Amore per coronare i suoi sogni e si addormenta nel giardino di casa. Arnalta le canta una dolcissima ninna-nanna. L’attentato di Ottone, travestito da donna, è impedito da Amore, che era sceso in terra per vegliare la sua protetta.
Atto terzo. Drusilla viene sorpresa e imprigionata in quanto presunta autrice dell’attentato. Ottone confessa di essere il colpevole su istigazione di Ottavia; Nerone capisce di avere finalmente il pretesto per ripudiare l’imperatrice e spedisce Ottone e Drusilla in esilio. Un’altra scena fra Poppea e Nerone contiene il duetto “Idolo del cor mio, giunta è pur l’ora” cui seguono un monologo di Arnalta, felice per l’ascesa sociale di Poppea (e sua) e il lamento di Ottavia. La scena dell’incoronazione vede Poppea acclamata da un coro di consoli e tribuni e da un coro celeste guidato da Venere in persona con Amore. Gli amanti intrecciano l’ultimo duetto, il seducente “Pur ti miro”.

L’immoralità qui sembra essere premiata. La relazione adultera di Ne­rone e Poppea trionfa alla fine, in totale contrasto con i finali di tutte le al­tre opere in cui il bene ha la meglio sul male. Si può ravvisare quasi un ama­ro commento del potere aristocratico. (Nel 1643, tra l’altro, in Francia Luigi XIV saliva al tro­no all’età di cinque anni.) A parte Seneca, tutti gli altri personag­gi sono parimenti moralmente compromessi.

In questa visione pessimistica, se non addirittura cinica del­la vita (si sente sotto sotto Il Principe del Machiavelli) solo mo­tore della vicenda è la folle passione tra i due protagonisti principali, come ben evidenziato dalla regia di Carsen che a prologo della rappresentazione fa svolgere in platea il diverbio tra Virtù e Fortuna interrotto da un Eros trionfante e motore dell’azione che fa alzare il sipario, accende le luci e dà il via all’opera. Si trat­ta del­la registrazione dello spettacolo proposto al festival di Glyndebourne nel 2008.

La fulva Emmanuelle Haïm dirige al clavicembalo e all’or­gano con molta partecipazione al dramma l’Orchestra of the Age of the Enlightenment con i suoi bellissimi strumenti originali.

In scena interpreti di primissimo livello. Sensuale e bravissima Danielle de Niese  la quale l’anno dopo il suo debutto come Cleopatra nel Giulio Cesare di Händel, sempre qui a Glyndebourne, si conferma eccellente cantante e otti­ma attrice nel suo cinico ruolo di arrampicatrice sociale, ma già presaga di una tragica fine. Il ruolo di Nerone è affidato al bravissimo mez­zosoprano Alice Coote, che svela bagliori sinistri di malvagità e follia nella forte scena della crudele e gratuita uccisione di Luca­no. La vendica­trice Ottavia ripu­diata ha la bella voce e presenza di Tamara Mumford. L’i­taliano Paolo Batta­glia interpreta la nobi­le figura di Seneca (bella e com­movente la sua morte tra i li­bri) mentre Wolfgang Ablinger-Sperrhacke dà un tono di diver­tente assurdità al suo ruolo en travesti di Arnalta così come an­che la nutrice di Dominique Visse. Molto buoni anche gli altri in­terpreti.

La scena è vuota e dominata dal simbolico colore rosso por­pora. Car­sen dà piena giustificazione delle sue scelte negli extra e nell’opuscolo ac­cluso al disco. Mai come in questa sua messa in scena lo scavo psicologico sui personaggi è stato così attento. Tre ore e più di spettacolo che si vorrebbe non finisse mai.

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★★★★★

2. Monteverdi e il teatro di David Alden

La storia dell’allestimento de L’incoronazione di Poppea è la storia della rappresentazione dell’opera barocca in epoca moderna. Dei tre lavori monteverdiani rimastici è quello più “popolare”, assieme a L’Orfeo. Nella prima parte del XX secolo è messo in scena in una solennità seriosa e in un nobile immobilismo che contraddice la scrittura musicale e testuale dell’opera. Vero è però che tale lettura andava pari passo con le riscritture dei musicisti e musicologi del tempo: Carl Orff in Germania, Vincent d’Indy in Francia, Gian Francesco Malipiero e Ottorino Respighi in Italia, i quali a gara cercavano di rendere romantica oppure neo-classica una dimensione musicale ritenuta incompatibile col gusto novecentesco.

Le cose cambiano negli anni ’60 del secolo scorso quando si inizia a utilizzare un approccio metodologico moderno per opere di trecento anni prima: analisi delle fonti, uso di strumenti originali, ricostruzione della prassi esecutiva e una diversa impostazione vocale per i cantanti e un nuovo modo di mettere in scena da parte di registi che hanno «liberato l’enorme potenziale narrativo prima ingessato in parrucche, strascichi, pennacchi e trovarobato vario: e hanno reso teatro pienamente moderno quello barocco, sfruttando finalmente appieno la completa libertà inventiva con cui esso consente di esplorare un’amplissima pluralità di tipologie psicologiche, tutte perfettamente sovrapponibili a quelle che pulsano nel nostro quotidiano». (Elvio Giudici)

Le pionieristiche incisioni di Nikolaus Harnoncourt e le loro messe in scene di Jean-Pierre Ponnelle a Zurigo con un’orchestra, “La scintilla”, appositamente fondata, vennero accolte con entusiasmo dalla critica tedesca e con «spocchioso dileggio» dalla critica italiana. Da allora la situazione è solo in parte mutata e le rappresentazioni più innovative vengono nella totalità da oltralpe, con interpreti di lingua non italiana…

Le edizioni video del lavoro di Monteverdi ammontano a un discreto numero: dopo Harnoncourt/Ponnelle ricordiamo quelle di Leppar/Hall, Jacobs/Hampe, Rousset/Audi, Minkowski/Grüber, tutte prima del 2000 e nessuna di particolare rilevanza. È negli ultimi anni invece che troviamo allestimenti più interessanti: da quello Haïm/Carsen (2008) a quello De Marchi/Tandberg (2010) al più recente Haïm/Sivadier del 2012.

Del 2009 è questo intrigante spettacolo di David Alden al Gran Teatre del Liceu. Ancora una volta sono le parole di Elvio Giudici a descriverlo al meglio: «Il sacrosanto punto di partenza di Alden è il tentare di declinare nel nostro contemporaneo lo spirito – caustico, cinico, ambiguo, caricaturale, sovversivo, quasi nichilistico – che animava l’Accademia degli Incogniti di cui Busanello era tra le figure di maggior spicco. Quello spirito che faceva della caustica ironia la propria arma maggiore: scegliendo senza remore una vicenda scopertamente amorale, centrata su un inestricabile groviglio di intrigo politicpo ed erotico. Dove i magistri vitae sono supremo esempio d’opportunismo che però non serve, giacché vengono ammazzati tra canti e danze; le cortigiane scalzano le mogli, che peraltro tutto sono fuorché virtuose; e dove alla cortigianeria – quando non addirittura al servilismo più abbietto – vengono elevati inni di gioia sfrenata. […] Con lo spettacolo di Alden, per la prima volta esplodeva nella Poppea tutta la sua intrinseca violenza (e le molteplici sue possibilità espressive) l’ambiguità: sessuale, sentimentale, politica, speculativa. La miccia per tale esplosione sta nel premere a fondo il pedale dell’ironia più corrosiva, così che una tinta comica si stende sull’intera narrazione in luogo del suo circoscrivere ai personaggi più specificamentre farseschi come Arnalta, Nutrice e, per lo meno sul piano dell’ilare sensualità, Valletto e Damigella. Comicità, pertanto, legata a filo doppio con la tragedia: che in tal modo nient’affatto si sminuisce bensì – shakespearianamente – s’esalta nel suo diventare cosa nostra, banalmente quotidiana e riguardante di conseguenza tutti, qui e ora. Colori violentissimi dominano l’intero spettacolo, che Buki Shiff assembla nei costumi e nel ciclorama di fondo in marcato contrasto reciproco, dal verde acido al rosso fragola, dal giallo limone al blu elettrico, tutti riflessi in cangianti tremolii sul lucido palcoscenico. La prima immagine è il primissimo piano d’un largo divano di pelle color rosso fiamma, motivo conduttore scenico destinato a riflettere le diverse sfumature caratteriali dei personaggi. Vi colloquiano – articolando una slapstick comedy degna dei migliori esempi hollywoodiani – la matura signora Virtù in stampelle e collare, e la segaligna signorina Fortuna dalla testa calva lunghissima e con vezzoso ombrellino». Su quel divano, che si trasforma all’occasione in letto, troveremo i due pretoriani, poi Nerone e Poppea, poi Ottone e Drusilla, ma anche Ottavia, e Seneca con sigaro e bicchiere di scotch.

Diretto magnificamente da Harry Bicket il cast di tutto riguardo: Miah Persson è una Poppea magnifica cantante e magnifica attrice; Sarah Connolly, ancora una volta en travesti, è un Nerone formidabile e del tutto credibile; Ottavia intensa e vocalmente sontuosa quella di Maite Beaumont; il bravo controtenore Jordi Domènech è Ottone e Ruth Rosique una perfetta Drusilla; Valletto indimenticabile quello di William Berger mentre Seneca ha le fattezze e la voce profonda di Franz-Joseph Selig. Anche nei ruoli di fianco ci sono ottimi artisti come Judith van Wanroij (Damigella) e Guy de Mey (Lucano). Una menzione a parte per Dominique Visse (Arnalta e Nutrice) che si conferma grande caratteristica, ma che nel suo «Oblivion soave» tocca corde di inusitata dolcezza e intensità.

Eccellente la regia video di Xavi Bové.

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★★★☆☆

3. Raffazzonato, didascalico, camp

Questi sono i tre aggettivi con cui si può definire l’allestimento di Jean-François Sivadier de L’incoronazione di Poppea di Monteverdi nel 2012 all’Opéra de Lille. Nella contradditorietà di questi termini sta il limite di questo spettacolo.

La recita del 22 marzo viene registrata in maniera piuttosto improvvisata e ora è disponibile su DVD. Il sipario è già sollevato quando il pubblico prende posto mentre arrivano alla spicciolata sul palcoscenico gli interpreti come a una festa in abiti moderni. Saluti e ammiccamenti verso la platea, il solito cicaleccio, poi uno degli ospiti scende nella buca dell’orchestra e attacca la sinfonia: è Emmanuelle Haïm, la stessa della produzione di Glyndebourne, ma qui alla testa del Concert d’Astrée. Poi scende un sipario rosso e Ottone canta i suoi ritornelli in lode dell’amata, anche se presto scopre che «in grembo di Poppea dorme Nerone». Il quale Nerone qui ricorda un po’ il personaggio di Malcom McDowell in Arancia Meccanica, il film di Kubrick: parrucca bionda, trucco pesante, luccicanti pagliuzze d’oro sul viso, smalto alle unghie. E la stessa gratuita e casuale crudeltà, qui però non esplicitamente dimostrata. Calato nella parte è Max Emmanuel Cenčić che affronta vocalmente un ruolo impervio e i suoi vocalizzi hanno un che di isterico del tutto coerente con il personaggio. Da antologia è la sua prestazione nella scena sesta del secondo atto allorquando duetta con Lucano dopo la morte di Seneca.

Sonya Yoncheva è una Poppea dalla vocalità preziosa e dalla figura oltremodo seducente. Le sue agilità e la voluttà che esprime negli incontri con l’imperatore sono generose quanto lo è suo il décolleté. In questa messa in scena il ritornello che tesse con Nerone («Pur ti miro, pur ti godo») è preceduto da un’inopportuna interruzione in cui una voce recitante ci informa dei fatti storici realmente avvenuti e della triste fine dell’amata, morta per un calcio al ventre da parte dello psicotico consorte mentre era incinta del suo secondo figlio.

Vera matrona, nell’imponenza della presenza scenica e nella voce, è l’Ottavia di Ann Hallenberg, anche lei destinata a triste sorte dal marito che l’ha ripudiata. Il suo «Addio Roma» ha l’intensità del lamento di Arianna, unico resto della perduta opera del divino Claudio.

Vocalmente pregevole come sempre è l’Ottone di Tim Mead e autorevole, seppure troppo giovane e anche un po’ leggero, il Seneca di Paul Whelan. Sopra le righe le parti en travesti di Arnalta, Emiliano Gonzalez-Toro, e soprattutto della Nutrice, Rachid Ben Abdeslam. Sensibile la Drusilla di Amel Brahim-Djelloul ed efficace Khatouna Gadelia come Amore e poi come vivace Valletto.

Con grandi tagli la direzione spedita della Haïm, con improvvisazioni al clavicembalo o al regale, porta la durata sotto le tre ore.

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