
∙
Claudio Monteverdi, L’incoronazione di Poppea
Versailles, Opéra Royal, 28 gennaio 2023
(video streaming)
«Oggi vedrai ciò che sa far Amore»
Nella Agrippina avevamo lasciato Ottone unirsi felicemente all’amata Poppea, ma sembra che le cose non siano andate come sperava il valoroso romano, poiché la donna è ricaduta tra le braccia di Nerone, ora imperatore e sposo di Ottavia. Per prendere il posto dell’imperatrice regnante, Poppea non si ferma davanti a nulla e cerca di eliminare tutti gli ostacoli che le impediscono di salire al trono: mette fine alla relazione con Ottone, spinge Seneca al suicidio e fa in modo che Ottavia venga ripudiata. Raggiunge così il suo obiettivo e sposa Nerone.
Busenello condensa gli eventi storici di un periodo di sette anni (dal 58 al 65 d.C.) nell’azione di un solo giorno, una magistrale sequenza di scene di eccezionale livello letterario e teatrale. Dopo l’immancabile prologo in cielo, abbiamo la vivida scena notturna in cui Ottone scopre i servi di Nerone in attesa del padrone fuori della casa di Poppea; quindi la scena fra i due amanti; Poppea e i consigli di Arnalta; il drammatico monologo di Ottavia seguito dai consigli («sozzi argomenti») della sua nutrice; Seneca che conforta Ottavia; l’accesa discussione fra Nerone e Seneca; il secondo duetto di Nerone e Poppea, pieno di riferimenti esplicitamente erotici; eccetera. In tutto questo sta la modernità dell’ultimo capolavoro monteverdiano.
Il libretto è sopravvissuto in numerose forme: due versioni a stampa, sette versioni manoscritte o frammenti e uno scenario anonimo, o riassunto, relativo alla produzione originale. Una delle edizioni a stampa si riferisce alla ripresa dell’opera a Napoli nel Carnevale 1650; l’altra è la versione finale di Busenello pubblicata nel 1656 come parte di una raccolta dei suoi libretti. I manoscritti risalgono tutti al XVII secolo, anche se non tutti sono specificamente datati; alcuni sono versioni “letterarie” non legate a rappresentazioni e la più significativa delle copie manoscritte è quella scoperta a Udine nel 1997 dallo studioso monteverdiano Paolo Fabbri. Questo manoscritto, secondo la storica della musica Ellen Rosand, «è impregnato dell’immediatezza di un’esecuzione» ed è l’unica copia del libretto che menzioni Monteverdi per nome. Questo, insieme ad altri dettagli descrittivi che mancano in altre copie, porta Rosand a ipotizzare che il manoscritto sia stato copiato nel corso di una rappresentazione. Questa impressione è rafforzata, dice, dall’inclusione di un inno di lode alla cantante che interpretava Poppea. Sebbene la datazione sia incerta, l’affinità del manoscritto con lo scenario originale ha fatto ipotizzare che la versione udinese possa essere stata compilata a partire dalla prima rappresentazione.
Grazie alla musica di Monteverdi, quello che poteva essere visto come un mero trionfo dell’amoralità diventa un inno al potere assoluto del desiderio, un’esaltazione dell’umanità intrappolata nelle sue stesse contraddizioni. È stata l’ultima opera dell’anziano maestro, ma anche il primo capolavoro del genere, e rimane profondamente moderna nonostante i quattro secoli trascorsi dalla prima. L’opera è ora messa in scena sulle tavole dell’Opéra Royal di Versailles in una magnifica produzione che vede il maestro clavicembalista Leonardo García Alarcón a capo della sua Cappella Mediterranea e Ted Huffman alla regia. Quella scelta da Leonardo García Alarcón è la versione del 1650 e nel caso di opere di questo repertorio il suo intervento è sostanziale nel ricreare una partitura di cui abbiamo solo il basso continuo, tre o quattro righe strumentali e le voci. È sua quindi gran parte della composizione/ricreazione di questo lavoro che sotto la sua direzione risulta ancora fresco come il giorno in cui fu scritto. Magistrale non è solo la ricostruzione strumentale, che raggiunge livelli di sontuosità o trasparenza a seconda dei casi, ma anche l’accompagnamento delle voci, sostenute ma anche libere di esprimersi in tutta la loro intensità quando è necessario, come nel caso di quelle di Ottavia e di Seneca. Una dimostrazione della totale fiducia riposta dai cantanti nel loro direttore è l’assenza di sguardi ansiosi per gli attacchi, anzi, in alcuni momenti gli interpreti possono cantare a occhi chiusi, certi che il direttore li segue senza problemi.
Per una volta i ruoli maschili sono allo stesso livello, se non superiore, di quelli femminili. Il controtenore Jake Arditti, Nerone anche nella Agrippina di Carsen, ha una voce agile e dotata di un colore che ben connota il carattere impietoso dell’imperatore romano il quale risponde solo ai suoi impulsi e ai suoi desideri. Arditti ne caratterizza la volatilità con rapidi cambi di dinamica e di accenti emotivi e arrivando a petto nudo afferma fin da subito e inequivocabilmente le inclinazioni del suo personaggio e allo stesso momento la esibita sicurezza come imperatore.
L’altro controtenore è Iestyn Davies, in pantalonicini corti per sottolinearne la immaturità, che interpreta con molta sensibilità l’infelice ruolo di Ottone, anche qui come in Agrippina vittima delle ambizioni e degli intrighi dei potenti; il basso Alex Rosen è un autorevole Seneca dal sonoro registro grave ma capace di esprimere con belle mezze voci e un’espressiva presenza scenica la parte del filosofo, qui una figura giovanile e per questo ancora più efficace quando si contrappone drammaticamente al quasi coetaneo e capriccioso Nerone; nelle parti di Lucano, Pretoriano e Famigliare di Seneca troviamo il tenore Laurence Kilsby, il vincitore dell’ultimo concorso Cesti che non solo conferma sul piano vocale l’ottima impressione della sua performance di Innsbruck, ma dimostra anche una matura e disinvolta presenza scenica.

Doppia parte anche per Ambroisine Bré, Virtù nel Prologo e poi Ottavia, mezzosoprano di bella voce e intensamente espressiva nei due monologhi dell’atto primo «Disprezzata regina» dai toni proto-femministi («Se concepiamo l’uomo, | o delle donne miserabil sesso, | al nostr’empio tiran formiam le membra, | allattiamo il carnefice crudele»), e del terzo «Addio Roma, addio patria, amici addio» quando si imbarca sulla nave dopo essere stata ripudiata avendone lei stessa incautamente fornita l’occasione, che Nerone aspettava, col suo ordine a Ottone di uccidere Poppea.
E Poppea è il soprano Elsa Benoit, l’Agrippina di Monaco, solare e sensuale cortigiana che cela nei modi suadenti l’impulso di fredda ambizione che la consuma. La cantante possiede una voce molto espressiva e con un’ampia tavolozza di colori. Il fraseggio accurato si modella accuratamente al testo e la voce possiede un’attraente qualità per sottolineare la seduzione del personaggio. Nel duetto finale «Pur ti miro, pur ti godo» le voci della Benoit e di Arditti si combinano con una tale sensibilità che la tensione sessuale, che fino a quel momento aveva definito la loro relazione, viene sostituita da un sentimento di amore genuino. Tuttavia, c’è qualcosa che non si concilia con quanto abbiamo visto in precedenza: la musica è anche troppo armoniosa, troppo dolce, quasi leziosa, come se Monteverdi si volesse prendere gioco in questo lieto fine di un’esagerata celebrazione dell’amore davanti a un pubblico che sa che quel sentimento sarebbe stato breve e che Nerone avrebbe ucciso la donna incinta con un calcio.
Spesso in scena è il soprano Julie Roset nelle vesti di Amore, il motore della vicenda, e di Valletto. Ha presenza da soubrette, ma voce di grande proiezione, facili agilità e accenti sonori decisi. Anche Maya Kherani, soprano indiano, si fa notare per le indubbie qualità personali quale Fortuna nel Prologo e poi come Drusilla. Corpulento, quasi gigantesco, ma dalla voce flebile, è l’Arnalta/Nutrice en travesti di Stuart Jackson, che però si concede il suo momento di gloria nel magico «Oblivion soave», cantato con grande sensibilità. Peccato per la dizione dal forte accento inglese, ma quello della dizione è un problema sempre in agguato per un cast totalmente straniero come questo, con pronuncia impastata o addirittura scorretta di certe parole. L’unico bilingue è il tenore italo/tedesco Riccardo Romeo, efficace Liberto e Pretoriano. L’eccellenza della distribuzione si estende anche a Yannis François, Littore e Famigliare di Seneca.
Contrasta con l’opulenza della sala dell’Opéra Royal la messa in scena di Ted Huffman, regista proveniente dall’Académie di Aix-en-Provence dove lo spettacolo è stato originariamente messo in scena al Jeu de Paume. La scenografia di Johannes Schültz rivista da Anna Wörl consiste in uno spazio vuoto con un’area per sedersi, in modo che i personaggi non coinvolti in una scena possano osservare ciò che accade, e un tubo rotante appeso sopra il palcoscenico il cui significato però sfugge: simbolo fallico? ago di una bussola gigantesca (è metà bianco e metà nero)? una roulette simbolo dell’aleatorietà dei destini? Mah. Alcuni tavoli, sedie, uno stendino per abiti sono gli unici elementi presenti in scena. Nel triangolo Nerone-Lucano-Poppea, che dopo la morte di Seneca escono assieme di scena per consumare un amplesso à trois, è la lascivia della musica e dei versi («Bocca, che se mi porge | lasciveggiando il tenero rubino | m’inebria il cor di nettare divino») a trovare il giusto corrispettivo figurativo ed è l’interazione tra i personaggi il punto forte dello spettacolo, assieme alla bravura dei giovani e disinibiti interpreti, alla efficace drammaturgia suggerita dal testo del Busenello e alla magia della musica di Monteverdi ricreata da Alarcón.
⸪