Giovanni Francesco Busenello

L’incoronazione di Poppea

Claudio Monteverdi, L’incoronazione di Poppea

Versailles, Opéra Royal, 28 gennaio 2023

★★★★☆

(video streaming)

«Oggi vedrai ciò che sa far Amore»

Nella Agrippina avevamo lasciato Ottone unirsi felicemente all’amata Poppea, ma sembra che le cose non siano andate come sperava il valoroso romano, poiché la donna è ricaduta tra le braccia di Nerone, ora imperatore e sposo di Ottavia. Per prendere il posto dell’imperatrice regnante, Poppea non si ferma davanti a nulla e cerca di eliminare tutti gli ostacoli che le impediscono di salire al trono: mette fine alla relazione con Ottone, spinge Seneca al suicidio e fa in modo che Ottavia venga ripudiata. Raggiunge così il suo obiettivo e sposa Nerone.

Busenello condensa gli eventi storici di un periodo di sette anni (dal 58 al 65 d.C.) nell’azione di un solo giorno, una magistrale sequenza di scene di eccezionale livello letterario e teatrale. Dopo l’immancabile prologo in cielo, abbiamo la vivida scena notturna in cui Ottone scopre i servi di Nerone in attesa del padrone fuori della casa di Poppea; quindi la scena fra i due amanti; Poppea e i consigli di Arnalta; il drammatico monologo di Ottavia seguito dai consigli («sozzi argomenti») della sua nutrice; Seneca che conforta Ottavia; l’accesa discussione fra Nerone e Seneca; il secondo duetto di Nerone e Poppea, pieno di riferimenti esplicitamente erotici; eccetera. In tutto questo sta la modernità dell’ultimo capolavoro monteverdiano.

Il libretto è sopravvissuto in numerose forme: due versioni a stampa, sette versioni manoscritte o frammenti e uno scenario anonimo, o riassunto, relativo alla produzione originale. Una delle edizioni a stampa si riferisce alla ripresa dell’opera a Napoli nel Carnevale 1650; l’altra è la versione finale di Busenello pubblicata nel 1656 come parte di una raccolta dei suoi libretti. I manoscritti risalgono tutti al XVII secolo, anche se non tutti sono specificamente datati; alcuni sono versioni “letterarie” non legate a rappresentazioni e la più significativa delle copie manoscritte è quella scoperta a Udine nel 1997 dallo studioso monteverdiano Paolo Fabbri. Questo manoscritto, secondo la storica della musica Ellen Rosand, «è impregnato dell’immediatezza di un’esecuzione» ed è l’unica copia del libretto che menzioni Monteverdi per nome. Questo, insieme ad altri dettagli descrittivi che mancano in altre copie, porta Rosand a ipotizzare che il manoscritto sia stato copiato nel corso di una rappresentazione. Questa impressione è rafforzata, dice, dall’inclusione di un inno di lode alla cantante che interpretava Poppea. Sebbene la datazione sia incerta, l’affinità del manoscritto con lo scenario originale ha fatto ipotizzare che la versione udinese possa essere stata compilata a partire dalla prima rappresentazione.

Grazie alla musica di Monteverdi, quello che poteva essere visto come un mero trionfo dell’amoralità diventa un inno al potere assoluto del desiderio, un’esaltazione dell’umanità intrappolata nelle sue stesse contraddizioni. È stata l’ultima opera dell’anziano maestro, ma anche il primo capolavoro del genere, e rimane profondamente moderna nonostante i quattro secoli trascorsi dalla prima. L’opera è ora messa in scena sulle tavole dell’Opéra Royal di Versailles in una magnifica produzione che vede il maestro clavicembalista Leonardo García Alarcón a capo della sua Cappella Mediterranea e Ted Huffman alla regia. Quella scelta da Leonardo García Alarcón è la versione del 1650 e nel caso di opere di questo repertorio il suo intervento è sostanziale nel ricreare una partitura di cui abbiamo solo il basso continuo, tre o quattro righe strumentali e le voci. È sua quindi gran parte della composizione/ricreazione di questo lavoro che sotto la sua direzione risulta ancora fresco come il giorno in cui fu scritto. Magistrale non è solo la ricostruzione strumentale, che raggiunge livelli di sontuosità o trasparenza a seconda dei casi, ma anche l’accompagnamento delle voci, sostenute ma anche libere di esprimersi in tutta la loro intensità quando è necessario, come nel caso di quelle di Ottavia e di Seneca. Una dimostrazione della totale fiducia riposta dai cantanti nel loro direttore è l’assenza di sguardi ansiosi per gli attacchi, anzi, in alcuni momenti gli interpreti possono cantare a occhi chiusi, certi che il direttore li segue senza problemi.

Per una volta i ruoli maschili sono allo stesso livello, se non superiore, di quelli femminili. Il controtenore Jake Arditti, Nerone anche nella Agrippina di Carsen, ha una voce agile e dotata di un colore che ben connota il carattere impietoso dell’imperatore romano il quale risponde solo ai suoi impulsi e ai suoi desideri. Arditti ne caratterizza la volatilità con rapidi cambi di dinamica e di accenti emotivi e arrivando a petto nudo afferma fin da subito e inequivocabilmente le inclinazioni del suo personaggio e allo stesso momento la esibita sicurezza come imperatore.

L’altro controtenore è Iestyn Davies, in pantalonicini corti per sottolinearne la immaturità, che interpreta con molta sensibilità l’infelice ruolo di Ottone, anche qui come in Agrippina vittima delle ambizioni e degli intrighi dei potenti; il basso Alex Rosen è un autorevole Seneca dal sonoro registro grave ma capace di esprimere con belle mezze voci e un’espressiva presenza scenica la parte del filosofo, qui una figura giovanile e per questo ancora più efficace quando si contrappone drammaticamente al quasi coetaneo e capriccioso Nerone; nelle parti di Lucano, Pretoriano e Famigliare di Seneca troviamo il tenore Laurence Kilsby, il vincitore dell’ultimo concorso Cesti che non solo conferma sul piano vocale l’ottima impressione della sua performance di Innsbruck, ma dimostra anche una matura e disinvolta presenza scenica.

Doppia parte anche per Ambroisine Bré, Virtù nel Prologo e poi Ottavia, mezzosoprano di bella voce e intensamente espressiva nei due monologhi dell’atto primo «Disprezzata regina» dai toni proto-femministi («Se concepiamo l’uomo, | o delle donne miserabil sesso, | al nostr’empio tiran formiam le membra, | allattiamo il carnefice crudele»), e del terzo «Addio Roma, addio patria, amici addio» quando si imbarca sulla nave dopo essere stata ripudiata avendone lei stessa incautamente fornita l’occasione, che Nerone aspettava, col suo ordine a Ottone di uccidere Poppea.

E Poppea è il soprano Elsa Benoit, l’Agrippina di Monaco, solare e sensuale cortigiana che cela nei modi suadenti l’impulso di fredda ambizione che la consuma. La cantante possiede una voce molto espressiva e con un’ampia tavolozza di colori. Il fraseggio accurato si modella accuratamente al testo e la voce possiede un’attraente qualità per sottolineare la seduzione del personaggio. Nel duetto finale «Pur ti miro, pur ti godo» le voci della Benoit e di Arditti si combinano con una tale sensibilità che la tensione sessuale, che fino a quel momento aveva definito la loro relazione, viene sostituita da un sentimento di amore genuino. Tuttavia, c’è qualcosa che non si concilia con quanto abbiamo visto in precedenza: la musica è anche troppo armoniosa, troppo dolce, quasi leziosa, come se Monteverdi si volesse prendere gioco in questo lieto fine di un’esagerata celebrazione dell’amore davanti a un pubblico che sa che quel sentimento sarebbe stato breve e che Nerone avrebbe ucciso la donna incinta con un calcio.

Spesso in scena è il soprano Julie Roset nelle vesti di Amore, il motore della vicenda, e di Valletto. Ha presenza da soubrette, ma voce di grande proiezione, facili agilità e accenti sonori decisi. Anche Maya Kherani, soprano indiano, si fa notare per le indubbie qualità personali quale Fortuna nel Prologo e poi come Drusilla. Corpulento, quasi gigantesco, ma dalla voce flebile, è l’Arnalta/Nutrice en travesti di Stuart Jackson, che però si concede il suo momento di gloria nel magico «Oblivion soave», cantato con grande sensibilità. Peccato per la dizione dal forte accento inglese, ma quello della dizione è un problema sempre in agguato per un cast totalmente straniero come questo, con pronuncia impastata o addirittura scorretta di certe parole. L’unico bilingue è il tenore italo/tedesco Riccardo Romeo, efficace Liberto e Pretoriano. L’eccellenza della distribuzione si estende anche a Yannis François, Littore e Famigliare di Seneca.

Contrasta con l’opulenza della sala dell’Opéra Royal la messa in scena di Ted Huffman, regista proveniente dall’Académie di Aix-en-Provence dove lo spettacolo è stato originariamente messo in scena al Jeu de Paume. La scenografia di Johannes Schültz rivista da Anna Wörl consiste in uno spazio vuoto con un’area per sedersi, in modo che i personaggi non coinvolti in una scena possano osservare ciò che accade, e un tubo rotante appeso sopra il palcoscenico il cui significato però sfugge: simbolo fallico? ago di una bussola gigantesca (è metà bianco e metà nero)? una roulette simbolo dell’aleatorietà dei destini? Mah. Alcuni tavoli, sedie, uno stendino per abiti sono gli unici elementi presenti in scena. Nel triangolo Nerone-Lucano-Poppea, che dopo la morte di Seneca escono assieme di scena per consumare un amplesso à trois, è la lascivia della musica e dei versi («Bocca, che se mi porge | lasciveggiando il tenero rubino | m’inebria il cor di nettare divino») a trovare il giusto corrispettivo figurativo ed è l’interazione tra i personaggi il punto forte dello spettacolo, assieme alla bravura dei giovani e disinibiti interpreti, alla efficace drammaturgia suggerita dal testo del Busenello e alla magia della musica di Monteverdi ricreata da Alarcón.

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L’incoronazione di Poppea

Claudio Monteverdi, L’incoronazione di Poppea

★★★★★

Salisburgo, Haus für Mozart, 12 agosto 2018

(streaming video)

La libido al potere

Tre sono le divinità che presiedono alla vicenda de L’incoronazione di Poppea: la Fortuna, la Virtù e Amore. Se è la terza che vince sulla seconda, è la prima quella che domina dall’inizio alla fine in questa produzione del Festival di Salisburgo.

La ruota del destino (o del tempo) gira incessantemente con gli instancabili ballerini coreografati e diretti da Jan Lauwers che la mette in scena alla Haus für Mozart: a turno infatti ognuno dei danzatori sale su una piattaforma circolare nel mezzo del  palcoscenico e inizia a ruotare come un derviscio. Nel pavimento innumerevoli immagini erotiche della pittura occidentale sono il solo elemento di una scenografia affidata unicamente o quasi ai corpi seminudi dei giovani. I personaggi della vicenda, tutti, a eccezione di Seneca, più o meno corrotti, sono macchine erotiche spinte dalla libido mentre gli dèi sono accompagnati da un’umanità storpiata che si aggrappa a involute stampelle.

Jan Lauwers, un artista visuale che utilizza ogni possibile mezzo espressivo, per la prima volta affronta l’allestimento di un’opera lirica e il risultato è difficile da dimenticare. La ricchezza di immagini messe in moto è tale da far venire le vertigini. Eppure Lauwers dimostra di aver perfettamente compreso lo spirito di questa terza e ultima opera (tra quelle rimaste) di Monteverdi, la più moderna e la più diversa dalle altre – tanto che c’è chi avanza il dubblio che sia di mano di Francesco Cavalli, per lo meno in parte. La sensualità che pervade il lavoro è espressa dal gioco dei corpi dei ballerini muti e da quello degli interpreti vocali.

Poppea ha la sontuosa figura e vocalità di Sonya Yoncheva, la cantante che dopo gli esordi nel barocco ha affrontato il repertorio ottocentesco e ora torna alle origini con una voce più ampia, sensuale, liscia, morbida e cangiante come la seta dei suoi négligé. Kate Lindsey non fa nulla per assumere la mascolinità di Nerone – semmai l’avesse avuta. Qui è una figura hippy che alberga la perversione per il potere, una libido neanche sublimata che porta a eliminare chiunque ostacoli o anche solo critichi la sua brama. La voce spesso supera il confine tra espressione ed espressionismo e i suoni metallici, sgraziati, rozzi se evidenziano la depravazione del personaggio, presto vengono a noia e si preferirebbe un Nerone cantato “bene”.

Stéphanie d’Oustrac delinea un’Ottavia oltraggiata che nell’aria di addio lascia sgomenti per l’intensità espressa con mezzi di rara economia ed eleganza. Molto bene la Drusilla di Ana Quintans, anche Virtù nel prologo, di vibrante tenerezza per il suo Ottone, il controtenore Carlo Vistoli, superbo come sempre per bellezza di timbro e colori. Lea Desandre si riconferma eccellente in questo repertorio come Amore e come Valletto.

Ben due le nutrici di quest’opera: Dominique Visse veste per l’ennesima volta i panni di Arnalta e la voce grezza che spesso sfocia nel parlato trova però un momento di grazia nell’oblivion del sonno di Poppea, reso con una dolcezza ineguagliabile; gusto e umorismo caratterizzano la Nutrice di Marcel Beekman, una felice scoperta in questo genere. Giovane ma nobilmente autorevole il Seneca di Renato Dolcini. Detto ogni bene anche degli interpreti dei ruoli minori, non ci si stupisce se dal punto di visto musicale questa Poppea raggiunge risultati eccelsi: la presenza discreta (al clavicembalo), ma determinante del sommo William Christie e della sua compagine “Les arts florissants”, qui ridotti all’essenziale, è garanzia di una resa stupefacente di timbri e colori, considerata l’esiguità dei mezzi orchestrali. I 16 strumentisti e Christie sono calati in due buche ai lati del proscenio in modo da essere visivamente separati, ma nello stesso tempo poter anche interagire con quello che avviene in scena, con divertenti siparietti.

Nel finale «Pur ti miro» suona di un’enorme tristezza: i due amanti sono distanti, esausti, quasi delusi di aver raggiunto i loro scopi, mentre tutti gli altri personaggi nel fondo  della scena dopo averli derisi li maledicono in silenzio e al rallentatore. Poi i due si avvicinano e si baciano, ma l’eros non c’è già più.

L’incoronazione di Poppea

  1. Haïm/Carsen 2008
  2. Bicket/Alden 2009
  3. Haïm/Sivadier 2012

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★★★★★

1. Un “moderno” capolavoro

Rappresentata durante il carnevale veneziano del 1643, L’incoronazione di Poppea è l’ultima opera di Claudio Monteverdi, che morirà nel novembre dello stesso anno. Dimenticata per oltre due secoli, fu riscoperta solo nel 1888. Il libretto, notevole per la forza e la vivacità con cui sono di­pinti i personaggi, è di quel Giovanni Francesco Busenello autore di quattro libretti per Francesco Cavalli, il musicista che probabilmente mise mano al finale per completare l’opera.

Il manoscritto originale della partitura de L’incoronazione di Poppea non esiste. Due copie superstiti presentano differenze significative l’una dall’altra: la prima è stata riscoperta a Venezia nel 1888, la seconda a Napoli nel 1930, quest’ultima è legata alla ripresa dell’opera in questa città nel 1651. Entrambe le partiture contengono essenzialmente la stessa musica, anche se ciascuna differisce dal libretto stampato e presenta aggiunte e omissioni uniche. In ogni partitura le linee vocali sono indicate con l’accompagnamento del basso continuo; le sezioni strumentali sono scritte in tre parti nella partitura di Venezia, in quattro parti nella versione di Napoli, senza specificare in entrambi i casi gli strumenti. Né la partitura di Venezia né quella di Napoli possono essere collegate all’esecuzione originale; sebbene la versione di Venezia sia generalmente considerata la più autentica, le produzioni moderne tendono a utilizzare materiale da entrambe.

La questione della paternità – in sostanza quanta parte della musica sia di Monteverdi – è controversa e potrebbe non essere mai del tutto risolta. Praticamente nessuna delle documentazioni contemporanee cita Monteverdi e nelle partiture sono state identificate musiche di altri compositori, tra cui alcuni passaggi presenti nella partitura de La finta pazza di Francesco Sacrati. Un particolare stile di notazione metrica utilizzato in alcuni passaggi delle partiture de L’incoronazione fa pensare al lavoro di compositori più giovani. Le aree di paternità più dibattute sono alcune parti del prologo, la musica di Ottone, la scena del flirt tra Valetto e Damigella e la scena dell’incoronazione, compreso il duetto finale «Pur ti miro».

Gli studiosi moderni propendono per l’idea che L’incoronazione sia il risultato di una collaborazione tra Monteverdi e altri, con il vecchio compositore che svolge un ruolo di guida. Tra i compositori che potrebbero aver assistito ci sono Sacrati, Benedetto Ferrari e Francesco Cavalli. L’età e la salute di Monteverdi potrebbero avergli impedito di completare l’opera senza l’aiuto di colleghi più giovani. Una specie di  bottega il cui il maestro progetta un dipinto e si occupa egli stesso dei dettagli importanti, ma lascia gli aspetti più banali agli apprendisti artisti più giovani. Ciononostante l’opera è generalmente accettata come parte del canone operistico di Monteverdi, il suo ultimo e forse più grande lavoro. E il primo di un nuovo genere, quello dell’opera a soggetto storico.

Prologo. Amore dichiara la propria sovranità sulla Fortuna e sulla Virtù nell’influenzare le sorti dell’uomo: lo spettacolo che seguirà sarà la dimostrazione di questa tesi.
Atto primo. È l’alba: Ottone si aggira sotto i balconi dell’abitazione di Poppea nella speranza di incontrarla, ma scorge due soldati di Nerone addormentati e fugge sconvolto per l’infedeltà dell’amante. Svegliatisi di soprassalto, i soldati si scambiano commenti sulla situazione precaria dell’impero e sulle vicende private di corte. Tacciono all’apparire di Poppea, che tenta di trattenere l’imperatore presso di lei. Poppea, rimasta sola, non nasconde la speranza di diventare imperatrice. Nessun giovamento trae Ottavia dal conforto filosofico propostole da Seneca che medita sull’infelicità nascosta sotto le «porpore regali» e viene visitato da Pallade, che gli annuncia la prossima fine, al che egli gioisce. Nerone comunica a Seneca la decisione di ripudiare Ottavia e ne nasce uno scontro sempre più serrato con Nerone  che accusa il maestro di «irragionevole comando». Nerone è poi raggiunto da Poppea, la quale rinfresca all’imperatore il ricordo della notte passata e, dopo averlo portato al massimo dell’eccitazione, gli fa ordinare immediatamente la morte di Seneca. Poppea si scontra con Ottone, che le rimprovera la sua infedeltà e viene poi compatito da Arnalta. Ottone è raggiunto dall’innamorata Drusilla, alla quale promette di dedicarsi, anche se commenta fra sé: «Drusilla ho in bocca, et ho Poppea nel core».
Atto secondo. Un liberto comunica al filosofo l’ordine di Nerone: Seneca avvisa serenamente i famigliari, che prorompono in un’invocazione a tre voci (“Non morir Seneca, no”). La scena successiva, come intermezzo di contrasto, presenta le schermaglie amorose del valletto e della damigella. Entra in scena Drusilla, senza assolutamente capire cosa le stia accadendo intorno. Trascinati dall’ottimismo di Drusilla, anche la nutrice e il valletto danno vita a una scena distensiva e comica. Ottone rinnova le sue promesse di fedeltà alla ragazza, chiedendole però di prestarle i suoi vestiti per compiere l’assassinio di Poppea. Drusilla sventatamente acconsente. Frattanto Poppea si affida ad Amore per coronare i suoi sogni e si addormenta nel giardino di casa. Arnalta le canta una dolcissima ninna-nanna. L’attentato di Ottone, travestito da donna, è impedito da Amore, che era sceso in terra per vegliare la sua protetta.
Atto terzo. Drusilla viene sorpresa e imprigionata in quanto presunta autrice dell’attentato. Ottone confessa di essere il colpevole su istigazione di Ottavia; Nerone capisce di avere finalmente il pretesto per ripudiare l’imperatrice e spedisce Ottone e Drusilla in esilio. Un’altra scena fra Poppea e Nerone contiene il duetto “Idolo del cor mio, giunta è pur l’ora” cui seguono un monologo di Arnalta, felice per l’ascesa sociale di Poppea (e sua) e il lamento di Ottavia. La scena dell’incoronazione vede Poppea acclamata da un coro di consoli e tribuni e da un coro celeste guidato da Venere in persona con Amore. Gli amanti intrecciano l’ultimo duetto, il seducente “Pur ti miro”.

L’immoralità qui sembra essere premiata. La relazione adultera di Ne­rone e Poppea trionfa alla fine, in totale contrasto con i finali di tutte le al­tre opere in cui il bene ha la meglio sul male. Si può ravvisare quasi un ama­ro commento del potere aristocratico. (Nel 1643, tra l’altro, in Francia Luigi XIV saliva al tro­no all’età di cinque anni.) A parte Seneca, tutti gli altri personag­gi sono parimenti moralmente compromessi.

In questa visione pessimistica, se non addirittura cinica del­la vita (si sente sotto sotto Il Principe del Machiavelli) solo mo­tore della vicenda è la folle passione tra i due protagonisti principali, come ben evidenziato dalla regia di Carsen che a prologo della rappresentazione fa svolgere in platea il diverbio tra Virtù e Fortuna interrotto da un Eros trionfante e motore dell’azione che fa alzare il sipario, accende le luci e dà il via all’opera. Si trat­ta del­la registrazione dello spettacolo proposto al festival di Glyndebourne nel 2008.

La fulva Emmanuelle Haïm dirige al clavicembalo e all’or­gano con molta partecipazione al dramma l’Orchestra of the Age of the Enlightenment con i suoi bellissimi strumenti originali.

In scena interpreti di primissimo livello. Sensuale e bravissima Danielle de Niese  la quale l’anno dopo il suo debutto come Cleopatra nel Giulio Cesare di Händel, sempre qui a Glyndebourne, si conferma eccellente cantante e otti­ma attrice nel suo cinico ruolo di arrampicatrice sociale, ma già presaga di una tragica fine. Il ruolo di Nerone è affidato al bravissimo mez­zosoprano Alice Coote, che svela bagliori sinistri di malvagità e follia nella forte scena della crudele e gratuita uccisione di Luca­no. La vendica­trice Ottavia ripu­diata ha la bella voce e presenza di Tamara Mumford. L’i­taliano Paolo Batta­glia interpreta la nobi­le figura di Seneca (bella e com­movente la sua morte tra i li­bri) mentre Wolfgang Ablinger-Sperrhacke dà un tono di diver­tente assurdità al suo ruolo en travesti di Arnalta così come an­che la nutrice di Dominique Visse. Molto buoni anche gli altri in­terpreti.

La scena è vuota e dominata dal simbolico colore rosso por­pora. Car­sen dà piena giustificazione delle sue scelte negli extra e nell’opuscolo ac­cluso al disco. Mai come in questa sua messa in scena lo scavo psicologico sui personaggi è stato così attento. Tre ore e più di spettacolo che si vorrebbe non finisse mai.

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★★★★★

2. Monteverdi e il teatro di David Alden

La storia dell’allestimento de L’incoronazione di Poppea è la storia della rappresentazione dell’opera barocca in epoca moderna. Dei tre lavori monteverdiani rimastici è quello più “popolare”, assieme a L’Orfeo. Nella prima parte del XX secolo è messo in scena in una solennità seriosa e in un nobile immobilismo che contraddice la scrittura musicale e testuale dell’opera. Vero è però che tale lettura andava pari passo con le riscritture dei musicisti e musicologi del tempo: Carl Orff in Germania, Vincent d’Indy in Francia, Gian Francesco Malipiero e Ottorino Respighi in Italia, i quali a gara cercavano di rendere romantica oppure neo-classica una dimensione musicale ritenuta incompatibile col gusto novecentesco.

Le cose cambiano negli anni ’60 del secolo scorso quando si inizia a utilizzare un approccio metodologico moderno per opere di trecento anni prima: analisi delle fonti, uso di strumenti originali, ricostruzione della prassi esecutiva e una diversa impostazione vocale per i cantanti e un nuovo modo di mettere in scena da parte di registi che hanno «liberato l’enorme potenziale narrativo prima ingessato in parrucche, strascichi, pennacchi e trovarobato vario: e hanno reso teatro pienamente moderno quello barocco, sfruttando finalmente appieno la completa libertà inventiva con cui esso consente di esplorare un’amplissima pluralità di tipologie psicologiche, tutte perfettamente sovrapponibili a quelle che pulsano nel nostro quotidiano». (Elvio Giudici)

Le pionieristiche incisioni di Nikolaus Harnoncourt e le loro messe in scene di Jean-Pierre Ponnelle a Zurigo con un’orchestra, “La scintilla”, appositamente fondata, vennero accolte con entusiasmo dalla critica tedesca e con «spocchioso dileggio» dalla critica italiana. Da allora la situazione è solo in parte mutata e le rappresentazioni più innovative vengono nella totalità da oltralpe, con interpreti di lingua non italiana…

Le edizioni video del lavoro di Monteverdi ammontano a un discreto numero: dopo Harnoncourt/Ponnelle ricordiamo quelle di Leppar/Hall, Jacobs/Hampe, Rousset/Audi, Minkowski/Grüber, tutte prima del 2000 e nessuna di particolare rilevanza. È negli ultimi anni invece che troviamo allestimenti più interessanti: da quello Haïm/Carsen (2008) a quello De Marchi/Tandberg (2010) al più recente Haïm/Sivadier del 2012.

Del 2009 è questo intrigante spettacolo di David Alden al Gran Teatre del Liceu. Ancora una volta sono le parole di Elvio Giudici a descriverlo al meglio: «Il sacrosanto punto di partenza di Alden è il tentare di declinare nel nostro contemporaneo lo spirito – caustico, cinico, ambiguo, caricaturale, sovversivo, quasi nichilistico – che animava l’Accademia degli Incogniti di cui Busanello era tra le figure di maggior spicco. Quello spirito che faceva della caustica ironia la propria arma maggiore: scegliendo senza remore una vicenda scopertamente amorale, centrata su un inestricabile groviglio di intrigo politicpo ed erotico. Dove i magistri vitae sono supremo esempio d’opportunismo che però non serve, giacché vengono ammazzati tra canti e danze; le cortigiane scalzano le mogli, che peraltro tutto sono fuorché virtuose; e dove alla cortigianeria – quando non addirittura al servilismo più abbietto – vengono elevati inni di gioia sfrenata. […] Con lo spettacolo di Alden, per la prima volta esplodeva nella Poppea tutta la sua intrinseca violenza (e le molteplici sue possibilità espressive) l’ambiguità: sessuale, sentimentale, politica, speculativa. La miccia per tale esplosione sta nel premere a fondo il pedale dell’ironia più corrosiva, così che una tinta comica si stende sull’intera narrazione in luogo del suo circoscrivere ai personaggi più specificamentre farseschi come Arnalta, Nutrice e, per lo meno sul piano dell’ilare sensualità, Valletto e Damigella. Comicità, pertanto, legata a filo doppio con la tragedia: che in tal modo nient’affatto si sminuisce bensì – shakespearianamente – s’esalta nel suo diventare cosa nostra, banalmente quotidiana e riguardante di conseguenza tutti, qui e ora. Colori violentissimi dominano l’intero spettacolo, che Buki Shiff assembla nei costumi e nel ciclorama di fondo in marcato contrasto reciproco, dal verde acido al rosso fragola, dal giallo limone al blu elettrico, tutti riflessi in cangianti tremolii sul lucido palcoscenico. La prima immagine è il primissimo piano d’un largo divano di pelle color rosso fiamma, motivo conduttore scenico destinato a riflettere le diverse sfumature caratteriali dei personaggi. Vi colloquiano – articolando una slapstick comedy degna dei migliori esempi hollywoodiani – la matura signora Virtù in stampelle e collare, e la segaligna signorina Fortuna dalla testa calva lunghissima e con vezzoso ombrellino». Su quel divano, che si trasforma all’occasione in letto, troveremo i due pretoriani, poi Nerone e Poppea, poi Ottone e Drusilla, ma anche Ottavia, e Seneca con sigaro e bicchiere di scotch.

Diretto magnificamente da Harry Bicket il cast di tutto riguardo: Miah Persson è una Poppea magnifica cantante e magnifica attrice; Sarah Connolly, ancora una volta en travesti, è un Nerone formidabile e del tutto credibile; Ottavia intensa e vocalmente sontuosa quella di Maite Beaumont; il bravo controtenore Jordi Domènech è Ottone e Ruth Rosique una perfetta Drusilla; Valletto indimenticabile quello di William Berger mentre Seneca ha le fattezze e la voce profonda di Franz-Joseph Selig. Anche nei ruoli di fianco ci sono ottimi artisti come Judith van Wanroij (Damigella) e Guy de Mey (Lucano). Una menzione a parte per Dominique Visse (Arnalta e Nutrice) che si conferma grande caratteristica, ma che nel suo «Oblivion soave» tocca corde di inusitata dolcezza e intensità.

Eccellente la regia video di Xavi Bové.

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★★★☆☆

3. Raffazzonato, didascalico, camp

Questi sono i tre aggettivi con cui si può definire l’allestimento di Jean-François Sivadier de L’incoronazione di Poppea di Monteverdi nel 2012 all’Opéra de Lille. Nella contradditorietà di questi termini sta il limite di questo spettacolo.

La recita del 22 marzo viene registrata in maniera piuttosto improvvisata e ora è disponibile su DVD. Il sipario è già sollevato quando il pubblico prende posto mentre arrivano alla spicciolata sul palcoscenico gli interpreti come a una festa in abiti moderni. Saluti e ammiccamenti verso la platea, il solito cicaleccio, poi uno degli ospiti scende nella buca dell’orchestra e attacca la sinfonia: è Emmanuelle Haïm, la stessa della produzione di Glyndebourne, ma qui alla testa del Concert d’Astrée. Poi scende un sipario rosso e Ottone canta i suoi ritornelli in lode dell’amata, anche se presto scopre che «in grembo di Poppea dorme Nerone». Il quale Nerone qui ricorda un po’ il personaggio di Malcom McDowell in Arancia Meccanica, il film di Kubrick: parrucca bionda, trucco pesante, luccicanti pagliuzze d’oro sul viso, smalto alle unghie. E la stessa gratuita e casuale crudeltà, qui però non esplicitamente dimostrata. Calato nella parte è Max Emmanuel Cenčić che affronta vocalmente un ruolo impervio e i suoi vocalizzi hanno un che di isterico del tutto coerente con il personaggio. Da antologia è la sua prestazione nella scena sesta del secondo atto allorquando duetta con Lucano dopo la morte di Seneca.

Sonya Yoncheva è una Poppea dalla vocalità preziosa e dalla figura oltremodo seducente. Le sue agilità e la voluttà che esprime negli incontri con l’imperatore sono generose quanto lo è suo il décolleté. In questa messa in scena il ritornello che tesse con Nerone («Pur ti miro, pur ti godo») è preceduto da un’inopportuna interruzione in cui una voce recitante ci informa dei fatti storici realmente avvenuti e della triste fine dell’amata, morta per un calcio al ventre da parte dello psicotico consorte mentre era incinta del suo secondo figlio.

Vera matrona, nell’imponenza della presenza scenica e nella voce, è l’Ottavia di Ann Hallenberg, anche lei destinata a triste sorte dal marito che l’ha ripudiata. Il suo «Addio Roma» ha l’intensità del lamento di Arianna, unico resto della perduta opera del divino Claudio.

Vocalmente pregevole come sempre è l’Ottone di Tim Mead e autorevole, seppure troppo giovane e anche un po’ leggero, il Seneca di Paul Whelan. Sopra le righe le parti en travesti di Arnalta, Emiliano Gonzalez-Toro, e soprattutto della Nutrice, Rachid Ben Abdeslam. Sensibile la Drusilla di Amel Brahim-Djelloul ed efficace Khatouna Gadelia come Amore e poi come vivace Valletto.

Con grandi tagli la direzione spedita della Haïm, con improvvisazioni al clavicembalo o al regale, porta la durata sotto le tre ore.

La Didone

★★★★☆

Opera ben ancorata all’insegnamento monteverdiano

Francesco Caletti detto Cavalli aveva iniziato a scrivere per il teatro nel 1639, a 37 anni, dopo una carriera musicale dapprima come tenore e successivamente come organista. La Didone (1641) è la terza delle sue 39 opere, delle quali una dozzina sono andate perdute. Il libretto del Busenello si basa ovviamente sul quarto libro dell’Eneide, ma un lieto fine rimpiazza il suicidio della regina cartaginese. Lo giustifica così il librettista: «Nel primo atto arde Troia, e Enea, così comandato dalla madre Venere scampa quegli incendi, e quelle ruvine. Nel secondo egli naviga il Mediterraneo, e arriva ai lidi cartaginesi. Nel terzo ammonito da Giove abbandona Didone. E perché secondo le buone dottrine è lecito ai poeti non solo alterare le favole, ma le istorie ancora: Didone prende per marito Iarba. E se fu anacronismo famoso in Virgilio, che Didone non per Sicheo suo marito, ma per Enea perdesse la vita, potranno tollerare i grandi ingegni, che qui segua un matrimonio diverso e dalle favole, e dalle istorie. Chi scrive soddisfa al genio, e per schifare il fine tragico della morte di Didone si è introdotto l’accasamento predetto con Iarba. Qui non occorre rammemorare agl’uomini intendenti come i poeti migliori abbiano rappresentate le cose a modo loro, sono aperti i libri, e non è forestiera in questo mondo la erudizione. Vivete felici».

Un’approfondita analisi dell’opera si può trovare nel programma di sala del Teatro La Fenice che ha allestito La Didone nel 2006. Come la maggior parte dei suoi programmi si trova on line qui.

Il verboso libretto è opportunamente sforbiciato di un buon 40% in questa edizione del 2011 del Théâtre des Champs-Élysées diretta da William Christie e messa in scena da Clément Hervieu-Léger della Comédie-Française, ma qui imprestato al teatro di Caen. Ciò ci ricorda che l’opera a quell’epoca non era solo il trastullo di un dopocena, ma l’evento di un’intera giornata per cui poteva durare moltissimo. Con questo allestimento si superano comunque abbondantemente le tre ore. Questo è anche il primo approccio de Les Arts Florissants a un’opera di Cavalli. Con le scarne notazioni musicali rimaste, Christie compie un notevole lavoro di riscrittura dell’orchestrazione, rispettando le intenzioni dell’epoca, con una smilza compagine di strumenti originali, per lo più ad arco (che però un po’ si perdono nella vastità del moderno teatro) e un continuo al clavicembalo elegante e discreto che lascia ampio spazio alla bellezza del testo cantato.

I personaggi dell’opera di Cavalli sono numerosi, ma tre sono quelli principali e tutti di ottimo livello, soprattutto il seducente Enea di Krešimir Špicer, lirico, intenso e dalla perfetta dizione. Un po’ manierata è invece l’interpretazione di Anna Bonitatibus come Didone e convincente nella sua tormentata passione e successiva pazzia lo Iarba del controtenore Xavier Sabata.

Ex collaboratore di Chéreau, Hervieu-Léger compie un abile lavoro di regia sui personaggi e sull’ambientazione che passa dalle rovine fumanti di Troia alla soleggiata Cartagine. In scena anche particolari intriganti come la carcassa del cervo al primo atto, simbolo della morte della città, che ritroviamo nel terzo atto quale segno dell’abbandono di Didone.

Nessun extra se non una galleria dei personaggi. Assenza di sottotitoli in italiano, la lingua dell’opera. E questo la dice lunga sulla considerazione del mercato italiano cui sarebbe naturalmente destinato un prodotto come questo. O tempora…