Der Kaiser von Atlantis

Viktor Ullmann, Der Kaiser von Atlantis (L’Imperatore di Atlantide)

★★★★☆

Düsseldorf, Opernhaus, 16 ottobre 2020

(video streaming)

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L’arte come resistenza e volontà di vivere

Per uno strano caso, a distanza di pochi giorni la Germania – il paese che continua a fare i conti con il suo passato – mette in scena due lavori di compositori che sono stati perseguitati dal Nazismo: a Monaco di Baviera la Bayerische Staatsoper Die Vögel (Gli uccelli) di Walter Braunfels, a Düsseldorf la Deutsche Oper am Rhein Der Kaiser von Atlantis oder Die Tod-Verweigerung (L’imperatore di Atlantide o La negazione della morte) di Viktor Ullmann, due parabole che non potevano non fare riferimento alla tremenda realtà del loro tempo.

Che valore hanno la vita e la morte in un mondo in cui le persone sono state private della loro dignità? Questa è la domanda attorno alla quale ruota l’opera di Ullmann composta nel 1943-44 per un ensemble di solisti di prim’ordine tra gli orrori quotidiani del lager di Terezín in cui erano rinchiusi il compositore e il librettista Peter Kien. Il campo di concentramento ceco era stato scelto dalla propaganda nazista come modello per mascherare le atrocità e gli orrori dei campi di sterminio: qui si giravano film di vita apparentemente idilliaca, vi erano dei caffè, vi venivano allestiti concerti e rappresentazioni teatrali (1). La partitura di Ullmann è sopravvissuta quale testimonianza di appassionata resistenza artistica contro un regime inumano.

L’opera racconta la storia del paranoico imperatore Totalitario (Overall) che fa la guerra con una tale passione che persino la Morte decide di prendere posizione contro di lui. Trattenuta dalla silenziosa accettazione delle masse, la roccaforte del sistema dell’ingiustizia imperiale perde il suo potere nel momento in cui la Morte si dimette dai suoi doveri. L’immunità alla morte di cui parla la vicenda doveva suonare crudelmente sarcastica nel lager di Terezín, luogo di morte per 140 mila persone.

Di fronte alla morte meccanizzata su scala industriale presieduta dall’Imperatore di Atlantide, Arlecchino e Morte – «la vita che non può più ridere e la morte che non può più piangere» – si riducono a osservatori di un mondo «che ha dimenticato come dilettarsi nella vita e morire di morte». Quando l’Imperatore dichiara una guerra di tutti contro tutti, la Morte sente di essere stata derubata di ogni dignità e rifiuta di servire ancora l’Imperatore. Se la morte perde il suo orrore, tutto perde senso: che potere ha un despota assassino se nessuno nel suo impero può più morire? Non si possono eseguire esecuzioni, i soldati si dimostrano incapaci di uccidersi a vicenda e ben presto l’intero Paese viene sopraffatto dalle aspre proteste dei morti viventi contro l’immortalità che è stata loro imposta. La Morte si offre di porre fine al suo sciopero se l’Imperatore accetta di sacrificarsi «come il primo a subire questa nuova morte«. L’Imperatore allora dà l’estremo saluto e segue la Morte.

Unica opera che conosciamo essere stata composta nella deprivazione e nell’orrore di un campo di concentramento nazista, si è tentati di innalzare L’imperatore di Atlantide a memoriale di fronte all’oppressione e all’annientamento, fulgido esempio di coraggio e volontà creativa nelle circostanze più disastrose. Ma anche se merita un riconoscimento per la sua posizione unica nel repertorio operistico, questo non deve oscurare la sua specificità e il suo valore artistico intrinseco. Il suo interesse drammatico e musicale trascende le condizioni della sua creazione.

Ciò che non era loro possibile nella vita reale, Ullmann e Kien sono stati in grado di trasporre in arte. La loro espressione artistica è stata un mezzo di resistenza per riaffermare la loro dignità umana e volontà di vivere. Attraverso di essa hanno dimostrato di appartenere alla tradizione culturale europea da cui i nazisti li hanno così brutalmente strappati: in questo lavoro della durata di appena un’ora Ullmann non solo fa riferimento alle influenze della sua contemporaneità, da Schönberg ai balli alla moda degli anni ’20 e ’30, ma include anche criptiche citazioni musicali come il corale di Bach Ein’ feste Burg ist unser Gott e l’inno nazionale tedesco. Di questi temi popolari accostati a passaggi atonali e reminiscenze mahleriane, Axel Kober e i Düsseldorfer Symphoniker offrono una lucida lettura e rendono organico un lavoro frammentario che non ha conosciuto una versione definitiva.

Nella messa in scena di Ilaria Lanzino, Arlecchino (la vita) e la Morte sono legati da un filo – tutta la scenografia di Emine Güner, che disegna anche i costumi, è fatta di fili tesi, come in un lavoro costruttivista di Naum Gabo o un disegno prospettico tridimensionale, che definiscono gli spazi – e la Morte stancamente spegne la fiammella accesa ripetutamente da Arlecchino, qui uno stracciato Pierrot che inneggia alla luna esprimendosi in un quasi Sprechgesang non molto lontano dal Pierrot Lunaire. Quello di Schönberg non è l’unico influsso sulla musica di Ullmann, anche Kurt Weill è presente con i suoi suoni lividi e le marcette.

Diverse fonti ispirano i costumi dei personaggi in scena: l’Imperatore è tutto dipinto d’oro, non ha i baffetti ma nei video che passano dietro di lui il suo atteggiamento ricorda quello di un certo imbianchino di Braunau; l’Altoparlante ha sul petto una spirale come quella dell’Ubu disegnato da Jarry, ma qui luminosa, mentre trucchi antirealistici e parrucche rigide contraddistinguono il Soldato, la Ragazza e il Tamburino, gli altri personaggi di questo atto unico.

Dei sette interpreti sono da ricordare almeno le belle prove del baritono Emmett O’Hanlon (Imperatore), del basso Luke Stoker (Morte) e del tenore David Fischer (Arlecchino).

(1) Nel suo straziante libro del 1963 Il Requiem di Terezín lo scrittore Josef Bor racconta la vicenda dell’esecuzione del Requiem di Verdi con un coro e un’orchestra formati da deportati, tutti consapevoli di essere destinati presto alla morte. Tra il pubblico, oltre ai prigionieri, c’erano alti gradi nazisti tra cui Adolf Eichmann in persona.