Parsifal

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Foto © Wiener Staatsoper/Michael Pöhn

Richard Wagner, Parsifal

★★★★★

Vienna, Staatsoper, 18 aprile 2021

(video streaming)

bandiera francese.jpg Ici la version française

Parsifal da una casa di morti

Sembra che a un certo punto della sua vita Wagner avesse pensato a una trilogia centrata sulle figure di Lohengrin, Parsifal e Cristo. Complementare alla tetralogia dedicata al mito nibelungico, questa trilogia avrebbe sviluppato il tema del passaggio dal mito alla religione. Come sappiamo il compositore concretizzò solo la parte destinata a Lohengrin, soggetto della sua opera “giovanile”, e a Parsifal, cui fu dedicata l’opera che concludeva la sua carriera artistica e umana.

Con il Parsifal il musicista accoglieva dunque il personaggio di Perceval/Parzival dei poemi di Troyes e di Eschenbach per trasferire in ambito cristiano la leggenda celtica e pagana in cui centrale era la sacralità della natura, solo in parte ripresa nel lavoro di Wagner nell’episodio dell’uccisione del cigno – visto come animale sacro e inviolabile in quanto simbolo degli stati superiori dell’essere umano e quindi una sorta di creatura celeste – e nel racconto di Gurnemanz della rinascita della primavera nel giorno di Venerdì Santo: «das merkt nun Halm und Blume auf den Auen, | dass heut des Menschen Fuss sie nicht zertritt» (di questo ora s’avvedon stelo e fiore sui prati: che non li calpesta, oggi, piede di uomo).

Ma Parsifal è soprattutto centrato sul concetto della redenzione (Erlösung), tema che ossessionava il compositore che si reputava un grande peccatore e che odiava la sensualità a cui opponeva la castità. Quello della redenzione è un tema presente in quasi tutti i suoi drammi, ma in questo suo ultimo lavoro è primario assieme a quello della sofferenza, incarnato dalla figura di Amfortas.

Ma che cosa ha da dire oggi a noi questa “azione scenica sacra” che mescola cristianesimo, paganesimo e filosofie varie? La drammaturgia contemporanea cerca sovente significati alternativi a quelli che non sente più attuali, in parole povere, ci si inventa di tutto pur di sfuggire a un’ambigua visione pseudo-cristiana come quella del Parsifal.

Ed è ciò che avviene sul palcoscenico della Staatsoper di Vienna in questo nuovo allestimento di Kirill Serebrennikov che firma regia e scene. È la produzione che rimpiazza quella di Hermanis del 2017 ambientata nello Steinhof viennese, là orripilante ospedale psichiatrico. Qui le note cariche di tensione del preludio si dipanano sull’immagine di un campo di prigionia realisticamente ricostruito: nella drammaturgia di Sergio Morabito la foresta di Monsalvat non racchiude cavalieri, ma anime perse (morte direbbe Dostoevskij) al di qua e al di là delle sbarre.

Kirill Serebrennikov è un artista dissidente russo che nel 2017 ha subito il carcere in seguito a una condanna per presunta appropriazione indebita che a molti è sembrata volesse celare una condanna politica per la sua critica antigovernativa. La persecuzione da parte delle potenze statali russe non gli ha impedito di svolgere la sua attività, ma non è stato autorizzato a lasciare il paese e ha dovuto utilizzare strumenti digitali e assistenti che lavorano sul posto per questa produzione, allestendo lo spettacolo da remoto, dalla lontana Russia. Così era nato anche il Così fan tutte di Zurigo del 2018 e ora Parsifal, non a caso letto come un’opera di liberazione: la redenzione invocata nel testo è la liberazione tout court. In tedesco lösen, che troviamo in Erlösung (redenzione) significa liberare e lo scoprimento del Graal nel finale consiste nell’apertura delle celle e del portone del carcere per lasciar uscire i prigionieri. Non si può dire che il tema non sia quanto meno di attualità oggi quando le voci di Alexei Navalnij e di tanti altri dissidenti, in Russia come in Turchia e altrove, sono messe a tacere con la detenzione in carcere se non con la morte.

Nella lettura di Serebrennikov tutta la stucchevole liturgia dell’opera, tanto criticata da Nietzsche, semplicemente sparisce, sostituita da un gioco drammaturgico di grande intensità tra gli esemplari umani racchiusi in questa moderna colonia penale dove sono all’ordine del giorno maltrattamenti e risse sotto lo sguardo indifferente di guardie corrotte.

In alto tre schermi rimandano immagini in bianco e nero di particolari degli internati, della loro vita, dei loro tatuaggi. O ci mostrano un giovane Parsifal che si aggira tra le rovine innevate di un monastero. Il personaggio eponimo è infatti sdoppiato: durante il preludio, una foto di grandi dimensioni di Parsifal (Jonas Kaufmann) occupa lo schermo in alto. A poco a poco l’immagine viene ingrandita fino a quando rimangono solo gli occhi. Poi lo zooming torna indietro e  appare un altro uomo, più giovane. Il Parsifal “anziano” ha perso fiducia nella sua capacità di redenzione e ripensa al suo passato rivivendo sé stesso in un giovane interpretato dall’attore russo Nicolaij Sidorenko. Qui la maturità, là la giovinezza; qui pausa e retrospettività, là l’impetuoso, proverbiale camminare sui cadaveri: il giovane si unisce a questa società tutta al maschile e commette un omicidio appena arrivato in prigione quando con una lametta tra i denti taglia la gola del prigioniero che gli si è avvicinato nella doccia comune, un efebico albino con ali di cigno tatuate sulla schiena…

Gurnemanz ha un ruolo di rilievo nel carcere, di mediatore tra i reclusi e le guardie, e oltre alla sua attività di raccontare storie si occupa anche dei tatuaggi le cui immagini più richieste sono una lancia che perfora la pelle, una croce, un calice. Non è peregrino il riferimento alla macchina della Colonia penale di Kafka.

Amfortas è uno di loro e, come se non bastasse la ferita che non si rimargina mai, se ne procura altre nel tentativo vano di togliersi la vita. E poi c’è Kundry, una giornalista fotografa in visita al carcere che non sembra tanto interessata alle condizioni igienico-sanitarie del luogo, quanto alla fisicità dei reclusi. Infatti la vediamo nel secondo atto, quello del castello di Klingsor, dirigere “Schloss”, una rivista di life style dove lavorano solo donne, le “fanciulle incantatrici”, in cerca di modelli maschili.

Nel finale anche Kundry e Amfortas si trascinano allo scoperto e con loro tutti gli altri; persino il “cigno”, il giovane compagno di prigionia ammazzato, si risveglia a nuova vita per godere della libertà. Il palcoscenico è vuoto, Parsifal (quello anziano) rimane solo e si siede sui gradini, il viso coperto tra le mani. Era tutto solo un ricordo? «Dies alles – hab’ ich nun geträumt?» (Tutto questo l’ho dunque sognato?) si era chiesto nel secondo atto.

Serebrennikov ha pensato a farsi strada nella testa di Parsifal per lasciare che le sue esperienze e i suoi ricordi si trasformassero in una serie di immagini dinamiche in una sorta di realismo fantastico. Tuttavia, questa polifonia scenica non è solo di impatto visivo: qui è stato progettato un dramma in cui la sofferenza e la compassione si incontrano e dove l’empatia umana non ha bisogno di alcuna motivazione religiosa per essere efficace.

Non tutto è chiaramente condivisibile nella sua lettura, ma Serebrennikov riesce a creare un’atmosfera di grande intensità, evocando immagini talora inquietanti – si vede, tra le altre cose, un prigioniero che, come l’artista performer russo Petr Pavlenskij, si cuce la bocca – che acquistano rilevanza drammaturgica in contrasto con l’ipnotica e solenne musica concepita da Wagner, una magia narcotica magnificamente realizzata dalla direzione di Philippe Jordan che, in contrasto con la crudezza che si vede in palcoscenico, elegantissimo in una impeccabile marsina, dirige un’orchestra che il Parsifal potrebbe suonarlo a occhi chiusi. I suoni hanno un impasto e una ricchezza di colori di impatto grandioso, i tempi scelti dal direttore svizzero solenni e drammatici allo stesso tempo, piene di tensione le pause.

Determinante per l’efficacia del messaggio trasmesso è la recitazione degli interpreti, qui sommi. Il nome Parsifal nella lingua araba (Wagner lo indica come nativo dell’Arabia) ha un connotato di purezza che né il tedesco “reine Tor” né l’italiano “puro folle” rendono con precisione. L’indole del personaggio è meglio espressa dal francese “pure naïf”, una semplicità di carattere che contrasta coi tormentati personaggi con cui si deve confrontare. Dopo Monaco, con la produzione Audi/Petrenko, Jonas Kaufmann ritorna a incarnare il personaggio e lo fa con la maturità della sua vocalità. Il personaggio ripiegato su sé stesso ha perso ogni eroismo e con le mezze voci il cantante conferma la pienezza di un’interpretazione a suo modo insuperabile.

È difficile credere che per Elīna Garanča sia un debutto quello come Kundry, tanta è l’intensità e la bellezza vocale, magistrale nel racconto della madre di Parsifal nel secondo atto. Dopo un primo atto in un dimesso trench beige e un secondo atto da Il diavolo veste Prada, diventata un’assassina la ritroviamo distrutta prigioniera nel terzo atto. Con una recitazione da premio Oscar il mezzosoprano lettone firma una delle sue più grandiose interpretazioni. Wolfgang Koch ritorna come Klingsor, qui un disgustoso Harvey Weinstein, e Ludovic Tézier è un dolente Amfortas vocalmente impeccabile. Parola scolpita ed espressiva è quella di Georg Zeppenfeld, Gurnemanz.

Assolutamente magnifica la ripresa video con i lenti movimenti della telecamera. In conclusione uno spettacolo memorabile da non perdere.

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