Orgía

foto © David Ruano – Gran Teatre del Liceu

Héctor Parra, Orgía

Barcellona, Gran Teatro del Liceu, 13 aprile

Maurizio Rebaudengo è stato a Barcellona per questa opera contemporanea.
Ecco la sua recensione.

Dare voce all’enigma della carne

Al Gran Teatre del Liceu di Barcellona va in scena Orgía del compositore catalano Héctor Parra, opera per tre voci (baritono [Uomo], soprano [Donna] e soprano [Ragazza]) ed orchestra da camera, libretto di Calixto Bieito, tratto dall’omonima tragedia in un prologo e sei episodi di Pier Paolo Pasolini, che fu rappresentata per la prima volta al Deposito d’Arte Presente di Torino il 27 novembre 1968, per la regìa dello stesso autore, la struttura scenica e simboli di Mario Ceroli e le musiche di Ennio Morricone, con l’interpretazione di Laura Betti (Donna), Luigi Mezzanotte (Uomo) e Nelide Giammarco (Ragazza).

L’attuale versione operistica è curata per la conduzione musicale da Pierre Bleuse, da poco (settembre 2023) subentrato a Matthias Pintscher per un mandato quadriennale alla conduzione del prestigioso Ensemble InterContemporain, fondato nel 1976 da Pierre Boulez. La regìa, le scene, i costumi sono di Calixto Bieito. Si tratta di una coproduzione tra il teatro di Barcellona, il Festival Castell de Peralada e il Teatro Arriaga Antzokia di Bilbao, dove ha avuto la sua prima il 22 giugno 2023, con il ruolo dell’Uomo affidato al britannico Leigh Melrose.

A testimoniare il valore della composizione, è giusto ricordare come il progetto abbia ricevuto nel 2021 il premio per artista residente presso Villa Medici/Accademia di Francia a Roma, dove il compositore ha soggiornato tra il settembre del 2021 e l’agosto del 2022, potendo così studiare la “lingua del corpo”, espressa plasticamente nelle sculture ellenistiche custodite nei musei capitolini, ispirandosene per trasferire nella scansione sia musicale sia vocale della partitura le sinuosità emotive degli ucronici corpi marmorei antichi.

Per comprendere meglio eventuali variazioni dal testo pasoliniano al libretto, occorre ripercorrere la trama originale, almeno nelle sue linee essenziali.

Nel Prologo, l’Uomo, post mortem, con un flash-back introduce gli spettatori alla vicenda a cui stanno per assistere, un percorso di progressiva consapevolezza della propria diversità, incompatibile con l’omologazione borghese – che nel corso del testo verrà definita come «abitudine alla morte». Nei sei episodi successivi, l’Uomo e la Donna, marito e moglie, la domenica di Pasqua (Episodio I) in procinto di consumare pratiche sadomasochistiche, rievocano le rispettive origini (lei da modesta famiglia di campagna; lui da una famiglia piccolo-borghese di provincia, con un padre tirannico e una madre succube). L’Uomo lega la Donna mani e piedi (Episodio II), perché le anticipa di volerla umiliare totalmente fino ad ucciderla, cominciando a percuoterla. L’alba successiva (Episodio III), la Donna e l’Uomo si ricompongono, nostalgici di un passato in cui l’umanità non era ancora alienata: la violenza sadomaso è per loro strumento per tornare alle origini della civiltà incorrotta. Addormentatosi l’Uomo, dopo essersi fatto il segno della Croce (episodio IV), la Donna, incinta, è in preda al delirio: rimpiange i corpi maschili da cui avrebbe voluto essere posseduta, senza potersi concedere, perché costretta dai vincoli borghesi. Preso un coltello in cucina, uccide i due figli, per poi suicidarsi. Qualche mese dopo, in autunno (Episodio V), l’Uomo porta a casa la Ragazza, su cui sfoga il proprio sadismo, minacciandola di morte e percuotendola, ma è colpito da un infarto, permettendo così alla Ragazza di fuggire. Una volta rinvenuto (Episodio VI), l’Uomo si spoglia dei suoi abiti borghesi per indossare gli indumenti lasciati dalla Ragazza, prendendo manifesta coscienza della sua diversità, impiccandosi.

Il libretto riproduce (in italiano) la tragedia pasoliniana rispettandone l’intreccio, ma eliminando quanto di ripetitivo – se non ridondante – è diffusamente presente, per lasciare spazio alla musica e alla parola cantata. Il regista allestisce un ambiente concentrazionario, che condensi l’estetica medio (se non piccolo)-borghese degli anni ‘60: pareti incolori (ravvivate solo dalle luci di Michael Bauer) contengono ai due lati del palco i letti che rappresentano le camere da letto (a sinistra dello spettatore quello matrimoniale, a destra il letto a castello), ciascuna con un televisore (lo strumento dell’appiattimento critico e dell’omologazione consumistica per eccellenza), una dispensa a sinistra e una petineuse a destra; al centro in successione, partendo dal boccascena, due divani e un tavolino in mezzo; la tavola da pranzo con sei sedie e, in fondo, una credenza.

Per evidenziare il valore polemico del testo verso l’ipocrisia della società borghese, Bieito introduce tre fondamentali elementi interpretativi: nel Prologo, l’Uomo non è ancora morto, ma canta appeso, vestito da donna, violentemente scosso dalle convulsioni dell’agonia; la Donna uccide simbolicamente i due figli, pugnalando un loro peluche sul letto a castello; nel Finale, la Ragazza, rientrata silenziosamente in scena vestita da mistress (corpetto e stivaloni alti neri), allestisce con grazia la tavola, a cui si seggono l’una di fronte all’altro la Donna e l’Uomo, abbigliati in modo identico (un top di lamè argento e una gonna a palloncino nera): brindano, fissandosi negli occhi, prima che il sipario cali.

La nuova composizione riesce ad esprimere la continua tensione del testo (1) tra squarci lirici, esasperazione emotiva e il grado zero della riflessione. Il Prologo, breve ed intenso, comincia con accordi di grande impatto timbrico e si sviluppa strumentalmente con una gran ricchezza cromatica, specialmente grazie all’uso delle percussioni e dei legni (in particolare dell’oboe). I glissando dell’arpa contribuiscono a creare una atmosfera onirica, mentre il baritono combina parti cantate a parti parlate, in una scena movimentata dalle indicazioni agogiche. I contrasti tra le esitazioni della Donna e la risolutezza dell’Uomo sono espressi ritmicamente, grazie ad una alternanza di crome (lei) e semicrome (lui). La nostalgica rievocazione di un passato arcadicamente mitizzato è resa con l’intervento dell’arciliuto e il ricorso al falsetto nella voce dell’Uomo (rifacendosi alle origini dell’opera). Il confronto sadomaso è reso dall’orchestra con una progressione inquietante in “agitato angoscioso”, prima del canto dei personaggi, accompagnato sempre da una musica violenta, con una linea vocale ‘strappata’, che combina (almeno per l’Uomo) passi cantati – occasionalmente in falsetto – a parti parlate. Nel monologo sulla Madre (Episodio III) a contrasto con l’episodio precedente il canto della Donna è accompagnato dal flauto (coloratura con semicrome legate); la parola «colpa» alla fine dell’intervento dell’Uomo (segnato con “quasi rituale”) è tenera e supplicante, mentre quello della Donna “quasi una sarabanda” con accompagnamento dell’arciliuto. Il canto della Ragazza è leggero, in contrasto con la gravità dell’Uomo e l’episodio è contraddistinto da una particolare violenza orchestrale. L’opera si conclude con un lungo monologo dell’Uomo, con un passaggio inquietante, di grandi contrasti ritmici e una linea di canto che usa salti di intervalli per sottolineare il delirio del personaggio.

La difficoltà nel trasporre in musica un testo siffatto è che si parte dal cosiddetto «teatro di parola», come chiarito da Pasolini nel suo Manifesto per un nuovo teatro (pubblicato su «Nuovi Argomenti» nel gennaio-marzo 1968): un teatro, quindi, che nulla concede all’articolazione della trama o ai soliti appigli del teatro borghese (la scena e/o la complicità tra agenti sul palco e pubblico in sala), ponendo quindi a compositore e regista una doppia sfida nel musicare una parola originariamente più ascoltata che agita. Nel suo saggio all’interno del programma, Parra specifica di aver lavorato esplorando i limiti della voce cantata, per giustapporre forme di vocalità quasi contrapposte e sviluppando così la capacità espressiva di una parola che passa per la fisiologia del proprio corpo. Il contrasto espressivo raggiunge l’apice quando una voce semiparlante deve convivere con una voce cantata in pieno lirismo (Uomo). Il contrasto è più delicato quando la Donna dispiega un lungo assolo per ricordare gli abusi subiti dal padre, che la conducono a un canto disperato, di malinconico lirismo (“con una lentezza inquieta, anche malinconica e lirica”), e laddove il flusso della parola è più rapido, le linee melodiche seguono da vicino i profili sinuosi e ritmati della lingua italiana, accentuando i principali colori fonetici di ciascuna frase con dinamiche e registri più estremizzati, mentre i passaggi di transizione (soprattutto da un episodio all’altro) sono espressi con voce quasi parlata.

Si può dire che la doppia sfida risulti abbondantemente vinta da entrambi – compositore e regista -, grazie anche – e soprattutto – al direttore d’orchestra e ai cantanti. Il baritono Christian Miedl è il protagonista indiscusso: dopo un inizio non proprio spumeggiante, spesso coperto dall’orchestra e una dizione non sempre perfetta (“profèzie”, ahinoi), domina la scena, dando dimostrazione di ottime capacità attoriali, riuscendo ad alternare senza strappi né cedimenti le parti prosodiche a quelle cantate, interpretando al meglio la deriva della lucida rivendicazione di una diversità non più sopprimibile, determinata anche ad un gesto estremo pur di affermarsi. Aušriné Stundyté, ammirata già il gennaio scorso al Covent Garden come Elektra (ed era pure una sostituta della titolare Nina Stemme), è bravissima ad attribuire al suo personaggio l’altra faccia di Medea: della tragedia greca conserva solo l’infanticidio, ma è sempre e comunque succube di un patriarcato che la guida anche nello sfogo sadomasochistico. La cantante lituana non ha alcun cedimento né vocale (dizione perfetta, e con i versi pasoliniani la questione è tutto meno che scontata; registro acuto – che nella partitura è il più ricorrente – e basso dominati in modo impareggiabile) né interpretativo. Jone Martínez interpreta perfettamente sia vocalmente (qualche consonante scempia raddoppiata: niente di che) sia scenicamente l’equivoca innocenza del personaggio, svelando con le sue grazie sinuose l’ipocrisia delle ritrosie a cui il contesto la costringe.

Pierre Bleuse dirige, come scritto, un organico da camera (quattro primi violini e quattro secondi, tre viole, due violoncelli, due contrabbassi, un oboe, un clarinetto, un fagotto, una tromba, un trombone, un percussionista, un’arpa, un arciliuto), riuscendo magnificamente a riprodurre il cromatismo variegato della partitura, soprattutto nei momenti di estremo conflitto e amplificando le aperture liriche con evidenti richiami monteverdiani.

L’attento e folto pubblico ha riservato ovazioni a tutti i protagonisti, che per un’opera contemporanea di assunto così impietosamente violento non è poca cosa.

(1) Dai versi contenuti nell’Episodio III di Orgia di Pier Paolo Pasolini si può evincere la matrice di una drammaturgia musicale per tale tragedia: le parole ormai logorate dall’uso ormai asemantico di una civiltà prostituita al consumo (di beni, di corpi, di comunicazione) necessitano di una rivitalizzazione acustica per esprimere – finalmente – la carne che le emette:

DONNA: Sì, noi stiamo dando uno spettacolo
UOMO: Il mio corpo è inequivocabile.
[…]
La nostra carne è un enigma che come enigma si esprime.
Ma le nostre parole, adesso, sono poveri suoni
che non dicono niente se non che la vita ricomincia.

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