Wolfram von Eschenbach

Parsifal

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Foto © Wiener Staatsoper/Michael Pöhn

Richard Wagner, Parsifal

★★★★★

Vienne, Staatsoper, 18 avril 2021

(streaming)

 Qui la versione italiana

Un Parsifal « de la maison des morts… »

Il semble qu’à un moment donné de sa vie, Wagner ait envisagé une trilogie centrée sur les personnages de Lohengrin, Parsifal et du Christ. Complémentaire de la tétralogie consacrée au mythe des Nibelungen, cette trilogie aurait développé le thème du passage du mythe à la religion. Comme on sait, le compositeur n’a réalisé que les œuvres consacrées à Lohengrin, son œuvre « de jeunesse », et à Parsifal, auquel est dédié l’opéra qui conclut sa carrière artistique et humaine…

la suite sur premiereloge-opera.com

Parsifal

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Foto © Wiener Staatsoper/Michael Pöhn

Richard Wagner, Parsifal

★★★★★

Vienna, Staatsoper, 18 aprile 2021

(video streaming)

bandiera francese.jpg Ici la version française

Parsifal da una casa di morti

Sembra che a un certo punto della sua vita Wagner avesse pensato a una trilogia centrata sulle figure di Lohengrin, Parsifal e Cristo. Complementare alla tetralogia dedicata al mito nibelungico, questa trilogia avrebbe sviluppato il tema del passaggio dal mito alla religione. Come sappiamo il compositore concretizzò solo la parte destinata a Lohengrin, soggetto della sua opera “giovanile”, e a Parsifal, cui fu dedicata l’opera che concludeva la sua carriera artistica e umana.

Con il Parsifal il musicista accoglieva dunque il personaggio di Perceval/Parzival dei poemi di Troyes e di Eschenbach per trasferire in ambito cristiano la leggenda celtica e pagana in cui centrale era la sacralità della natura, solo in parte ripresa nel lavoro di Wagner nell’episodio dell’uccisione del cigno – visto come animale sacro e inviolabile in quanto simbolo degli stati superiori dell’essere umano e quindi una sorta di creatura celeste – e nel racconto di Gurnemanz della rinascita della primavera nel giorno di Venerdì Santo: «das merkt nun Halm und Blume auf den Auen, | dass heut des Menschen Fuss sie nicht zertritt» (di questo ora s’avvedon stelo e fiore sui prati: che non li calpesta, oggi, piede di uomo).

Ma Parsifal è soprattutto centrato sul concetto della redenzione (Erlösung), tema che ossessionava il compositore che si reputava un grande peccatore e che odiava la sensualità a cui opponeva la castità. Quello della redenzione è un tema presente in quasi tutti i suoi drammi, ma in questo suo ultimo lavoro è primario assieme a quello della sofferenza, incarnato dalla figura di Amfortas.

Ma che cosa ha da dire oggi a noi questa “azione scenica sacra” che mescola cristianesimo, paganesimo e filosofie varie? La drammaturgia contemporanea cerca sovente significati alternativi a quelli che non sente più attuali, in parole povere, ci si inventa di tutto pur di sfuggire a un’ambigua visione pseudo-cristiana come quella del Parsifal.

Ed è ciò che avviene sul palcoscenico della Staatsoper di Vienna in questo nuovo allestimento di Kirill Serebrennikov che firma regia e scene. È la produzione che rimpiazza quella di Hermanis del 2017 ambientata nello Steinhof viennese, là orripilante ospedale psichiatrico. Qui le note cariche di tensione del preludio si dipanano sull’immagine di un campo di prigionia realisticamente ricostruito: nella drammaturgia di Sergio Morabito la foresta di Monsalvat non racchiude cavalieri, ma anime perse (morte direbbe Dostoevskij) al di qua e al di là delle sbarre.

Kirill Serebrennikov è un artista dissidente russo che nel 2017 ha subito il carcere in seguito a una condanna per presunta appropriazione indebita che a molti è sembrata volesse celare una condanna politica per la sua critica antigovernativa. La persecuzione da parte delle potenze statali russe non gli ha impedito di svolgere la sua attività, ma non è stato autorizzato a lasciare il paese e ha dovuto utilizzare strumenti digitali e assistenti che lavorano sul posto per questa produzione, allestendo lo spettacolo da remoto, dalla lontana Russia. Così era nato anche il Così fan tutte di Zurigo del 2018 e ora Parsifal, non a caso letto come un’opera di liberazione: la redenzione invocata nel testo è la liberazione tout court. In tedesco lösen, che troviamo in Erlösung (redenzione) significa liberare e lo scoprimento del Graal nel finale consiste nell’apertura delle celle e del portone del carcere per lasciar uscire i prigionieri. Non si può dire che il tema non sia quanto meno di attualità oggi quando le voci di Alexei Navalnij e di tanti altri dissidenti, in Russia come in Turchia e altrove, sono messe a tacere con la detenzione in carcere se non con la morte.

Nella lettura di Serebrennikov tutta la stucchevole liturgia dell’opera, tanto criticata da Nietzsche, semplicemente sparisce, sostituita da un gioco drammaturgico di grande intensità tra gli esemplari umani racchiusi in questa moderna colonia penale dove sono all’ordine del giorno maltrattamenti e risse sotto lo sguardo indifferente di guardie corrotte.

In alto tre schermi rimandano immagini in bianco e nero di particolari degli internati, della loro vita, dei loro tatuaggi. O ci mostrano un giovane Parsifal che si aggira tra le rovine innevate di un monastero. Il personaggio eponimo è infatti sdoppiato: durante il preludio, una foto di grandi dimensioni di Parsifal (Jonas Kaufmann) occupa lo schermo in alto. A poco a poco l’immagine viene ingrandita fino a quando rimangono solo gli occhi. Poi lo zooming torna indietro e  appare un altro uomo, più giovane. Il Parsifal “anziano” ha perso fiducia nella sua capacità di redenzione e ripensa al suo passato rivivendo sé stesso in un giovane interpretato dall’attore russo Nicolaij Sidorenko. Qui la maturità, là la giovinezza; qui pausa e retrospettività, là l’impetuoso, proverbiale camminare sui cadaveri: il giovane si unisce a questa società tutta al maschile e commette un omicidio appena arrivato in prigione quando con una lametta tra i denti taglia la gola del prigioniero che gli si è avvicinato nella doccia comune, un efebico albino con ali di cigno tatuate sulla schiena…

Gurnemanz ha un ruolo di rilievo nel carcere, di mediatore tra i reclusi e le guardie, e oltre alla sua attività di raccontare storie si occupa anche dei tatuaggi le cui immagini più richieste sono una lancia che perfora la pelle, una croce, un calice. Non è peregrino il riferimento alla macchina della Colonia penale di Kafka.

Amfortas è uno di loro e, come se non bastasse la ferita che non si rimargina mai, se ne procura altre nel tentativo vano di togliersi la vita. E poi c’è Kundry, una giornalista fotografa in visita al carcere che non sembra tanto interessata alle condizioni igienico-sanitarie del luogo, quanto alla fisicità dei reclusi. Infatti la vediamo nel secondo atto, quello del castello di Klingsor, dirigere “Schloss”, una rivista di life style dove lavorano solo donne, le “fanciulle incantatrici”, in cerca di modelli maschili.

Nel finale anche Kundry e Amfortas si trascinano allo scoperto e con loro tutti gli altri; persino il “cigno”, il giovane compagno di prigionia ammazzato, si risveglia a nuova vita per godere della libertà. Il palcoscenico è vuoto, Parsifal (quello anziano) rimane solo e si siede sui gradini, il viso coperto tra le mani. Era tutto solo un ricordo? «Dies alles – hab’ ich nun geträumt?» (Tutto questo l’ho dunque sognato?) si era chiesto nel secondo atto.

Serebrennikov ha pensato a farsi strada nella testa di Parsifal per lasciare che le sue esperienze e i suoi ricordi si trasformassero in una serie di immagini dinamiche in una sorta di realismo fantastico. Tuttavia, questa polifonia scenica non è solo di impatto visivo: qui è stato progettato un dramma in cui la sofferenza e la compassione si incontrano e dove l’empatia umana non ha bisogno di alcuna motivazione religiosa per essere efficace.

Non tutto è chiaramente condivisibile nella sua lettura, ma Serebrennikov riesce a creare un’atmosfera di grande intensità, evocando immagini talora inquietanti – si vede, tra le altre cose, un prigioniero che, come l’artista performer russo Petr Pavlenskij, si cuce la bocca – che acquistano rilevanza drammaturgica in contrasto con l’ipnotica e solenne musica concepita da Wagner, una magia narcotica magnificamente realizzata dalla direzione di Philippe Jordan che, in contrasto con la crudezza che si vede in palcoscenico, elegantissimo in una impeccabile marsina, dirige un’orchestra che il Parsifal potrebbe suonarlo a occhi chiusi. I suoni hanno un impasto e una ricchezza di colori di impatto grandioso, i tempi scelti dal direttore svizzero solenni e drammatici allo stesso tempo, piene di tensione le pause.

Determinante per l’efficacia del messaggio trasmesso è la recitazione degli interpreti, qui sommi. Il nome Parsifal nella lingua araba (Wagner lo indica come nativo dell’Arabia) ha un connotato di purezza che né il tedesco “reine Tor” né l’italiano “puro folle” rendono con precisione. L’indole del personaggio è meglio espressa dal francese “pure naïf”, una semplicità di carattere che contrasta coi tormentati personaggi con cui si deve confrontare. Dopo Monaco, con la produzione Audi/Petrenko, Jonas Kaufmann ritorna a incarnare il personaggio e lo fa con la maturità della sua vocalità. Il personaggio ripiegato su sé stesso ha perso ogni eroismo e con le mezze voci il cantante conferma la pienezza di un’interpretazione a suo modo insuperabile.

È difficile credere che per Elīna Garanča sia un debutto quello come Kundry, tanta è l’intensità e la bellezza vocale, magistrale nel racconto della madre di Parsifal nel secondo atto. Dopo un primo atto in un dimesso trench beige e un secondo atto da Il diavolo veste Prada, diventata un’assassina la ritroviamo distrutta prigioniera nel terzo atto. Con una recitazione da premio Oscar il mezzosoprano lettone firma una delle sue più grandiose interpretazioni. Wolfgang Koch ritorna come Klingsor, qui un disgustoso Harvey Weinstein, e Ludovic Tézier è un dolente Amfortas vocalmente impeccabile. Parola scolpita ed espressiva è quella di Georg Zeppenfeld, Gurnemanz.

Assolutamente magnifica la ripresa video con i lenti movimenti della telecamera. In conclusione uno spettacolo memorabile da non perdere.

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Parsifal

Richard Wagner, Parsifal

★★★★☆

Monaco, Nationaltheater, 8 luglio 2018

(diretta streaming)

Oper für Alle (opera per tutti), ma non il solito spettacolo estivo

Luglio: mentre i teatri italiani chiudono le loro porte e le strutture all’aperto si apprestano a ricevere le masse di melomani avidi di Aide e Traviate, in quel di Monaco di Baviera non si pongono il problema di mettere in scena, in un pomeriggio torrido, le quattro e passa ore del Parsifal.

I 2100 posti del National Theater non sono sufficienti a soddisfare le richieste e nella piazza antistante il teatro la folla attende da ore sotto il sole per seguire la performance di due tra i massimi artisti della scena lirica: Kirill Petrenko, direttore alla guida della Bayerisches Staatsorchester, e Jonas Kaufmann, tenore, nel ruolo titolare. Non che gli altri interpreti siano da meno: René Pape, Nina Stemme, Christian Gerhaher, Wolfgang Koch sono tra i nomi di questa attesissima produzione che vede un regista attuale, ma non controverso, come Pierre Audi, affiancarsi a un artista come Georg Baselitz in una decostruzione, disgregazione dell’ultima opera di Wagner. L’intervento dell’artista neo-espressionista però, pur se intenso, non lavora a favore della teatralità del lavoro e ne esalta la staticità e il carattere di Bühnenweihfestspiel, rappresentazione scenica sacra, ma senza cerimoniale religioso: non ci sono calici, processioni e il discoprimento del Graal si riduce a porsi le mani davanti agli occhi. Audi non risponde alle domande di chi sono i cavalieri, di che cos’è questa redenzione. Lascia quasi tutto in sospeso e la vicenda diventa una storia di auto-riconoscimento, di consapevolezza di sé di un “puro folle” che si lascia dietro le scorie dell’ignoranza per accettare la multidimensionalità della dignità umana. La redenzione dei peccati qui è il raddrizzare quello che era stato capovolto, come sono le figure del pittore tedesco.

Un Parsifal Audi l’aveva già messo in scena nel 2012 ad Amsterdam, dove le scenografie erano state disegnate da un altro grande artista contemporaneo, Anish Kapoor. Se là la scena era del tutto astratta, qui Baselitz opta invece per un disegno di rocce e alberi (atto I e III) che si accasciano sul terreno come il muro dell’effimero castello di Klingsor (atto II). Stravaganti i costumi disegnati da Florence von Gerkan: i cavalieri lasciano cadere le pesanti vesti e restano in indumenti color carne a cui sono aggiunte imbottiture per evidenziare le penzolanti nudità, «rovine di figure» secondo le parole dell’artista tedesco. Lo stesso fanno le “fanciulle in fiore”, che espongono la nudità dolorosa che vediamo nei suoi quadri. Non è sorprendente che Parsifal non sia affatto attratto da loro. Le luci di Urs Schöhnebaum lasciano sempre in ombra la scena che si accende di rosso nell’incantesimo del venerdì santo e di un bianco accecante in taluni momenti del secondo atto.

Davanti a un sipario su cui sono dipinte quattro enormi figure umane, si dipanano le note del preludio. Solenne ma non estenuata, di una sospensione piena di mistero, di qualcosa di indicibile, la lettura di Kirill Petrenko è trasparente, fatta di colori delicati nonostante la colossale orchestra. Gli impasti sonori tra fiati e archi hanno un equilibrio magico, come magica è l’eco dei cori fuori scena. I pianissimi sfumano nel silenzio, gli interventi drammatici sono lancinanti, ma sempre controllati: Petrenko sembra accarezzare i suoi strumentisti, chiedere piuttosto che imporre, e il risultato, pur se solo apprezzato nella trasmissione video e non dal vivo in sala, è stupefacente e tale da mettere in una luce inedita il lavoro di Wagner. Un giudizio di chi era presente in platea si può leggere qui e conferma l’impressione.

Ottima la regia video con primi piani che ricordano le inquadrature dei film di Bergman ed esaltano la prestanza attoriale degli interpreti, qui quasi insuperabili. Il liederista Christian Gerhaher disegna a meraviglia un sofferto Amfortas cui presta tutte le sfumature necessarie. Fuori scena Bálint Szabó è un autorevole Titurel, mentre René Pape riprende per l’ennesima volta la parte di Gurnemanz cui dedica tutta la sua sapienza di fraseggiatore e fine narratore. Un Klingsor più losco che temibile è quello di Wolfgang Koch mentre Nina Stemme è una Kundry intensa, che passa dagli acuti al registro più profondo alle grida con grande sicurezza.

E infine Jonas Kaufmann. Finalmente nel suo repertorio, delinea un Parsifal che evolve dalla cautela con cui osserva l’ambiente del primo atto, alla sicurezza del secondo, alla finale presa di coscienza, con una ricchezza di voci e un’espressività che rendono estremamente umano il personaggio. Non c’è difficoltà vocale che non renda con agio e convinzione. Un ruolo in cui lascia una traccia indelebile e da cui sarà difficile prescindere in futuro.

Alla fine della rappresentazione, salutata da fragorosi applausi, gli artisti escono fuori per ricevere le acclamazioni del pubblico della piazza, acclamazioni che diventano ovazioni per il direttore musicale e per il tenore. Molti i “bravi” gridati dal pubblico, indice della presenza di non pochi italiani (all’estero “bravo” è anche femminile e plurale…). Quelli stufi delle solite AideTraviate.

Parsifal

 

Richard Wagner, Parsifal

★★★☆☆

Anversa, Koninklijke Vlaamse Opera21 marzo 2018

(video streaming)

Liturgia di sangue

Cosa resta del Parsifal di Wagner se lo depuriamo di qualunque riferimento alla liturgia cristiana? In attesa di vedere cosa combinerà Pierre Audi tra un mese alla Bayerische Staatsoper, tra le più recenti letture dell’ultima opera di Wagner c’è questa del 2013, l’anno wagneriano, della regista tedesca Tatjana Gürbaca, ora ripresa all’Opera Vlaanderen di Anversa.

Buio totale, luce rossastra che gradualmente diventa sempre più abbagliante e inonda una scena completamente vuota. Amfortas cede alle lusinghe di Kundry durante il preludio. Tre sottili rigature di sangue marcano la bianca parete circolare di fondo. Altre si aggiungeranno, e poi altro sangue, in copiosa quantità, sui corpi, sui costumi, sui pochi oggetti presenti: il sangue è l’elemento principale di questa produzione – d’altronde la parola Blut si ripete ben 25 volte nel libretto, esattamente quante la parola Tod, morte.

Sedie, sgabelli, catini smaltati per il bagno dei bambini (uno di essi sarà il cigno ucciso da Parsifal che gli tira un secchio pieno di sangue). Tutti rigorosamente in bianco gli oggetti in scena di questo spettacolo che perde ogni connotazione di rappresentazione, più o meno sacra, per contrapporre il maschile al femminile: i cavalieri del Graal uniti dai loro rituali, alla figura madre/Madonna/Maddalena di Kundry che, incinta forse del prossimo cavaliere cui toccherà liberare dalla maledizione, li benedice sotto lo sguardo stupito/stupido di Parsifal. Ma anche comunità contro individualità: i cavalieri assieme danno voce a Titurel fuori scena o diventano una folla che minaccia Amfortas, l’unico che osa essere un individuo e cerca di spezzare la catena umana di questa setta di fanatici. E ovviamente castità contro sensualità o meglio separazione maschile/femminile, che diventa emblematica in Klingsor, il quale si è auto evirato e quindi ha perso la maschilità. Il suo giardino delle delizie è illuminato da una luce dorata ed è popolato da anziane signore in abiti di tulle, appassite fanciulle in fiore. Gurnemanz è su una sedia a rotelle che sottolinea la sua impotenza; i cavalieri guardano in alto con lenti nere in attesa di un’eclisse che non avviene; Parsifal con la lancia non guarisce Amfortas ma gli dà il colpo di grazia; Kundry per due volte tenta il suicidio; Parsifal alla fine viene vestito  con una ridicola armatura che lo fa sembrare un Crociato grottesco.

Meno problematico l’aspetto musicale dello spettacolo con un corretto Cornelius Meister sul podio, il tenore americano Erin Caves specialista di Wagner e qui a suo agio nella figura dapprima imbelle e poi sofferta del puro folle. Qualche piccola sbandata di intonazione non pregiudica una performance vocale solida. Convincenti il Gurnemanz di Štefan Kočan dal timbro particorlamente scuro e l’Amfortas di Christoph Pohl, lui invece di timbro più chiaro, mentre Kay Stiefermann è un Klingsor per una volta molto umano. Il reparto femminile di quest’opera misogina è condensata nella figura di Kundry, un’intensa Tanja Ariane Baumgartner quasi sempre in scena.

Innumerevoli sono le immagini proposte dalla regista per una narrazione lentissima, quasi senza azione, in cui i personaggi si muovono come in una torpida coreografia. La visione che la Gürbaca impone è del tutto personale e distante dalla concezione cristiana e dalle intenzioni dell’autore stesso, ma lo spettacolo ha comunque una sua coerenza e un suo fascino, anche se non sembra portare a un maggior apprezzamento per l’ultima opera di Wagner.

Parsifal

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★★★☆☆

Enigmatica messa in scena a Salisburgo dell’ultima opera di Wagner

Dopo il Lohengrin Wagner ritorna al tema del Graal nella sua ultima opera andata in scena nel 1882, dopo una lunga gestazione che terminò nelle stanze dell’Hotel delle Palme di Palermo. Parsifal segnò anche il definitivo distacco da Wagner di Nietzsche che non perdonò mai al musicista di essersi «prostrato ai piedi della croce», senza capire che le allusioni religiose dell’opera erano riconducibili a una dimensione indefinita di “sacro” che l’opera di Wagner nella sua dimensione “liturgica” aveva comunque perseguito per tutta la vita.

Atto primo. Nella comunità dei cavalieri del Graal, in una foresta di fronte a un lago, sul far del giorno Gurnemanz desta due scudieri e li invita alla preghiera del mattino. Si attende il re Amfortas che, malato per una ferita insanabile, deve essere portato al bagno ristoratore in una lettiga. Irrompe selvaggia Kundry, misteriosa creatura che espia nella sua doppia natura di peccatrice e penitente l’antica colpa di aver deriso il Cristo. Ella reca un balsamo d’Arabia per lenire le sofferenze di Amfortas, re del Graal, che viene introdotto da un corteo di cavalieri: Amfortas aspetta l’unico che lo potrà salvare, colui che «è sapiente per compassione», il «puro folle»; il re ringrazia Kundry per il dono e si fa condurre al lago. Gli scudieri diffidano di Kundry, che credono una maga; Gurnemanz la difende, perché ha sempre servito fedelmente i cavalieri. Il vecchio custode del Graal le chiede dove si fosse allontanata quel giorno in cui Amfortas tornò al castello senza la sacra lancia dell’ordine e ferito in modo insanabile. Interrogato dai giovani scudieri, Gurnemanz racconta le vicende del Graal: Titurel, padre di Amfortas, ricevette in custodia dagli angeli le sacre reliquie della Passione, la coppa della cena e la lancia con cui Longino aveva trapassato il costato del Salvatore. Per conservare i preziosi oggetti il re costruì un santuario, il castello di Monsalvat. Una schiera di puri si pose al servizio del Graal, ricevendo forza dalla sacra coppa per «auguste opere di salvezza». Escluso dall’ordine dei cavalieri, il mago Klingsor cercò di espiare i propri peccati estirpandone la radice ed evirandosi. Dal folle gesto nacque per incantesimo demoniaco il suo giardino delle delizie, luogo popolato da seducenti creature femminili, che hanno il compito di piegare al peccato la purezza dei cavalieri e portare alla perdizione l’ordine del Graal. Già molti cavalieri si sono macchiati di colpe carnali nel giardino di Klingsor e fra questi lo stesso erede di Titurel, Amfortas, che proprio cedendo alle lusinghe delle seduttrici ha perduto la sacra lancia: finita in mano a Klingsor, essa ha prodotto sul costato di Amfortas la ferita che mai si rimargina. Da allora è segnata la decadenza del Graal, il cui potere Klingsor s’appresta a distruggere. In preghiera di fronte alla coppa della salvezza, Amfortas ha però ricevuto una profezia: la lancia sarà recuperata da un puro folle, sapiente per la cognizione del dolore altrui. Si odono grida provenienti dal lago: uno dei sacri cigni è stato mortalmente colpito da una freccia e il colpevole del gesto sacrilego è un ragazzo, Parsifal, del tutto sprovveduto. Gurnemanz rimprovera lo sconosciuto giovane e cerca d’ispirargli pietà per il povero animale. Interrogato, Parsifal risponde di non sapere nulla, d’ignorare chi sia suo padre e persino il proprio nome; sa solo che sua madre si chiama Herzeleide e d’aver sempre abitato nella selva. Kundry sa invece molte cose di quel misterioso ragazzo: egli è figlio di Gamuret ed è cresciuto in una folle solitudine che però l’ha fortificato. Dice poi a Parsifal che sua madre è morta e, colto da un raptus di violenza, il ragazzo afferra Kundry per la gola, ma viene immediatamente fermato da Gurnemanz. Kundry fugge nella foresta e il vecchio cavaliere decide di portare con sé Parsifal al castello: se è puro, il Graal lo nutrirà nello spirito. «Cos’è il Graal?», chiede allora Parsifal, e Gurnemanz gli risponde che lo potrà scoprire da solo, confidando che questo ragazzo sperduto possa essere il «puro folle» dell’oracolo. S’incamminano, e Gurnemanz avverte Parsifal che «spazio qui diventa il tempo». Segue un interludio sinfonico, durante il quale la scena si trasferisce nell’interno del santuario, una grande sala con cupola da cui penetra la luce, inondata dal suono di campane. Giunto col ragazzo nel luogo dell’agape fraterna, Gurnemanz lo invita a osservare: il corteo dei cavalieri e i cori mistici dei fanciulli introducono al rito dello scoprimento del Graal; Amfortas viene portato sulla lettiga e la voce del vecchio re Titurel, quasi proveniente dalla tomba, invita il figlio a procedere al rito. Con straziante riluttanza, Amfortas cerca di sottrarsi al compito: la ferita insanabile gli ricorda la sua condizione d’impuro, tragicamente costretto a essere ministro del più sacro fra gli uffici. Il coro di fanciulli e adolescenti ricorda le parole dell’oracolo di salvezza, e il rito finalmente procede con lo scoprimento del Graal, sul canto estatico delle parole dell’ultima cena. Terminata l’agape, i cavalieri si ritirano e Parsifal, colpito dalle sofferenze di Amfortas, si porta la mano al cuore, restando immobile e come stralunato. Gurnemanz si adira col ragazzo per la sua apparente imperturbabilità di fronte al miracolo del Graal e lo caccia dal santuario: «Lascia i cigni in pace e cercati, papero, la tua oca!». Ma una voce dall’alto ricorda ancora una volta le parole della salvezza: «Per compassione sapiente, il puro folle!».
Atto secondo. Nel suo castello incantato, il mago Klingsor attende l’arrivo di Parsifal e ne prepara l’annientamento; a questo fine evoca Kundry, primordiale creatura d’inferno, che già a suo tempo sedusse e portò alla rovina Amfortas. La donna recalcitra all’idea di mettersi ancora a servizio delle opere malvagie di Klingsor, ma poi cede e s’appresta a una nuova opera di dannazione. La torre del mago scompare e al suo posto si materializza il giardino delle delizie, ricco di fiori esotici. Entra Parsifal, stupito, e subito è circondato dalle fanciulle-fiore, che iniziano a sedurlo con mosse e parole lubriche. Nasce una gara fra le fanciulle per accaparrarsi le grazie del ragazzo interrotta dall’apparizione improvvisa di Kundry, che per la prima volta chiama Parsifal col suo nome. A quel suono, il ragazzo ricorda d’essersi sentito chiamare in quel medesimo modo dalla madre. Le fanciulle lasciano il campo e Kundry spiega l’origine di quel nome parsi equivale a ‘puro’, fala ‘folle’; così lo chiamò suo padre Gamuret. Rievoca poi l’infanzia di Parsifal, l’amore della madre Herzeleide e la sua morte prematura, con strazio del ragazzo. Subdolamente, la donna gli offre il suo amore al posto di quello della madre e lo bacia sulla bocca; con un sobbalzo, Parsifal si divincola da quella stretta sensuale e sente bruciare sul proprio corpo la ferita di Amfortas, provocata da una seduzione simile. In lui rivive il dolore del re, la scena del suo tormento di fronte alla sacra coppa: la forza demoniaca del bacio di Kundry gli ha aperto finalmente gli occhi e la mente e attraverso la compassione egli è divenuto sapiente. S’inginocchia e invoca il Redentore, assumendo su di sé la colpa di Amfortas. Così rivive la caduta del re, la sua seduzione e trova la forza di respingere Kundry, la corruttrice, che cerca di giustificarsi con lui narrandogli la propria maledizione, iniziata nel tempo lontano in cui osò deridere Cristo mentre saliva al calvario. Ma la repulsione di Parsifal nei suoi confronti è irremovibile: Kundry invoca l’aiuto di Klingsor, che sopraggiunge per colpire Parsifal con la sacra lancia. Miracolosamente, l’arma si ferma a mezz’aria sopra la testa del ragazzo, divenuto uomo: Parsifal la brandisce e traccia nell’aria un segno di croce. A quel gesto il giardino inaridisce, il castello di Klingsor crolla e Kundry s’abbatte al suolo con un grido. Prima di abbandonare la scena, Parsifal si volge a lei e le dice: «Tu sai dove potrai ritrovarmi».
Atto terzo. Nel dominio del Graal, presso una fonte su un ameno prato fiorito, il vecchio Gurnemanz ode un sordo lamento e scopre Kundry, irrigidita, seminascosta nella macchia: le uniche parole che è in grado di pronunciare sono «servire… servire». Gurnemanz la conforta e poi si meraviglia nel veder giungere, in completo assetto d’armi, un cavaliere, il cui volto è celato dall’elmo. Salutato dal vecchio, Parsifal non risponde e pianta in terra la lancia, inginocchiandosi in preghiera di fronte a essa; s’è tolto elmo e scudo, e Gurnemanz finalmente lo riconosce, così come riconosce la sacra lancia del Graal. Parsifal gli racconta del suo pellegrinaggio e del suo dolore e Gurnemanz lo aggiorna sull’irrimediabile decadenza dell’ordine dei cavalieri. L’eroe si accusa di quelle sofferenze e Kundry gli lava i piedi alla fonte, asciugandoli coi propri capelli, come la Maddalena fece con Cristo. Quindi Gurnemanz unge Parsifal re del Graal: il suo primo gesto è quello di battezzare Kundry, mentre la natura sembra rispondere in tutto il suo splendore ai miracoli di quel giorno con l’incantesimo del venerdì santo: l’uomo, redento dal sangue di Cristo, trova nella natura uno specchio alla sua rigenerazione. Gurnemanz conduce quindi Parsifal nel santuario: in quel giorno, Amfortas celebrerà per l’ultima volta il rito, in occasione del funerale di Titurel; egli si accusa della morte del padre e anela disperatamente alla morte, pregando i suoi cavalieri di trafiggerlo con le loro spade. È invece Parsifal che, non visto, s’appressa a lui e lo tocca con la sacra lancia: la ferita si rimargina fra lo sbigottimento generale e Parsifal, nella sua nuova veste di re, ordina che si proceda allo scoprimento della coppa, finalmente liberata da ogni impuro sortilegio. Di fronte al raggiante splendore del Graal, e al giungere dall’alto d’una bianca colomba che s’arresta sul capo di Parsifal, tutti ringraziano e proclamano «Redenzione al Redentore!». Il simbolo della redenzione, la sacra coppa del sangue di Cristo, è stato finalmente redento.

Questa ‘Bühnenweihfestspiel’, termine creato da Wagner e che possiamo tradurre come “azione scenica sacra”, mescolava infatti cristianesimo, paganesimo, idolatria e anche buddismo, la filosofia orientale che Schopenhauer aveva contribuito a diffondere in Europa.

Wagner aveva letto il Parzival di Wolfram von Eschenbach, un poema epico del XIII secolo, a Marienbad nel 1845. Nella sua biografia il musicista ricorda di aver concepito il suo Parsifal nell’aprile del 1857 mentre era in uno chalet nei pressi di Zurigo messogli a disposizione dai Wesendonck: «il giorno di venerdì santo per la prima volta il sole venne a risvegliarmi nella nuova casa […] e mi ricordai come già una volta questo annuncio [del venerdì santo] mi avesse colpito con tanta solennità nel Parzival di Wolfram. […] Ora l’idealismo del suo contenuto mi signoreggiava improvvisamente e partendo da questa idea concepii rapidamente tutto un dramma in tre atti.» (Mein Leben (La mia vita), traduzione di Massimo Mila).

Dovranno però passare otto anni prima che il compositore ne stendesse una prima versione in prosa, e altri dodici per la stesura definitiva del libretto. Nel 1877 Wagner inizia a scrivere la musica e l’opera va per la prima volta in scena a Bayreuth in quel teatro per cui l’opera era stata concepita.

Uno dei primi spettatori fu George Bernard Shaw che ha lasciato sarcastici resoconti degli allestimenti dell’epoca: «La prima rappresentazione del Parsifal di questa stagione [1894] da un punto di vista puramente musicale è semplicemente un obbrobrio per quanto riguarda i cantanti. Il basso non ha fatto che ululare, il tenore abbaiare, il baritono era inespressivo e il soprano, quando si degnava di cantare e non semplicemente urlare le sue battute, strillava.»

Da tempo sulle scene dei teatri moderni l’ultima opera di Wagner gode di interpreti di primo piano in allestimenti estremamente rarefatti e/o simbolici. È il caso di questa produzione del Festival di Salisburgo del 2013 con Christian Thielemann alla guida della magnifica orchestra di stato di Dresda. Diciamo subito che la direzione del nuovo direttore artistico del festival ed erede di Karajan è la cosa migliore di questa produzione, con un’orchestra che invece di essere infossata nel golfo mistico di Bayreuth qui è quasi all’altezza del palcoscenico e quindi sempre in primo piano nel porgere le gemme musicali della partitura.

Ottimi tutti gli interpreti, scenicamente statici, ma vocalmente eccellenti: Johan Botha nel ruolo del titolo, Wolfgang Koch nella doppia parte di Amfortas e di Klingsor (!), Stephen Milling come Gurnemanz. La Kundry di Michaela Schuster è l’unica ad avere maggior presenza scenica.

L’arrivo di Parsifal accompagnato da cinque ragazzini (che cresceranno d’età nel corso della rappresentazione) passerebbe del tutto inosservato in questa regia di Michael Schultz se non fosse per il completo verde ramarro taglia XXXL di Johan Botha. Nel frattempo i cilindri trasparenti di cui è formata la scena si sono riempiti di fumo bianco e sono diventati delle clessidre in cui al posto della sabbia scorrono teschi (?) e un biondo Cristo con corona di spine sembra essere visibile solo a Kundry. Tante sono le stranezze di questa messa in scena, mai gratuita però, spesso inquietante (come l’inizio del secondo atto nel castello di Klingsor con le statue di tutte le religioni) e affascinante, ma non sempre comprensibile. Personalità e motivazioni dei personaggi rimangono distanti, misteriose e in definitiva senza vita. Inutile cercare lumi nel fascicoletto allegato o nei bonus, assenti.

Immagine cristallina, due tracce audio. Sottotitoli in tedesco, francese, inglese, cinese, giapponese e coreano.

  • Parsifal, Meister/Gürbaca, Anversa, 21 marzo 2018
  • Parsifal, Petrenko/Audi, Monaco, 8 luglio 2018
  • Parsifal, Vienna, Jordan/Serebrennikov, 11 aprile 2021