Dante Alighieri

Gianni Schicchi


Giacomo Puccini, Gianni Schicchi

★★★☆☆

Salisburgo, Großes Festspielhaus, 5 agosto 2022

(registrazione video)

Scomposto e centellinato il Trittico di Salisburgo. Parte prima: Gianni Schicchi.

È raro trovare Puccini al Festival di Salisburgo, rinato alla fama internazionale nel 1920: occorre arrivare al 1989 per la prima di Tosca, quella di Karajan. Seguiranno poi Turandot (Gergiev/Pountney, 2002), La bohème (Gatti/Michieletto, 2012) e Manon Lescaut (2016), quest’ultima in forma di concerto. Il Trittico, che non era mai stato messo in cartellone, ora viene finalmente presentato, ma “scomposto”, cambiando l’ordine dei tre titoli: prima l’“inferno” di Gianni Schicchi, poi il “purgatorio” de Il tabarro e infine il “paradiso” di Suor Angelica secondo il criterio scelto dal regista, scelta che però va contro le intenzioni dell’autore che vedeva invece nel Tabarro l’inferno, in Suor Angelica il purgatorio e nello Schicchi, ironicamente, il paradiso. L’unica che rimane valida è l’idea dell’evoluzione dell’amore, da quello giovanile e sincero di Lauretta e Rinuccio, a quello maturo e deluso di Michele e Giorgetta, passando per quello materno di Angelica.

In realtà, la scelta è dettata soprattutto dall’intento di esaltare la presenza della star della serata in tre atti di impegno crescente. Chissà poi se per lo stesso motivo, di far meglio brillare la stella cioè, è stata la scelta di un cast piuttosto mediocre. Diciamo subito che così non si è ottenuto il risultato sperato. Ma limitiamoci al primo titolo, poiché lo spettacolo viene ora trasmesso da Arte “centellinato”, iniziando appunto dal Gianni Schicchi.

La messa in scena si deve a Christof Loy, che con le scenografie di Etienne Pluss e i costumi moderni di Barbara Drosihn crea un grande spazio vuoto che nel Gianni Schicchi ha al centro troneggiante il letto di Buoso Donati innalzato su gradini. Pochi altri elementi d’arredo denotano l’ambiente che ha a sinistra una porta e una vetrata, tanto che alla fine ai parenti non rimane quasi nulla da portar via. Loy deve aver scambiato Firenze con Napoli, poiché all’inizio vediamo i parenti consolarsi della perdita del vecchio abbuffandosi di spaghetti. Poi fortunatamente il tono è un po’ meno marcato ed è il gioco attoriale quello che si ammira di più nella sua regia, che ha tocchi arguti e ironici, ma non si discosta molto dalla solita tradizione con l’Italia caricaturale vista da uno straniero.

E straniera è la maggior parte degli interpreti, con conseguenti problemi di dizione che inficiano la fluidità dello stile di conversazione di questo lavoro. Molti quelli dell’est, a iniziare dal simpatico Gianni Schicchi del georgiano Misha Kiria, vocalmente autorevole e scenicamente spigliato ma un po’ grezzo, per passare alla Zita dell’albanese Enkelejda Shkosa, in condizioni vocali problematiche quanto quelle del Simone di Scott Wilde. Gridato e dagli acuti strozzati il Rinuccio del russo Aleksej Nekliudov, meglio l’aitante Marco dell’ucraino Jurii Samoilov o il giovane (fin troppo) Ser Amantio del polacco Mikołaj Trąbka. Dean Power e Manel Esteve Madrid delineano con efficacia i personaggi di Gherardo e Betto. Bene gli italiani: Lavinia Bini (vivace Nella), Caterina Piva (la Ciesca), Matteo Peirone (un istrionico Maestro Spinelloccio).

E poi c’è lei, Asmik Grigorian (Lauretta), donna più che bambina, vocalmente eccellente come sempre, ma un po’ spaesata stilisticamente. Sul podio, alla guida dei Wiener Phlharmoniker, non molto avvezzi a questo repertorio, Franz Welser-Möst non si dimostra un interprete pucciniano, gli manca l’eleganza e la voglia di mettere in risalto le voci, che talora vengono coperte dall’orchestra. Bello il suono, ci mancherebbe con quell’orchestra…, ma sembra mancare il gusto per questa musica.

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Trittico

Giacomo Puccini, Trittico

★★★★☆

Bruxelles, Théâtre Royal de La Monnaie, 26 marzo 2022

(diretta streaming)

Tripla riuscita per il Trittico di Bruxelles

Beati i teatri che si possono concedere il lusso di rappresentare il Trittico nella sua completezza, così come voleva il suo autore. Spesso da noi si arriva a un solo titolo, se va bene abbinato all’atto unico di un altro compositore.

È inutile qui ribadire l’importanza di tenere unite le tre opere così differenti tra di loro, ma così mutualmente necessarie, tre visioni della vita e della morte interconnesse da sottili legami. Uno di questi è la morte del bambino di Giorgetta e Michele («l’anno scorso là in quel nero guscio | eravamo pur tre… c’era il lettuccio | del nostro bambino») che si lega a quella del bambino di Suor Angelica. E questo particolare è messo in evidenza dal regista Tobias Kratzer nella produzione de La Monnaie quando alcune suore del monastero sfogliano con avidità le pagine di un giornaletto con la storia illustrata del Tabarro e sono le immagini della maternità a destare la nostalgia delle recluse.

Diversamente da Michieletto ad esempio, che aveva unificato a modo suo l’ambientazione dei tre pezzi, Kratzer fornisce di ognuno dei tre atti un’immagine visiva e una lettura del tutto differente l’uno dall’altro: la scenografia di Rainer Sellmaier ricrea tre mondi completamente diversi per colore, taglio visivo, stile. Per Il tabarro sceglie di dividere la scena in quattro sezioni, come aveva fatto Philipp Stölzl a Salisburgo per Cav & Pag. Il ponte della chiatta, la misera stanza con le pareti di lamiera, la stiva, la riva con il lampione e le prostitute sono le quattro sezioni di una pagina a fumetti dai colori intensi, rossi e neri, alla Sin City di Frank Miller, come evidenzia il lettering del titolo che campeggia in alto a sinistra. Tutt’altra atmosfera per Suor Angelica: un palcoscenico pressoché vuoto accoglie l’andirivieni delle monache e lo sfondo è un enorme schermo su cui si proiettano le immagini in bianco e nero del monastero, delle celle, dei corridoi, del parlatorio, che prolungano la scena dove i personaggi talora continuano in video quello che è iniziato dal vivo, o viceversa. Come in uno zapping televisivo ci troviamo infine per Gianni Schicchi in un’ambientazione contemporanea: Buoso Donati si versa un bicchiere di vino e firma il testamento che nasconde nella busta del disco di Suor Angelica che sta ascoltando prima di essere colpito da un attacco di cuore e rimanerci secco. Invece del letto qui c’è la lounge chair di Charles Eames ad accogliere prima il cadavere di Buoso, poi il corpaccione di Gianni Schicchi per la burla che lo condanna all’inferno dantesco. Con un telecomando trovato per caso, dal pavimento esce una vasca idromassaggio piena di schiuma in cui si infilano i personaggi. Il crescendo comico è così esaltato a dovere dopo i drammi dei primi due titoli. Il pubblico fa parte dell’azione occupando la gradinata dello sfondo ed è invitato a interagire con «Oh!» di meraviglia e applausi da un assistente di scena dello studio televisivo in cui si immagina di girare la vicenda. Anche i testimoni del notaio Ser Amantio sono presi dal “pubblico”. Ed è questo lo spettacolo comico che Michele guardava sullo schermo della sua televisione nel Tabarro. Il cerchio così si chiude. Tobias Kratzer riesce a creare una messa in scena contemporanea mantenendo perfettamente leggibile la narrazione di ogni vicenda, cosa non sempre scontata nelle regie contemporanee, e di questo si deve dare merito al teatro di Bruxelles.

Note positive anche sul piano musicale. Nella serata andata in streaming alla conduzione dell’orchestra del teatro c’era Ouri Bronchti, che si è alternato nelle altre recite con Alain Altinoglu, ed è quindi non facile distinguere i meriti dell’uno o dell’altro, ma quale che sia stata l’impostazione orchestrale, il risultato è magnifico: la partitura di Puccini è esaltata nella sua modernità – mai si erano sentiti così distintamente i miagolii del soriano della Frugola, le sirene della polizia, i claxon, lo sciabordio mortifero delle acque della Senna… – nel primo pannello, i toni drammatici e patetici del secondo, la precisione del gioco comico del terzo.

Cast molto equilibrato, dove la maggior parte degli interpreti è presente in due dei tre titoli ed è debuttante nelle parti, come Lianna Haroutounian (Giorgetta e Suor Angelica): nella prima il soprano armeno spiega una voce dai toni sensuali e pieni di nostalgia per la sua Belleville, nella seconda i toni lirici e tragici si mescolano per delineare la donna che non riesce a dimenticare di essere stata madre. Ben più diverse le parti di Michele e Gianni Schicchi in cui il basso-baritono ungherese Péter Kálmán si trasforma da rozzo marito geloso, con toni veristi e una voce potente, nella maschera del truffatore che non rinuncia a mezzi espressivi quali il falsetto o la voce nasale per raggiungere lo scopo di divertire. Il tenore inglese Adam Smith come Luigi va un po’ per conto suo nel duetto del Tabarro, meglio come Rinuccio col pandoro in mano e l’acuto ben piazzato in Gianni Schicchi. Tinca e Talpa (Il tabarro) di lusso sono quelli di Roberto Covatta e Giovanni Furlanetto: il primo offre il suo bel timbro chiaro anche come Gherardo e il secondo diventa lo stralunato Simone, «Podestà a Fucecchio», anche lui tentato dalla Jacuzzi in Gianni Schicchi. Di certo non una debuttante nelle rispettive parti Elena Zilio, perfetta Badessa, come Zita affianca alla sicurezza vocale una carica comica insospettata. Tra i molti italiani del cast si fanno notare il mezzosoprano Annunziata Vestri (La Frugola e la suora Zelatrice) e il soprano Benedetta Torre, nei tre ruoli di Amante, Suor Genovieffa e soprattutto Lauretta. Di eccellente livello tutti gli altri numerosi interpreti. Una sorpresa il mezzosoprano americano Raehann Bryce-Davis che delinea una zia Principessa (Suor Angelica) tutt’altro che decrepita, dalla voce possente e dalla presenza fortemente ostentata: occhiali da sole, borsetta di coccodrillo, scarpe con tacchi a spillo e outfit di Cavalli sbattuto in faccia alle religiose nelle loro misere tonache. Un tocco di intelligente cattiveria da parte del regista.

 

Gianni Schicchi

Giacomo Puccini, Gianni Schicchi

Genoma Films, DO Consulting&Production, Albedo Production, Rai Cinema

39° Torino Film Festival, 27 novembre 2021

Quando un libretto diventa una perfetta sceneggiatura cinematografica

Damiano Michieletto aveva portato in scena il Trittico di Puccini nel 2012 all’An der Wien per poi riproporlo quattro anni dopo per il suo debutto all’Opera di Roma. Ora ritorna al titolo che da subito si è rivelato il più popolare e quello che più degli altri ha vissuto di vita propria, quel Gianni Schicchi unico rimasto del progetto originale di mettere in musica tre pezzi tratti delle tre cantiche dantesche.

La pandemia e la conseguente forzata chiusura dei teatri hanno spinto i registi d’opera a inventare nuove strade: già con il suo Rigoletto al circo Massimo Michieletto aveva optato per una drammaturgia che utilizzava copiosamente il linguaggio cinematografico. Qui ha fatto il passo decisivo, mettendosi dietro la macchina da presa. Prima di uscire nella sale cinematografiche e sugli schermi televisivi, il suo film-opera è stato presentato al 39° Torino Film Festival in una rassegna intitolata “Tracce di teatro. Il respiro della scena”, una sezione fuori concorso che ha ospitato opere che rimandano al mondo del palcoscenico. Con questo suo primo prodotto cinematografico il regista veneziano centra in pieno il bersaglio dimostrando una padronanza sorprendente del mezzo filmico con un racconto incalzante, sequenze fluide e inquadrature intriganti.

Quando si pensa a film-opera, la mente corre se non alle pellicole di Carmine Gallone a quelle di Zeffirelli. Invece, il suo film rimanda più al Don Giovanni di Losey o al Trollflöjten di Bergman per la specificità del linguaggio cinematografico. Gianni Schicchi è stato girato tutto in presa diretta, senza ricorrere al playback, con gli interpreti che cantano dal vivo sulla base orchestrale preregistrata. L’ambientazione è quella di una villa della campagna senese ai nostri giorni e si può fare il nome di Mario Monicelli e del suo Parenti Serpenti per la scelta registica di rifarsi a una certa “commedia all’italiana” per la definizione dei personaggi, tutti attualissimi e già perfettamente delineati dal libretto di Forzano e dalla musica del compositore lucchese. Qui l’opera vera e propria ha un prologo in cui l’attore Giancarlo Giannini interpreta il morto Buoso Donati e rievoca la sua vita di spregiudicato mercante d’arte per poi osservare i parenti scannarsi per l’eredità. Alla fine sarà lui a chiedere al pubblico «l’attenuante». Ancora meno innocente è Gianni Schicchi, un boss di provincia aduso a passare bustarelle alle persone giuste, qui un notaio facile alla corruzione. Poi c’è il gruppo di famiglia: la vecchia gretta, la coppia cafonal, il fallito alcolizzato. Non si salvano neppure i giovani: Lauretta è incinta di Rinuccio e mostra al padre l’ecografia per convincerlo ad affrettare il matrimonio «per Calendimaggio» mentre Gherardino è un obeso marmocchio che si muove solo con lo hoverboard elettrico. L’opera di Puccini ha «tutte le caratteristiche per poter funzionare bene sul grande schermo», afferma il regista, «una storia concisa e ben delineata, dei personaggi caratterizzati in modo credibile, un libretto costruito con battute brevi, incalzanti, ritmate, i giusti colpi di scena, un finale a sorpresa e una musica che mirabilmente unisce e allo stesso tempo potenzia tutta la storia. Un Puccini “cinematografico”».

Con la bellissima fotografia non realistica ma dalla qualità “teatrale” di Alessandro Chiodo e i costumi appropriatissimi di Nicoletta Ercoli e Alessandra Carta, l’aspetto visivo si affida a Paolo Fantin che questa volta non deve costruire geniali mondi artificiali ma usare abilmente i fascinosi interni di una nobile villa per ambientare questa commedia nera. Il mezzo cinematografico permette le divagazioni dei frati gaudenti per l’eredità o i momenti teneri fra i due amanti nell’estate toscana. La “colonna sonora” è fornita dall’orchestra del Comunale di Bologna diretta dall’ardimentoso Stefano Montanari, che non solo ha restituito uno scintillante Puccini nella traccia preregistrata, ma ha diretto instancabilmente i cantanti sul set negli innumerevoli ciak che formano il film. Con il sapiente aiuto del fonico Giandomenico Petillo gli interpreti hanno potuto esprimersi come su un palcoscenico, con la stessa emozione di una recita dal vivo e i risultati sono evidenti: Roberto Frontali fornisce ancora una volta grande prova interpretativa scolpendo il ruolo eponimo con un’azione di sottrazione invece che di aggiunta degli effetti; freschi e vocalmente naturali i due giovani Federica Guida (Lauretta) e Vincenzo Costanzo (Rinuccio); Manuela Custer è una rigida e autorevole Zita; Caterina di Tonno (Nella) e Veronica Simeoni (Ciesca) completano con grande efficacia il reparto femminile. Giacomo Prestia è un truce Simone; Roberto Maietta, Marcello Nardis e Bruno Taddia danno convincente voce a Marco, Gherardo e Betto. Particolarmente caratterizzate sono anche le parti minori del maestro Spinelloccio di Matteo Peirone e del notaio ser Amantio di Domenico Colaianni. I disastrati testimoni sono affidati ad Andrea Pellegrini (Pinellino) e Gaetano Triscari (Guccio).

Eine florentinische Tragödie / Gianni Schicchi

Alexander Zemlinsky, Eine florentinische Tragödie (Una tragedia fiorentina)

Giacomo Puccini, Gianni Schicchi

★★☆☆☆

Torino, Teatro Regio, 23 marzo 2014

Morte a Firenze

Non è solo l’Italia umbertina a scoprire e infatuarsi per il Rinascimento fiorentino – quanti mobili finto Quattrocento nei salotti borghesi e negli studi notarili dell’epoca! Anche oltralpe si guarda alle torbide vicende di quel periodo come occasione per drammi a tinte fosche e passioni violente. Erano nate così: la Francesca da Rimini (1914) di Zandonai, la Mona Lisa (1915) di Max von Schillings, la Violanta (1916) di Korngold, il Palestrina (1917) di Pfitzner, Die Gezeichneten (1918) di Schreker.

Non è da meno Alexander Zemlinsky che in quegli stessi anni mette in musica A Florentine Tragedy di Oscar Wilde, la pièce lasciata incompiuta a causa del processo intentato al suo autore.

Simone, ricco mercante fiorentino, ritorna a casa e trova la moglie Bianca sola con un giovane nobile, Guido Bardi, rampollo unigenito del principe di Firenze. Simone tenta di eludere la scabrosità della situazione sciorinando la logorrea tipica degli affaristi e, facendo mostra di credere che Guido si trovi in casa sua per motivi di affari, gli propone l’acquisto di alcune merci particolarmente preziose. Di fronte alla spavalda insolenza con cui il rivale gli replica, Simone, pur conservando un contegno impenetrabile, sente ribollire il sangue e incomincia a lasciar cadere una serie di allusioni sinistre. Quando Guido, dopo aver baciato Bianca, manifesta l’intenzione di congedarsi, Simone lo costringe a duellare con lui e, avuta la meglio, lo strangola; ma quando si volta verso la moglie infedele, deciso a uccidere anche lei, avviene un inaspettato rovesciamento di sentimenti: fissandosi negli occhi i due cadono l’una nelle braccia dell’altro, chiedendosi in eco: «Perché non mi hai mai detto che eri così forte?» – «Perché non mi hai mai detto che eri così bella?».

La vicenda aveva già tentato il torinese Carlo Ravasegna che aveva composto Una tragedia fiorentina su un libretto in italiano di Ettore Moschino pubblicato nel 1914. Con il libretto in tedesco di Max Meyerfeld, Eine florentinische Tragödie di Zemlinsky era andata in scena a Stoccarda il 30 gennaio 1917 diretta da Max von Schillings. La brevità e incompletezza del lavoro non avevano frenato l’interesse del compositore, allora direttore del Deutsches Landestheater di Praga. Le lacune del testo erano state abilmente risolte e la musica aveva fatto il resto.

«Contrazione della vicenda a un atto unico e riduzione dei personaggi a una rosa ristrettissima erano elementi peculiari del dramma espressionistico: eppure Eine florentinische Tragödie non può essere definita solo come lavoro espressionistico. La poetica estetizzante del beau geste riconduce infatti anche a un clima decadente, intriso di raffinatezza Jugendstil: la sconfitta del dandy da parte del mercante testimonia il prevalere della forza sulla bellezza, ma suggella anche la crisi definitiva dei Des Esseintes e degli Sperelli. Il sapore liberty che pervade l’opera è confermato dall’assenza di ferinità nella lotta silenziosa che i due avversari conducono per la stessa donna: Simone parla di tessuti e di pietre preziose e l’orchestra attutisce l’agitazione del suo battito cardiaco sotto il delicato orpello di arpe, xilofoni, glockenspiel, mandolino, triangolo. La pièce di Wilde si configurava come tragedia della procrastinatio, tutta intessuta cioè sul continuo differimento del climax conclusivo: Zemlinsky ottiene musicalmente un effetto analogo imbrigliando l’orchestra e lasciandola sfogare in un crescendo risolutivo solo negli ultimi minuti dell’azione. Le sonorità di Zemlinsky sono un continuo ricamo che sottilmente si insinua nel testo: questa partitura calibrata sui particolari, su cellule seminascoste come perle nell’ostrica non risalta forse pienamente in una rappresentazione teatrale, ma nasce dalla precisa volontà di tradurre in forma artistica adeguata l’eleganza minuta del verso di Wilde, già necessariamente illanguidito dalla traduzione tedesca in prosa. Il preludio iniziale non assolve solo una funzione introduttiva, ma sostituisce la scena d’amore fra Guido e Bianca, ovviando in parte all’incompiutezza del lavoro wildiano; un precedente analogo si riscontra nel Rosenkavalier e a questo proposito va notato come l’empito cavalleresco che accompagna le sortite del nobile Bardi non sia troppo lontano dai profili straussiani di Oktavian e Don Juan. La vocalità trascorre dal declamato fluente della loquela di Simone al parlato roco su cui si consuma il duello, per riemergere alla melodia spiegata con lo splendido coup de foudre finale, in cui l’amore nasce dalla morte e ogni potenziale trionfalismo viene annullato nella piega dolorosa degli ultimi sussulti cromatici. Il cromatismo pervade l’intera opera senza mai sconfinare in forzature artificiose, perché si sovrappone con grazia perfetta agli addentellati del testo; gli stessi temi, che nel preludio risuonano gonfi di passione, ritornano trasfigurati nel corso della vicenda e le loro metamorfosi sembrano essere il termometro interiore del dramma dei protagonisti. In questo modo si salvaguarda l’unità e insieme la varietà della forma; anche i particolari più espressionistici del testo (ad esempio il presagio del vino versato, come macchia di sangue pronta a dilagare) vengono raccolti in questa rete analitica e addensati in ombre sempre più gravide di minaccia. La leggerezza di certi pizzicati, l’inopinata soavità delle numerose emersioni solistiche delle prime parti orchestrali, gli arabeschi intessuti dall’arpa testimoniano l’originalità della strumentazione di Zemlinsky e si attagliano molto bene all’atmosfera di gioco pericoloso che domina questa insolita conversazione a tre; il preziosismo delle sonorità individua anche con notevole intuito il clima claustrofobico della vicenda, svolta interamente fra quattro mura, in un hortus conclusus che non sa aprirsi verso il mondo (Simone stesso commenta fra sé: “Il mondo intero si è dunque ristretto a questa stanza e ha solo tre anime come abitanti?”). Il respiro melodico, sempre latente eppure sempre trattenuto (come la notte fiorentina, che occhieggia dalla vetrata senza poter spezzare l’incubo della clausura che grava sui tre) si sfoga finalmente nello squarcio lirico del duetto di Bianca e Guido: musica appassionata e febbrile come quella di certe pagine di Berg, che infatti amava molto l’anima espressiva di Zemlinsky. Se il tema sottinteso al dramma di Wilde era quello della bellezza sopraffatta e illanguidita dalla mediocrità quotidiana, la riscrittura operistica di Zemlinsky si svolge come un ininterrotto peana alla bellezza; la scrittura strumentale, precisa e nitida come un fregio di Klimt, e la forma, serrata ed elegante, diventano pendant di un estetismo ormai sconfitto e pronto a mutare la sua tragedia nelle allucinazioni espressionistiche. Proprio il carattere ambiguo dell’abbozzo di Wilde si prestava al trapasso fra questi due mondi spirituali, di cui la Florentinische Tragödie offre una sintesi personalissima». (Elisabetta Fava)

L’atto unico di Zemlinsky è spesso abbinato a un altro breve lavoro ambientato nella Firenze dell’epoca, di tono totalmente diverso e per questo complementare: il Gianni Schicchi di Puccini. Così era successo alla Scala nel 2004, così avviene ora al Regio di Torino che affida a Stefan Anton Reck la direzione del dittico. Sotto la sua bacchetta l’orchestra del teatro riproduce il lirismo sinfonico di Zemlinsky, che dallo stile straussiano vira all’espressionismo della Seconda Scuola di Vienna, con piglio energico ed esuberante. I due interpreti maschili in scena sono Mark S. Doss, autorevole bass-baritono che dà voce a Simone, e Zoran Todorovich, Guido. Insinuante ma mancante di proiezione la Bianca di Ángeles Blancas Gulín.

Del tutto discutibile la realizzazione visiva di Vittorio Borrelli sia nell’ambientazione novecentesca e nella scenografia (di Saverio Santoliquido), che non ha alcuna attinenza con l’attività del personaggio Simone, sia nel finale in cui il regista stravolge completamente l’ironia beffarda del libretto facendo ammazzare la donna dal marito!

Le cose non migliorano con il Gianni Schicchi, non tanto per l’ambientazione novecentesca con lo stesso letto al proscenio, qui non particolarmente incongrua, quanto per il tono dato dal regista, che scambia il grottesco con la farsa, infarcendo di gag una vicenda che vuol mettere in evidenza l’ipocrisia dei parenti, qui trasformati in macchiette scatenate. Va contro corrente Alessandro Corbelli, attore di grande intelligenza, che di Gianni Schicchi dà una raffigurazione sobria molto più in linea con le intenzioni dell’autore. Nella folta schiera di cantanti in scena si stacca la coppia dei giovani Rinuccio e Lauretta, Francesco Meli e Serena Gamberoni, compagni anche nella vita. Qui in Puccini si sente maggiormente la mano pesante del direttore, disattento ai dettagli e con sonorità soverchianti le voci.

Gianni Schicchi

Il regista Woody Allen durante le prove della produzione del 2008

Giacomo Puccini, Gianni Schicchi

★★★☆☆

Los Angeles, Dorothy Chandler Pavilion, 24 settembre 2015

(registrazione video)

Il Gianni Schicchi mafioso di Woody Allen

Applausi a scena aperta da parte del pubblico per la scenografia di Santo Loquasto dell’allestimento del 2008 di Woody Allen ripreso nell’ottobre 2015. Siamo vicini a Hollywood, infatti, e il direttore generale della Los Angeles Opera, Plácido Domingo, si riserva il ruolo titolare in questa prima parte di un double bill che nella seconda recupera la vecchia regia di Zeffirelli per Pagliacci in cui l’inossidabile ex-tenore scende in buca a dirigere l’orchestra. Il tutto per celebrare i trent’anni della compagnia.

Una Firenze da cartolina in bianco e nero fa da sfondo a una scena affollata che richiama più un basso napoletano del dopoguerra che non un palazzo fiorentino del ‘300. La ‘buatta’ per la pasta, i fiaschi di vino, i santini alle pareti: siamo in un film neorealista e Gianni Schicchi è un camorrista in completo gessato mentre sua figlia è una Lauretta molto poco ingenua che sotto l’abito provocante tiene un coltello nel reggicalze. La regia da Napoli milionaria del cineasta americano, ripresa da Kathleen Smith Belcher, non si risparmia nelle trovate: il testamento viene trovato al fondo del pentolone degli spaghetti; il morto viene usato come mendicante e recupera pure qualche moneta nel barattolo; i testimoni sono uno cieco e l’altro addormentato («testes viderunt» annuncia imperterrito il notaio). Alcune sono esilaranti, come il rumore del coltello affilato sulla ringhiera da Gianni Schicchi che ricorda il taglio della mano previsto per i complici del misfatto, o il ruolo del piccolo Gheraldino. Altre sono discutibili: con lo stesso coltello la Zita nel finale ammazza lo Schicchi che ha appena il tempo di pronunciare le sue battute prima di stramazzare a terra tingendo quindi di macabro quella che era una scherzosa burla nelle intenzioni dell’autore.

Il direttore Grant Gershon tiene a bada quanto succede in scena con un cast di buoni caratteristi da cui emerge la Lauretta di Andriana Chuchman. Esperienza e presenza scenica compensano i fiati e le agilità vocali ormai compromesse del grande Plácido qui in un ruolo comico che non è molto nelle sue corde. Ma che importa, le ovazioni sono tutte per lui.

Gianni Schicchi

Giacomo Puccini, Gianni Schicchi

★★★★☆

Piacenza, Teatro Municipale, 22 gennaio 2021

(diretta streaming)

Piacenza omaggia Dante

Tre anni fa il Municipale di Piacenza aveva presentato il Trittico di Puccini nella produzione di Cristina Pezzoli in occasione del centenario della prima rappresentazione avvenuta al Metropolitan di New York il 14 dicembre 1918 – e allora imperversava l’influenza spagnola come adesso un’altra pandemia. La celebrazione ora è ancora più solenne: i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri dal cui canto XXX dell’Inferno è tratto l’episodio di Gianni Schicchi.

Unico titolo della serata, l’esecuzione è preceduta dalla lettura dei versi danteschi da parte dell’attore piacentino Mino Manni sulle immagini del prezioso Codice Landiano custodito nella Biblioteca Comunale. Lo spettacolo avviene a teatro chiuso e senza pubblico e viene trasmesso sulla piattaforma operastreaming. Il regista Renato Bonajuto fa iniziare il suo allestimento con la morte in diretta di Buoso Donati davanti agli ipocriti parenti, una scelta molto discutibile, mentre è ormai accettato che l’ambientazione sia novecentesca, grosso modo il secondo dopoguerra, in un ambiente solenne e austero (scenografie di Danilo Coppola) e della Firenze cantata si veda solo una proiezione in stile pittorico in alto sopra la pesante boiserie. Gustoso il finale, quando oltre la porta si vedono i rossi fumi infernali a cui è destinato da Dante il simpatico «falsatore di persona».

Massimiliano Stefanelli dirige l’orchestra Filarmonica Italiana – non sempre inappuntabile – in una versione ridotta negli strumenti che mette in evidenza ancora di più la modernità della partitura, evidenziando gli interventi dei fiati e i lampi sonori che appartengono alla musica dei russi di primo Novecento. Talora i tempi sembrano un po’ centellinati, ma i concertati sono impeccabili e gli slanci lirici pieni di nostalgia.

Roberto De Candia è uno Schicchi misurato negli effetti comici, ma vocalmente autorevole: la proiezione della voce, la dizione (senza affettare quella toscana che non gli appartiene), l’espressione naturale, il fraseggio e i piani sonori sono tutti elementi atti a costruire il personaggio che si presenta all’inizio come un cafone della campagna per poi diventare l’archetipo dell’italiano furbo e maneggione, sempre attuale. Nella compagnia di canto, non tutta allo stesso livello di qualità, spiccano i due giovani: Matteo Desole ha una voce luminosa e acuti non gridati con cui dipinge perfettamente la vena lirica e spavalda di Rinuccio; Giuliana Gianfaldoni è una sensibile Lauretta che quando nel silenzio dell’orchestra attacca «O mio babbino caro» riesce ancora una volta a far luccicare gli occhi dall’emozione.

Francesca da Rimini

Riccardo Zandonai, Francesca da Rimini

★★★★☆

Berlino, Deutsche Oper, 14 marzo 2021

(video streaming)

Tre fratelli: il bello, l’orbo e lo zoppo

Forse non sarà una vera e propria rivalutazione della Francesca da Rimini, ma pochi altri lavori di quell’epoca stanno godendo di un tale interesse. In poco tempo ci sono state ben quattro importanti produzioni in quattro diversi grandi teatri: Parigi (2011), Strasburgo e Milano (2018), ora Berlino. Se lo merita l’eclettica creazione del compositore e direttore trentino?

Sesta della dozzina di opere per il teatro, la Francesca da Rimini conferma le capacità di orchestrazione di Riccardo Zandonai, un autore che ha cercato di immettere nell’opera italiana verista le arditezze armoniche e gl’impasti coloristici della musica straniera senza però rinunciare alla propria vena melodica e al gusto strumentale che troviamo nei momenti più inattesi del suo lavoro. Come quando alle parole di Francesca «Su, levati! Non hai colpa mia povera Smaragdi, non hai colpa» l’orchestra sostiene la semplice frase con un motivo che sembra nato da Wagner ma espresso da Janáček per quelle ondulazioni che richiamano il finale di Jenůfa. Un breve momento che rifulge come un gioiello prezioso incastonato in un mosaico rutilante di colori. Poco oltre sulle parole «Guardate il mare come si fa bianco!» in orchestra passa un fremito che avrebbe potuto scrivere Debussy (La mer è del 1905). E così via. È chiaro che l’Italietta dei compositori di inizio secolo conosceva bene quanto avveniva oltr’alpe.

I cinque atti della tragedia di Gabriele D’Annunzio, rappresentata per la prima volta dalla Compagnia di Eleonora Duse al Costanzi di Roma nel dicembre 1901, diventano quattro nel libretto di Tito (II) Ricordi. Le fonti dantesche e boccaccesche erano state alla base dell’omonimo lavoro di Mercadante (1831), della Françoise de Rimini (1882) di Thomas e dell’atto unico di Rachmaninov (1906), ma quello che va in scena nel 1914 al Regio di Torino è un atto di ammirazione da parte dell’editore milanese per il Vate che gli cedette a caro prezzo i diritti sul testo. Testo che mantiene fedelmente le preziosità del linguaggio d’annunziano – e in certi punti è il ricorso alla traduzione in inglese che rende chiaro il significato! – poiché ne sfronda semplicemente molti versi e mantiene la citazione letterale, come nel canto delle quattro donne di Francesca nella scena terza del III atto: «Marzo è giunto e febbraio | gito se n’è col ghiado. | Or lasceremo il vaio | per veste di zendado, | e andrem passando a guado | acque di rii novelli | tra chinati arboscelli verzicanti, | con stromenti e con canti in compagnia | di presti drudi o nella prateria | iscegliendo viole | ove redole più l’erba, de’ nudi | piedi che al sole v’ebbe primavera».

Le influenze wagneriene e debussyane nella partitura sono ben chiare a Carlo Rizzi che conduce l’orchestra del teatro lontana in sala prove con grande senso del teatro e qualche taglio. Sara Jakubiak, che era già stata l’interprete di Das Wunder der Heliane di Korngold che lo stesso Loy aveva portato sulle scene della Deutsche Oper, veste i panni della protagonista femminile. Nonostante la cattiva dizione, il soprano americano delinea con efficacia una donna guidata dalla passione e dalla volontà di distruzione, che si esalta fino all’ebrezza nello scontro sanguinoso fra i guelfi Malatesta e i ghibellini Parcitadi e ha un’ambigua fatale attrazione per il cognato Malatestino. Una certa durezza di emissione allontana il personaggio dalla figura preraffaelita che voleva D’Annunzio, ma la rende più coerente alla visione del regista. Paolo è Bello di nome di fatto con Jonathan Tetelman, tenore di grande proiezione e notevole tenuta ma che dovrebbe imparare a modulare il suo generoso mezzo vocale con maggior espressività utilizzando anche le mezze voci ogni tanto. Omogeneo e di qualità il resto del cast dal Gianciotto di Ivan Inverardi al Malatestino di Charles Workman, dall’Ostasio di Samuel Dale Johnson alla Samaritana di Alexandra Hutton alle quattro donne di Francesca tra cui si stacca per trepida sensibilità la Biancofiore di Meechot Marrero.

Come per l’opera di Korngold, anche qui Loy sceglie un’ambientazione moderna e borghese: la scenografia di Johannes Leiacker mostra un interno dove una parete tappezzata si apre in una specie di veranda i cui finestroni danno su un paesaggio romantico che è l’esatta replica del quadro di Claude Lorrain L’aube ora all’Hermitage. Nettamente distinti i costumi di Klaus Bruns: nero elegante per Francesca, bianco per le sue donne, completo nero e camicia bianca per gli uomini. Sempre molto curato l’aspetto attoriale, come è costume negli allestimenti di Christof Loy, ma un grosso errore è far baciare al primo incontro i due protagonisti, prima ancora che si parlino. Un gesto incongruo in tutti i sensi che toglie pathos al rapporto fra i due cognati. Magnificamente reso era stato invece il momento dell’arrivo di Paolo, così come lo sarà quello del loro furioso amplesso, anche se turbato da una lampo che si inceppa e lascia la donna infagottata nella sua ampia gonna invece che in sottoveste come risulta nelle foto della prova generale.

La produzione berlinese sembra far propendere per una risposta affermativa alla domanda iniziale: Francesca da Rimini più che l’ultima opera verista può essere considerata la prima vera opera italiana moderna – la Turandot di Puccini è di dieci anni dopo – e qui sta il suo interesse.

Francesca da Rimini

 

Riccardo Zandonai, Francesca da Rimini

★★★★☆

Milan, Teatro alla Scala, 15 April 2018

2000px-Flag_of_Italy.svg  Qui la versione in italiano

Breaking with Verismo: Zandonai’s Francesca da Rimini returns to La Scala

In the eagerness for new works that permeated the eve of World War I, Riccardo Zandonai’s Francesca da Rimini broke with Verismo to enter into a full decadent climate: Francesca lost Santuzza or Fedora’s passionate connotation to become a Dante Gabriele Rossetti character, a Pre-Raphaelite figure.

Probably unaware of Ambrose Thomas’ Françoise de Rimini (1882) or Tchaikovsky’s symphonic poem (1877), Zandonai noted that Middle and Renaissance Ages were very fashionable in Italy at the time…

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Francesca da Rimini

Riccardo Zandonai, Francesca da Rimini

★★★★☆

Milano, Teatro alla Scala, 15 aprile 2018

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Alla Scala ritorna l’opera che aveva chiuso col Verismo

Nell’ansia di novità che permeava il mondo musicale italiano alla vigilia della Grande Guerra, la Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai rompeva con il Verismo per entrare in pieno clima floreale e decadentista: Francesca perdeva la connotazione passionale di Santuzza o di Fedora per diventare una figura alla Dante Gabriele Rossetti, una figura in stile preraffaellita.

Probabilmente ignaro della Françoise de Rimini (1882) di Ambroise Thomas o del poema sinfonico di Čajkovskij (1877), Zandonai riprendeva quell’evo medio e rinascimentale molto di moda nel primo Novecento in Italia. Il testo glielo forniva il poeta più acclamato del momento, quel Gabriele D’Annunzio la cui lingua artificiosissima ed estetizzante, ricca di citazioni erudite e di un lessico al limite del comprensibile per un italiano d’oggi, trovava corrispondenza nell’impiego sapiente di strumenti e di modi musicali antichi.

La Francesca da Rimini riecheggia non solo nella vicenda dei cognati amanti l’opera di Debussy, ma anche nelle trascoloranti e liquide atmosfere musicali. La storia si interseca poi con quella del Tristano più volte citato nel libretto (la coppa, la magia) e di Lancillotto e Ginevra, le cui vicende, raccontate nel ciclo arturiano, i due giovani leggono con avidità.

Se la tragedia di D’Annunzio nel 1901 al Teatro Costanzi di Roma non ebbe il successo sperato nonostante la presenza della “divina” Eleonora Duse, le cose andarono molto meglio alla prima torinese dell’opera di Zandonai che vedrà in seguito nel ruolo titolare interpreti come Magda Olivero, Leyla Gencer o Rajna Kabaivanska, quest’ultima presente in platea come spettatrice per questa nuova edizione alla Scala che arriva dopo sessant’anni di assenza dal teatro milanese.

Il direttore Fabio Luisi dà della partitura una lettura incalzante che non trascura però i momenti di lirismo e di abbandono di cui è ricca quest’opera atmosferica, crepuscolare e che, come il Tristano, predilige il buio notturno – «Nemica ebbi la luce, | amica ebbi la notte» canterà a un certo punto Paolo. I momenti di maggior teatralità come la violenza della battaglia e i duetti tra Francesca e Malatestino o tra questo e il fratello maggiore sono resi con grande efficacia e attenzione alle preziosità orchestrali. L’utilizzo di strumenti antichi desueti è quello che differenzia quest’opera di Zandonai, come i pifferi, il liuto, la viola pomposa, la quale da solista dipana il tema dell’amore che ritornerà in seguto nell’opera.

La compagnia di canto si basa su solidi interpreti. Nell’impervio ruolo del titolo Maria José Siri non ha forse l’eleganza scenica di una figura preraffaellita, ma vocalmente l’espressione e il temperamento costruiscono un personaggio complesso, con le sue malinconie, le sue passioni, le sue ribellioni al violento mondo maschile che la circonda. I temibili acuti sono affrontati e realizzati con sicurezza, dal soprano uruguaiano e i passaggi di registro omogenei ed equilibrati.

Chiamato all’ultimo momento a sostituire Roberto Aronica, Marcelo Puente è Paolo il Bello, personaggio in cui l’abbandono al lirismo e a suadenti mezze voci si affianca un declamato vigoroso. Purtroppo il timbro nasale del tenore argentino e una certa povertà di espressione non rendono la sensualità del personaggio che risulta vocalmente corretto ma puramente esteriore. Gianciotto, il fratello sciancato, trova in Gabriele Viviani l’interprete giusto, così come avviene con Luciano Ganci, Malatestino, il terzo fratello sadico e morboso. Alisa Kolosova è la trepidante sorella Samaritana, mentre delle donne del seguito di Francesca ricordiamo almeno Sara Rossini, giovane allieva dell’Accademia del teatro, qui una sensibile Biancofiore.

Complessa e piena di simbolismi la messa in scena di David Pountney. Il “giardino brillante” del testo nella scenografia di Leslie Travers è un ambiente di un bianco abbagliante dominato da una gigantesca figura femminile che alla fine del primo atto verrà trapassata da punte acuminate con l’irruzione del violento mondo maschile. La scena di guerra che segue è realizzata tramite una minacciosa struttura girevole con cannoni e i lampi dei loro spari concludono il secondo atto. Giocata così buona parte degli effetti scenografici, nel terzo atto David Pountney ritorna all’ambiente “femminile” in cui però fa intrusione un biplano abbattuto per ricordare i trascorsi militaristi dell’autore dei versi – il quale in ugual misura amava i corpi femminili e l’eroismo di guerra. Su questi due aspetti si basa infatti la visione del regista: le donne vivono in una specie di atelier d’artista tra profumi, musiche e racconti sensuali, i maschi sempre vestiti da guerra e pronti a scannarsi a vicenda. Come sintetizza il regista, nell’universo di D’Annunzio le donne esistono solo per fare l’amore e gli uomini per spargere sangue. Anche quando nel terzo atto le donne sono soldatesse al tavolo di comando, esse non vedono l’ora di sbarazzarsi delle uniformi per intrecciare la danza della primavera nei loro fluenti abiti bianchi.

Non prevista dal libretto la morte del giullare: qui Ostasio, l’arrogante fratello di Francesca in uniforme da gerarca fascista, uccide con un colpo di pistola il povero musicante. Il suo cadavere viene pietosamente coperto dalle donne con quelle “pezzuole di scarlatto” che il poveretto aveva elemosinato fin da subito per coprire gli strappi del suo costume. Particolare impietoso il fatto che la rosa posata sul cadavere sia poi quella che Francesca dona a Paolo credendolo suo futuro sposo dopo averlo visto apparire in un’armatura e su un cavallo tutti sfavillanti d’oro. I costumi di Marie-Jeanne Lecca alludono a varie epoche: quelli delle donne ai tempi antichi ma rivisti con il gusto Liberty, quelli degli uomini a militari della Grande Guerra con tocchi medioevali.

Francesca da Rimini

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Riccardo Zandonai, Francesca da Rimini

★★☆☆☆

Parigi, Opéra Bastille, 7 febbraio 2011

(registrazione video)

Il liberty di plastica di Giancarlo del Monaco

Il libretto di Tito Ricordi è tratto dalla omonima tragedia in cinque atti di Gabriele D’Annunzio rappresentata dalla Duse nel 1901. Il «poema di sangue e di lussuria», secondo le parole del poeta, viene ampiamente sfrondato, ma il librettista non rinuncia alle preziosità dei versi dannunziani ricreandone a suo modo il “falso antico”: «Per la terra di maggio l’arcadore in gualdana | va caendo vivanda. | A convito selvaggio | in contrada lontana | uno cor si domanda…». I cascami letterari includono anche «datteri fronzuti», «camminature alla reale», «gito se n’è col ghiado», «chinati arboscelli verzicanti», «ove redole più l’erba» eccetera.

Alla prima del Teatro Regio di Torino il 19 febbraio 1914 il Vate non era presente né sembra che mai abbia voluto vedere quest’opera che aveva ascoltato a Parigi l’anno prima suonata da Zandonai stesso sul pianoforte in casa di Lina Cavalieri senza rimanerne entusiasta.

Atto primo. A Ravenna, in casa dei da Polenta. Francesca da Polenta, figlia del signore della città, Guido, sta per sposare Gianciotto Malatesta, giovane sciancato: lei crede, ingannata, che lo sposo sia in realtà il fratello di Gianciotto, il bel Paolo, che vede palpitando. La sorella di Francesca, Samaritana, è colta da un fosco presagio e le chiede di rinunciare al matrimonio; ma Francesca è salda nel convincimento.
Atto secondo. Durante la guerra che oppone a Rimini i Malatesta e i Parcitadi. Paolo si fa onore, con accanto, sulla torre, Francesca, che lo rimprovera per l’inganno subito col matrimonio. Ella lo crede ferito e lo accarezza, gli prende la testa fra le mani. Arriva Gianciotto, non parco di lodi per il valore del fratello Paolo. Brindano. Paolo e Francesca si guardano con intensi sensi. Arriva il terzo fratello, Malatestino, ferito. La lotta riprende furiosa.
Atto terzo. Francesca legge storie d’amore e ascolta musica. Entra Paolo, reduce da un lungo viaggio. Le mostra amore, ella quasi gli cede. Leggono di Lancillotto, come amor lo strinse. Soli e senza alcun sospetto, quando leggono il disiato riso di Ginevra esser baciato da cotanto amante, Lancillotto, non leggono più e Paolo, tutto tremante, bacia Francesca. Libro galeotto.
Atto quarto. Il terzo fratello, Malatestino, è innamorato pure lui di Francesca. Ella si rifiuta. Si ode il grido di un carcerato, e Malatestino, crudele, a spada sguainata va a far cessare quel lamento, mentre Francesca si lamenta con il marito Gianciotto delle profferte di Malatestino. Credendo forse Francesca Salome, Malatestino rientra con la testa mozza del carcerato che gridava. Francesca, che non è Salome, fugge in preda all’orrore. Quando Gianciotto lo rimprovera, Malatestino non ce la fa più e rivela quel che sa di Paolo e Francesca. Gianciotto, con un inganno, scopre tutto. Sorprende i due abbracciati e li consegna all’eternità.

«Ricchissima di echi di esperienze recenti, da Richard Strauss a Debussy, la pagina di Zandonai tiene presente il magistero wagneriano: mai si parlerà, tuttavia, di eclettismo, quanto del ‘rimpasto’ della cultura allora di punta nell’Europa musicale secondo una personalità tra le più originali del melodramma italiano del Novecento. Allievo di Mascagni, Zandonai non dimentica mai le esperienze più raffinate del maestro […] come molte tracce si rilevano da quel Puccini curioso della sperimentazione che la critica e le esecuzioni più avvertite non hanno mancato di mostrare». (Raffaele Manica)

A quasi cent’anni dalla prima, nel febbraio 2011 all’Opéra Bastille di Parigi Francesca da Rimini va in scena nell’allestimento di Giancarlo del Monaco che sceglie un’ambientazione liberty – nel primo atto sembra di essere in una serra dei Kew Gardens con i fiori di plastica, nel terzo e quarto all’interno del Vittoriale con il suo bric-à-brac – che fa decisamente a pugni con i giullari, i sirventesi, i liuti, i farsetti, i guarnacchini, le cennamelle, i ribecchi, le falàriche, le bertesche e i targoni del testo. L’infatuazione di metà Ottocento per il medievalismo non arrivava a tanto, si limitava ai tessuti di Fortuny o ai mobili e alle architetture in stile neogotico. Incomprensibili poi certi errori di regia: «Inginòcchiati» dice Francesca a Paolo già inginocchiato, o «Dammi da bere» chiede Malatestino al fratello dopo aver tracannato dal suo bicchiere o ancora «Malatestino vieni!», ma ha già agguantato il giovane!

Tra l’orchestra e le voci in scena c’è una gara a chi spara più decibel: Daniel Oren non ha a modello Debussy, quanto il verismo più sguaiato ed essendo così tutto forte e sopra le righe viene a mancare il pathos di momenti come quelli del bacio o dell’uccisone degli amanti con cui si conclude il quarto atto.

Svetla Vassileva è una Francesca urlante e anche George Gadnidze, Gianciotto in sedia a rotelle, non può far di meno. Grottesco ogni dire il Malatestino di William Joyner, non proprio il fanciullo del libretto. Roberto Alagna come sempre è un modello di stile e di vocalità ed è anche l’unico a fornire la corretta dizione. Tocca infatti sentire ‘sièti’ invece di ‘sïeti’ , ‘rosvegliata’ invece di ‘risvegliata’ e così via.

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