
∙
Riccardo Zandonai, Francesca da Rimini
★★★★☆
Milano, Teatro alla Scala, 15 aprile 2018
Click here for the English version
Alla Scala ritorna l’opera che aveva chiuso col Verismo
Nell’ansia di novità che permeava il mondo musicale italiano alla vigilia della Grande Guerra, la Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai rompeva con il Verismo per entrare in pieno clima floreale e decadentista: Francesca perdeva la connotazione passionale di Santuzza o di Fedora per diventare una figura alla Dante Gabriele Rossetti, una figura in stile preraffaellita.
Probabilmente ignaro della Françoise de Rimini (1882) di Ambroise Thomas o del poema sinfonico di Čajkovskij (1877), Zandonai riprendeva quell’evo medio e rinascimentale molto di moda nel primo Novecento in Italia. Il testo glielo forniva il poeta più acclamato del momento, quel Gabriele D’Annunzio la cui lingua artificiosissima ed estetizzante, ricca di citazioni erudite e di un lessico al limite del comprensibile per un italiano d’oggi, trovava corrispondenza nell’impiego sapiente di strumenti e di modi musicali antichi.
La Francesca da Rimini riecheggia non solo nella vicenda dei cognati amanti l’opera di Debussy, ma anche nelle trascoloranti e liquide atmosfere musicali. La storia si interseca poi con quella del Tristano più volte citato nel libretto (la coppa, la magia) e di Lancillotto e Ginevra, le cui vicende, raccontate nel ciclo arturiano, i due giovani leggono con avidità.
Se la tragedia di D’Annunzio nel 1901 al Teatro Costanzi di Roma non ebbe il successo sperato nonostante la presenza della “divina” Eleonora Duse, le cose andarono molto meglio alla prima torinese dell’opera di Zandonai che vedrà in seguito nel ruolo titolare interpreti come Magda Olivero, Leyla Gencer o Rajna Kabaivanska, quest’ultima presente in platea come spettatrice per questa nuova edizione alla Scala che arriva dopo sessant’anni di assenza dal teatro milanese.
Il direttore Fabio Luisi dà della partitura una lettura incalzante che non trascura però i momenti di lirismo e di abbandono di cui è ricca quest’opera atmosferica, crepuscolare e che, come il Tristano, predilige il buio notturno – «Nemica ebbi la luce, | amica ebbi la notte» canterà a un certo punto Paolo. I momenti di maggior teatralità come la violenza della battaglia e i duetti tra Francesca e Malatestino o tra questo e il fratello maggiore sono resi con grande efficacia e attenzione alle preziosità orchestrali. L’utilizzo di strumenti antichi desueti è quello che differenzia quest’opera di Zandonai, come i pifferi, il liuto, la viola pomposa, la quale da solista dipana il tema dell’amore che ritornerà in seguto nell’opera.
La compagnia di canto si basa su solidi interpreti. Nell’impervio ruolo del titolo Maria José Siri non ha forse l’eleganza scenica di una figura preraffaellita, ma vocalmente l’espressione e il temperamento costruiscono un personaggio complesso, con le sue malinconie, le sue passioni, le sue ribellioni al violento mondo maschile che la circonda. I temibili acuti sono affrontati e realizzati con sicurezza, dal soprano uruguaiano e i passaggi di registro omogenei ed equilibrati.
Chiamato all’ultimo momento a sostituire Roberto Aronica, Marcelo Puente è Paolo il Bello, personaggio in cui l’abbandono al lirismo e a suadenti mezze voci si affianca un declamato vigoroso. Purtroppo il timbro nasale del tenore argentino e una certa povertà di espressione non rendono la sensualità del personaggio che risulta vocalmente corretto ma puramente esteriore. Gianciotto, il fratello sciancato, trova in Gabriele Viviani l’interprete giusto, così come avviene con Luciano Ganci, Malatestino, il terzo fratello sadico e morboso. Alisa Kolosova è la trepidante sorella Samaritana, mentre delle donne del seguito di Francesca ricordiamo almeno Sara Rossini, giovane allieva dell’Accademia del teatro, qui una sensibile Biancofiore.
Complessa e piena di simbolismi la messa in scena di David Pountney. Il “giardino brillante” del testo nella scenografia di Leslie Travers è un ambiente di un bianco abbagliante dominato da una gigantesca figura femminile che alla fine del primo atto verrà trapassata da punte acuminate con l’irruzione del violento mondo maschile. La scena di guerra che segue è realizzata tramite una minacciosa struttura girevole con cannoni e i lampi dei loro spari concludono il secondo atto. Giocata così buona parte degli effetti scenografici, nel terzo atto David Pountney ritorna all’ambiente “femminile” in cui però fa intrusione un biplano abbattuto per ricordare i trascorsi militaristi dell’autore dei versi – il quale in ugual misura amava i corpi femminili e l’eroismo di guerra. Su questi due aspetti si basa infatti la visione del regista: le donne vivono in una specie di atelier d’artista tra profumi, musiche e racconti sensuali, i maschi sempre vestiti da guerra e pronti a scannarsi a vicenda. Come sintetizza il regista, nell’universo di D’Annunzio le donne esistono solo per fare l’amore e gli uomini per spargere sangue. Anche quando nel terzo atto le donne sono soldatesse al tavolo di comando, esse non vedono l’ora di sbarazzarsi delle uniformi per intrecciare la danza della primavera nei loro fluenti abiti bianchi.
Non prevista dal libretto la morte del giullare: qui Ostasio, l’arrogante fratello di Francesca in uniforme da gerarca fascista, uccide con un colpo di pistola il povero musicante. Il suo cadavere viene pietosamente coperto dalle donne con quelle “pezzuole di scarlatto” che il poveretto aveva elemosinato fin da subito per coprire gli strappi del suo costume. Particolare impietoso il fatto che la rosa posata sul cadavere sia poi quella che Francesca dona a Paolo credendolo suo futuro sposo dopo averlo visto apparire in un’armatura e su un cavallo tutti sfavillanti d’oro. I costumi di Marie-Jeanne Lecca alludono a varie epoche: quelli delle donne ai tempi antichi ma rivisti con il gusto Liberty, quelli degli uomini a militari della Grande Guerra con tocchi medioevali.
⸪