Tito Ricordi

Francesca da Rimini

Riccardo Zandonai, Francesca da Rimini

★★★★☆

Berlino, Deutsche Oper, 14 marzo 2021

(video streaming)

Tre fratelli: il bello, l’orbo e lo zoppo

Forse non sarà una vera e propria rivalutazione della Francesca da Rimini, ma pochi altri lavori di quell’epoca stanno godendo di un tale interesse. In poco tempo ci sono state ben quattro importanti produzioni in quattro diversi grandi teatri: Parigi (2011), Strasburgo e Milano (2018), ora Berlino. Se lo merita l’eclettica creazione del compositore e direttore trentino?

Sesta della dozzina di opere per il teatro, la Francesca da Rimini conferma le capacità di orchestrazione di Riccardo Zandonai, un autore che ha cercato di immettere nell’opera italiana verista le arditezze armoniche e gl’impasti coloristici della musica straniera senza però rinunciare alla propria vena melodica e al gusto strumentale che troviamo nei momenti più inattesi del suo lavoro. Come quando alle parole di Francesca «Su, levati! Non hai colpa mia povera Smaragdi, non hai colpa» l’orchestra sostiene la semplice frase con un motivo che sembra nato da Wagner ma espresso da Janáček per quelle ondulazioni che richiamano il finale di Jenůfa. Un breve momento che rifulge come un gioiello prezioso incastonato in un mosaico rutilante di colori. Poco oltre sulle parole «Guardate il mare come si fa bianco!» in orchestra passa un fremito che avrebbe potuto scrivere Debussy (La mer è del 1905). E così via. È chiaro che l’Italietta dei compositori di inizio secolo conosceva bene quanto avveniva oltr’alpe.

I cinque atti della tragedia di Gabriele D’Annunzio, rappresentata per la prima volta dalla Compagnia di Eleonora Duse al Costanzi di Roma nel dicembre 1901, diventano quattro nel libretto di Tito (II) Ricordi. Le fonti dantesche e boccaccesche erano state alla base dell’omonimo lavoro di Mercadante (1831), della Françoise de Rimini (1882) di Thomas e dell’atto unico di Rachmaninov (1906), ma quello che va in scena nel 1914 al Regio di Torino è un atto di ammirazione da parte dell’editore milanese per il Vate che gli cedette a caro prezzo i diritti sul testo. Testo che mantiene fedelmente le preziosità del linguaggio d’annunziano – e in certi punti è il ricorso alla traduzione in inglese che rende chiaro il significato! – poiché ne sfronda semplicemente molti versi e mantiene la citazione letterale, come nel canto delle quattro donne di Francesca nella scena terza del III atto: «Marzo è giunto e febbraio | gito se n’è col ghiado. | Or lasceremo il vaio | per veste di zendado, | e andrem passando a guado | acque di rii novelli | tra chinati arboscelli verzicanti, | con stromenti e con canti in compagnia | di presti drudi o nella prateria | iscegliendo viole | ove redole più l’erba, de’ nudi | piedi che al sole v’ebbe primavera».

Le influenze wagneriene e debussyane nella partitura sono ben chiare a Carlo Rizzi che conduce l’orchestra del teatro lontana in sala prove con grande senso del teatro e qualche taglio. Sara Jakubiak, che era già stata l’interprete di Das Wunder der Heliane di Korngold che lo stesso Loy aveva portato sulle scene della Deutsche Oper, veste i panni della protagonista femminile. Nonostante la cattiva dizione, il soprano americano delinea con efficacia una donna guidata dalla passione e dalla volontà di distruzione, che si esalta fino all’ebrezza nello scontro sanguinoso fra i guelfi Malatesta e i ghibellini Parcitadi e ha un’ambigua fatale attrazione per il cognato Malatestino. Una certa durezza di emissione allontana il personaggio dalla figura preraffaelita che voleva D’Annunzio, ma la rende più coerente alla visione del regista. Paolo è Bello di nome di fatto con Jonathan Tetelman, tenore di grande proiezione e notevole tenuta ma che dovrebbe imparare a modulare il suo generoso mezzo vocale con maggior espressività utilizzando anche le mezze voci ogni tanto. Omogeneo e di qualità il resto del cast dal Gianciotto di Ivan Inverardi al Malatestino di Charles Workman, dall’Ostasio di Samuel Dale Johnson alla Samaritana di Alexandra Hutton alle quattro donne di Francesca tra cui si stacca per trepida sensibilità la Biancofiore di Meechot Marrero.

Come per l’opera di Korngold, anche qui Loy sceglie un’ambientazione moderna e borghese: la scenografia di Johannes Leiacker mostra un interno dove una parete tappezzata si apre in una specie di veranda i cui finestroni danno su un paesaggio romantico che è l’esatta replica del quadro di Claude Lorrain L’aube ora all’Hermitage. Nettamente distinti i costumi di Klaus Bruns: nero elegante per Francesca, bianco per le sue donne, completo nero e camicia bianca per gli uomini. Sempre molto curato l’aspetto attoriale, come è costume negli allestimenti di Christof Loy, ma un grosso errore è far baciare al primo incontro i due protagonisti, prima ancora che si parlino. Un gesto incongruo in tutti i sensi che toglie pathos al rapporto fra i due cognati. Magnificamente reso era stato invece il momento dell’arrivo di Paolo, così come lo sarà quello del loro furioso amplesso, anche se turbato da una lampo che si inceppa e lascia la donna infagottata nella sua ampia gonna invece che in sottoveste come risulta nelle foto della prova generale.

La produzione berlinese sembra far propendere per una risposta affermativa alla domanda iniziale: Francesca da Rimini più che l’ultima opera verista può essere considerata la prima vera opera italiana moderna – la Turandot di Puccini è di dieci anni dopo – e qui sta il suo interesse.

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Francesca da Rimini

 

Riccardo Zandonai, Francesca da Rimini

★★★★☆

Milan, Teatro alla Scala, 15 April 2018

2000px-Flag_of_Italy.svg  Qui la versione in italiano

Breaking with Verismo: Zandonai’s Francesca da Rimini returns to La Scala

In the eagerness for new works that permeated the eve of World War I, Riccardo Zandonai’s Francesca da Rimini broke with Verismo to enter into a full decadent climate: Francesca lost Santuzza or Fedora’s passionate connotation to become a Dante Gabriele Rossetti character, a Pre-Raphaelite figure.

Probably unaware of Ambrose Thomas’ Françoise de Rimini (1882) or Tchaikovsky’s symphonic poem (1877), Zandonai noted that Middle and Renaissance Ages were very fashionable in Italy at the time…

continues on bachtrack.com

Francesca da Rimini

Riccardo Zandonai, Francesca da Rimini

★★★★☆

Milano, Teatro alla Scala, 15 aprile 2018

2000px-Flag_of_the_United_Kingdom.svg Click here for the English version

Alla Scala ritorna l’opera che aveva chiuso col Verismo

Nell’ansia di novità che permeava il mondo musicale italiano alla vigilia della Grande Guerra, la Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai rompeva con il Verismo per entrare in pieno clima floreale e decadentista: Francesca perdeva la connotazione passionale di Santuzza o di Fedora per diventare una figura alla Dante Gabriele Rossetti, una figura in stile preraffaellita.

Probabilmente ignaro della Françoise de Rimini (1882) di Ambroise Thomas o del poema sinfonico di Čajkovskij (1877), Zandonai riprendeva quell’evo medio e rinascimentale molto di moda nel primo Novecento in Italia. Il testo glielo forniva il poeta più acclamato del momento, quel Gabriele D’Annunzio la cui lingua artificiosissima ed estetizzante, ricca di citazioni erudite e di un lessico al limite del comprensibile per un italiano d’oggi, trovava corrispondenza nell’impiego sapiente di strumenti e di modi musicali antichi.

La Francesca da Rimini riecheggia non solo nella vicenda dei cognati amanti l’opera di Debussy, ma anche nelle trascoloranti e liquide atmosfere musicali. La storia si interseca poi con quella del Tristano più volte citato nel libretto (la coppa, la magia) e di Lancillotto e Ginevra, le cui vicende, raccontate nel ciclo arturiano, i due giovani leggono con avidità.

Se la tragedia di D’Annunzio nel 1901 al Teatro Costanzi di Roma non ebbe il successo sperato nonostante la presenza della “divina” Eleonora Duse, le cose andarono molto meglio alla prima torinese dell’opera di Zandonai che vedrà in seguito nel ruolo titolare interpreti come Magda Olivero, Leyla Gencer o Rajna Kabaivanska, quest’ultima presente in platea come spettatrice per questa nuova edizione alla Scala che arriva dopo sessant’anni di assenza dal teatro milanese.

Il direttore Fabio Luisi dà della partitura una lettura incalzante che non trascura però i momenti di lirismo e di abbandono di cui è ricca quest’opera atmosferica, crepuscolare e che, come il Tristano, predilige il buio notturno – «Nemica ebbi la luce, | amica ebbi la notte» canterà a un certo punto Paolo. I momenti di maggior teatralità come la violenza della battaglia e i duetti tra Francesca e Malatestino o tra questo e il fratello maggiore sono resi con grande efficacia e attenzione alle preziosità orchestrali. L’utilizzo di strumenti antichi desueti è quello che differenzia quest’opera di Zandonai, come i pifferi, il liuto, la viola pomposa, la quale da solista dipana il tema dell’amore che ritornerà in seguto nell’opera.

La compagnia di canto si basa su solidi interpreti. Nell’impervio ruolo del titolo Maria José Siri non ha forse l’eleganza scenica di una figura preraffaellita, ma vocalmente l’espressione e il temperamento costruiscono un personaggio complesso, con le sue malinconie, le sue passioni, le sue ribellioni al violento mondo maschile che la circonda. I temibili acuti sono affrontati e realizzati con sicurezza, dal soprano uruguaiano e i passaggi di registro omogenei ed equilibrati.

Chiamato all’ultimo momento a sostituire Roberto Aronica, Marcelo Puente è Paolo il Bello, personaggio in cui l’abbandono al lirismo e a suadenti mezze voci si affianca un declamato vigoroso. Purtroppo il timbro nasale del tenore argentino e una certa povertà di espressione non rendono la sensualità del personaggio che risulta vocalmente corretto ma puramente esteriore. Gianciotto, il fratello sciancato, trova in Gabriele Viviani l’interprete giusto, così come avviene con Luciano Ganci, Malatestino, il terzo fratello sadico e morboso. Alisa Kolosova è la trepidante sorella Samaritana, mentre delle donne del seguito di Francesca ricordiamo almeno Sara Rossini, giovane allieva dell’Accademia del teatro, qui una sensibile Biancofiore.

Complessa e piena di simbolismi la messa in scena di David Pountney. Il “giardino brillante” del testo nella scenografia di Leslie Travers è un ambiente di un bianco abbagliante dominato da una gigantesca figura femminile che alla fine del primo atto verrà trapassata da punte acuminate con l’irruzione del violento mondo maschile. La scena di guerra che segue è realizzata tramite una minacciosa struttura girevole con cannoni e i lampi dei loro spari concludono il secondo atto. Giocata così buona parte degli effetti scenografici, nel terzo atto David Pountney ritorna all’ambiente “femminile” in cui però fa intrusione un biplano abbattuto per ricordare i trascorsi militaristi dell’autore dei versi – il quale in ugual misura amava i corpi femminili e l’eroismo di guerra. Su questi due aspetti si basa infatti la visione del regista: le donne vivono in una specie di atelier d’artista tra profumi, musiche e racconti sensuali, i maschi sempre vestiti da guerra e pronti a scannarsi a vicenda. Come sintetizza il regista, nell’universo di D’Annunzio le donne esistono solo per fare l’amore e gli uomini per spargere sangue. Anche quando nel terzo atto le donne sono soldatesse al tavolo di comando, esse non vedono l’ora di sbarazzarsi delle uniformi per intrecciare la danza della primavera nei loro fluenti abiti bianchi.

Non prevista dal libretto la morte del giullare: qui Ostasio, l’arrogante fratello di Francesca in uniforme da gerarca fascista, uccide con un colpo di pistola il povero musicante. Il suo cadavere viene pietosamente coperto dalle donne con quelle “pezzuole di scarlatto” che il poveretto aveva elemosinato fin da subito per coprire gli strappi del suo costume. Particolare impietoso il fatto che la rosa posata sul cadavere sia poi quella che Francesca dona a Paolo credendolo suo futuro sposo dopo averlo visto apparire in un’armatura e su un cavallo tutti sfavillanti d’oro. I costumi di Marie-Jeanne Lecca alludono a varie epoche: quelli delle donne ai tempi antichi ma rivisti con il gusto Liberty, quelli degli uomini a militari della Grande Guerra con tocchi medioevali.

Francesca da Rimini

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Riccardo Zandonai, Francesca da Rimini

★★☆☆☆

Parigi, Opéra Bastille, 7 febbraio 2011

(registrazione video)

Il liberty di plastica di Giancarlo del Monaco

Il libretto di Tito Ricordi è tratto dalla omonima tragedia in cinque atti di Gabriele D’Annunzio rappresentata dalla Duse nel 1901. Il «poema di sangue e di lussuria», secondo le parole del poeta, viene ampiamente sfrondato, ma il librettista non rinuncia alle preziosità dei versi dannunziani ricreandone a suo modo il “falso antico”: «Per la terra di maggio l’arcadore in gualdana | va caendo vivanda. | A convito selvaggio | in contrada lontana | uno cor si domanda…». I cascami letterari includono anche «datteri fronzuti», «camminature alla reale», «gito se n’è col ghiado», «chinati arboscelli verzicanti», «ove redole più l’erba» eccetera.

Alla prima del Teatro Regio di Torino il 19 febbraio 1914 il Vate non era presente né sembra che mai abbia voluto vedere quest’opera che aveva ascoltato a Parigi l’anno prima suonata da Zandonai stesso sul pianoforte in casa di Lina Cavalieri senza rimanerne entusiasta.

Atto primo. A Ravenna, in casa dei da Polenta. Francesca da Polenta, figlia del signore della città, Guido, sta per sposare Gianciotto Malatesta, giovane sciancato: lei crede, ingannata, che lo sposo sia in realtà il fratello di Gianciotto, il bel Paolo, che vede palpitando. La sorella di Francesca, Samaritana, è colta da un fosco presagio e le chiede di rinunciare al matrimonio; ma Francesca è salda nel convincimento.
Atto secondo. Durante la guerra che oppone a Rimini i Malatesta e i Parcitadi. Paolo si fa onore, con accanto, sulla torre, Francesca, che lo rimprovera per l’inganno subito col matrimonio. Ella lo crede ferito e lo accarezza, gli prende la testa fra le mani. Arriva Gianciotto, non parco di lodi per il valore del fratello Paolo. Brindano. Paolo e Francesca si guardano con intensi sensi. Arriva il terzo fratello, Malatestino, ferito. La lotta riprende furiosa.
Atto terzo. Francesca legge storie d’amore e ascolta musica. Entra Paolo, reduce da un lungo viaggio. Le mostra amore, ella quasi gli cede. Leggono di Lancillotto, come amor lo strinse. Soli e senza alcun sospetto, quando leggono il disiato riso di Ginevra esser baciato da cotanto amante, Lancillotto, non leggono più e Paolo, tutto tremante, bacia Francesca. Libro galeotto.
Atto quarto. Il terzo fratello, Malatestino, è innamorato pure lui di Francesca. Ella si rifiuta. Si ode il grido di un carcerato, e Malatestino, crudele, a spada sguainata va a far cessare quel lamento, mentre Francesca si lamenta con il marito Gianciotto delle profferte di Malatestino. Credendo forse Francesca Salome, Malatestino rientra con la testa mozza del carcerato che gridava. Francesca, che non è Salome, fugge in preda all’orrore. Quando Gianciotto lo rimprovera, Malatestino non ce la fa più e rivela quel che sa di Paolo e Francesca. Gianciotto, con un inganno, scopre tutto. Sorprende i due abbracciati e li consegna all’eternità.

«Ricchissima di echi di esperienze recenti, da Richard Strauss a Debussy, la pagina di Zandonai tiene presente il magistero wagneriano: mai si parlerà, tuttavia, di eclettismo, quanto del ‘rimpasto’ della cultura allora di punta nell’Europa musicale secondo una personalità tra le più originali del melodramma italiano del Novecento. Allievo di Mascagni, Zandonai non dimentica mai le esperienze più raffinate del maestro […] come molte tracce si rilevano da quel Puccini curioso della sperimentazione che la critica e le esecuzioni più avvertite non hanno mancato di mostrare». (Raffaele Manica)

A quasi cent’anni dalla prima, nel febbraio 2011 all’Opéra Bastille di Parigi Francesca da Rimini va in scena nell’allestimento di Giancarlo del Monaco che sceglie un’ambientazione liberty – nel primo atto sembra di essere in una serra dei Kew Gardens con i fiori di plastica, nel terzo e quarto all’interno del Vittoriale con il suo bric-à-brac – che fa decisamente a pugni con i giullari, i sirventesi, i liuti, i farsetti, i guarnacchini, le cennamelle, i ribecchi, le falàriche, le bertesche e i targoni del testo. L’infatuazione di metà Ottocento per il medievalismo non arrivava a tanto, si limitava ai tessuti di Fortuny o ai mobili e alle architetture in stile neogotico. Incomprensibili poi certi errori di regia: «Inginòcchiati» dice Francesca a Paolo già inginocchiato, o «Dammi da bere» chiede Malatestino al fratello dopo aver tracannato dal suo bicchiere o ancora «Malatestino vieni!», ma ha già agguantato il giovane!

Tra l’orchestra e le voci in scena c’è una gara a chi spara più decibel: Daniel Oren non ha a modello Debussy, quanto il verismo più sguaiato ed essendo così tutto forte e sopra le righe viene a mancare il pathos di momenti come quelli del bacio o dell’uccisone degli amanti con cui si conclude il quarto atto.

Svetla Vassileva è una Francesca urlante e anche George Gadnidze, Gianciotto in sedia a rotelle, non può far di meno. Grottesco ogni dire il Malatestino di William Joyner, non proprio il fanciullo del libretto. Roberto Alagna come sempre è un modello di stile e di vocalità ed è anche l’unico a fornire la corretta dizione. Tocca infatti sentire ‘sièti’ invece di ‘sïeti’ , ‘rosvegliata’ invece di ‘risvegliata’ e così via.

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