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Alexander Zemlinsky, Eine florentinische Tragödie (Una tragedia fiorentina)
Giacomo Puccini, Gianni Schicchi
★★☆☆☆
Torino, Teatro Regio, 23 marzo 2014
Morte a Firenze
Non è solo l’Italia umbertina a scoprire e infatuarsi per il Rinascimento fiorentino – quanti mobili finto Quattrocento nei salotti borghesi e negli studi notarili dell’epoca! Anche oltralpe si guarda alle torbide vicende di quel periodo come occasione per drammi a tinte fosche e passioni violente. Erano nate così: la Francesca da Rimini (1914) di Zandonai, la Mona Lisa (1915) di Max von Schillings, la Violanta (1916) di Korngold, il Palestrina (1917) di Pfitzner, Die Gezeichneten (1918) di Schreker.
Non è da meno Alexander Zemlinsky che in quegli stessi anni mette in musica A Florentine Tragedy di Oscar Wilde, la pièce lasciata incompiuta a causa del processo intentato al suo autore.
Simone, ricco mercante fiorentino, ritorna a casa e trova la moglie Bianca sola con un giovane nobile, Guido Bardi, rampollo unigenito del principe di Firenze. Simone tenta di eludere la scabrosità della situazione sciorinando la logorrea tipica degli affaristi e, facendo mostra di credere che Guido si trovi in casa sua per motivi di affari, gli propone l’acquisto di alcune merci particolarmente preziose. Di fronte alla spavalda insolenza con cui il rivale gli replica, Simone, pur conservando un contegno impenetrabile, sente ribollire il sangue e incomincia a lasciar cadere una serie di allusioni sinistre. Quando Guido, dopo aver baciato Bianca, manifesta l’intenzione di congedarsi, Simone lo costringe a duellare con lui e, avuta la meglio, lo strangola; ma quando si volta verso la moglie infedele, deciso a uccidere anche lei, avviene un inaspettato rovesciamento di sentimenti: fissandosi negli occhi i due cadono l’una nelle braccia dell’altro, chiedendosi in eco: «Perché non mi hai mai detto che eri così forte?» – «Perché non mi hai mai detto che eri così bella?».
La vicenda aveva già tentato il torinese Carlo Ravasegna che aveva composto Una tragedia fiorentina su un libretto in italiano di Ettore Moschino pubblicato nel 1914. Con il libretto in tedesco di Max Meyerfeld, Eine florentinische Tragödie di Zemlinsky era andata in scena a Stoccarda il 30 gennaio 1917 diretta da Max von Schillings. La brevità e incompletezza del lavoro non avevano frenato l’interesse del compositore, allora direttore del Deutsches Landestheater di Praga. Le lacune del testo erano state abilmente risolte e la musica aveva fatto il resto.
«Contrazione della vicenda a un atto unico e riduzione dei personaggi a una rosa ristrettissima erano elementi peculiari del dramma espressionistico: eppure Eine florentinische Tragödie non può essere definita solo come lavoro espressionistico. La poetica estetizzante del beau geste riconduce infatti anche a un clima decadente, intriso di raffinatezza Jugendstil: la sconfitta del dandy da parte del mercante testimonia il prevalere della forza sulla bellezza, ma suggella anche la crisi definitiva dei Des Esseintes e degli Sperelli. Il sapore liberty che pervade l’opera è confermato dall’assenza di ferinità nella lotta silenziosa che i due avversari conducono per la stessa donna: Simone parla di tessuti e di pietre preziose e l’orchestra attutisce l’agitazione del suo battito cardiaco sotto il delicato orpello di arpe, xilofoni, glockenspiel, mandolino, triangolo. La pièce di Wilde si configurava come tragedia della procrastinatio, tutta intessuta cioè sul continuo differimento del climax conclusivo: Zemlinsky ottiene musicalmente un effetto analogo imbrigliando l’orchestra e lasciandola sfogare in un crescendo risolutivo solo negli ultimi minuti dell’azione. Le sonorità di Zemlinsky sono un continuo ricamo che sottilmente si insinua nel testo: questa partitura calibrata sui particolari, su cellule seminascoste come perle nell’ostrica non risalta forse pienamente in una rappresentazione teatrale, ma nasce dalla precisa volontà di tradurre in forma artistica adeguata l’eleganza minuta del verso di Wilde, già necessariamente illanguidito dalla traduzione tedesca in prosa. Il preludio iniziale non assolve solo una funzione introduttiva, ma sostituisce la scena d’amore fra Guido e Bianca, ovviando in parte all’incompiutezza del lavoro wildiano; un precedente analogo si riscontra nel Rosenkavalier e a questo proposito va notato come l’empito cavalleresco che accompagna le sortite del nobile Bardi non sia troppo lontano dai profili straussiani di Oktavian e Don Juan. La vocalità trascorre dal declamato fluente della loquela di Simone al parlato roco su cui si consuma il duello, per riemergere alla melodia spiegata con lo splendido coup de foudre finale, in cui l’amore nasce dalla morte e ogni potenziale trionfalismo viene annullato nella piega dolorosa degli ultimi sussulti cromatici. Il cromatismo pervade l’intera opera senza mai sconfinare in forzature artificiose, perché si sovrappone con grazia perfetta agli addentellati del testo; gli stessi temi, che nel preludio risuonano gonfi di passione, ritornano trasfigurati nel corso della vicenda e le loro metamorfosi sembrano essere il termometro interiore del dramma dei protagonisti. In questo modo si salvaguarda l’unità e insieme la varietà della forma; anche i particolari più espressionistici del testo (ad esempio il presagio del vino versato, come macchia di sangue pronta a dilagare) vengono raccolti in questa rete analitica e addensati in ombre sempre più gravide di minaccia. La leggerezza di certi pizzicati, l’inopinata soavità delle numerose emersioni solistiche delle prime parti orchestrali, gli arabeschi intessuti dall’arpa testimoniano l’originalità della strumentazione di Zemlinsky e si attagliano molto bene all’atmosfera di gioco pericoloso che domina questa insolita conversazione a tre; il preziosismo delle sonorità individua anche con notevole intuito il clima claustrofobico della vicenda, svolta interamente fra quattro mura, in un hortus conclusus che non sa aprirsi verso il mondo (Simone stesso commenta fra sé: “Il mondo intero si è dunque ristretto a questa stanza e ha solo tre anime come abitanti?”). Il respiro melodico, sempre latente eppure sempre trattenuto (come la notte fiorentina, che occhieggia dalla vetrata senza poter spezzare l’incubo della clausura che grava sui tre) si sfoga finalmente nello squarcio lirico del duetto di Bianca e Guido: musica appassionata e febbrile come quella di certe pagine di Berg, che infatti amava molto l’anima espressiva di Zemlinsky. Se il tema sottinteso al dramma di Wilde era quello della bellezza sopraffatta e illanguidita dalla mediocrità quotidiana, la riscrittura operistica di Zemlinsky si svolge come un ininterrotto peana alla bellezza; la scrittura strumentale, precisa e nitida come un fregio di Klimt, e la forma, serrata ed elegante, diventano pendant di un estetismo ormai sconfitto e pronto a mutare la sua tragedia nelle allucinazioni espressionistiche. Proprio il carattere ambiguo dell’abbozzo di Wilde si prestava al trapasso fra questi due mondi spirituali, di cui la Florentinische Tragödie offre una sintesi personalissima». (Elisabetta Fava)
L’atto unico di Zemlinsky è spesso abbinato a un altro breve lavoro ambientato nella Firenze dell’epoca, di tono totalmente diverso e per questo complementare: il Gianni Schicchi di Puccini. Così era successo alla Scala nel 2004, così avviene ora al Regio di Torino che affida a Stefan Anton Reck la direzione del dittico. Sotto la sua bacchetta l’orchestra del teatro riproduce il lirismo sinfonico di Zemlinsky, che dallo stile straussiano vira all’espressionismo della Seconda Scuola di Vienna, con piglio energico ed esuberante. I due interpreti maschili in scena sono Mark S. Doss, autorevole bass-baritono che dà voce a Simone, e Zoran Todorovich, Guido. Insinuante ma mancante di proiezione la Bianca di Ángeles Blancas Gulín.
Del tutto discutibile la realizzazione visiva di Vittorio Borrelli sia nell’ambientazione novecentesca e nella scenografia (di Saverio Santoliquido), che non ha alcuna attinenza con l’attività del personaggio Simone, sia nel finale in cui il regista stravolge completamente l’ironia beffarda del libretto facendo ammazzare la donna dal marito!
Le cose non migliorano con il Gianni Schicchi, non tanto per l’ambientazione novecentesca con lo stesso letto al proscenio, qui non particolarmente incongrua, quanto per il tono dato dal regista, che scambia il grottesco con la farsa, infarcendo di gag una vicenda che vuol mettere in evidenza l’ipocrisia dei parenti, qui trasformati in macchiette scatenate. Va contro corrente Alessandro Corbelli, attore di grande intelligenza, che di Gianni Schicchi dà una raffigurazione sobria molto più in linea con le intenzioni dell’autore. Nella folta schiera di cantanti in scena si stacca la coppia dei giovani Rinuccio e Lauretta, Francesco Meli e Serena Gamberoni, compagni anche nella vita. Qui in Puccini si sente maggiormente la mano pesante del direttore, disattento ai dettagli e con sonorità soverchianti le voci.
⸪