E.T.A.Hoffmann

Les contes d’Hoffmann

 

   

Jacques Offenbach, Les contes d’Hoffmann

Milano, Teatro alla Scala, 24 marzo 2023

★★★☆☆

(diretta streaming)

Offenbach alla Scala penalizzato dal budget?

Il lancio de LaScalaTv per la trasmissione in streaming a pagamento degli spettacoli del teatro milanese è stato l’occasione non solo per testare la piattaforma, che risulta di semplice utilizzo e con immagini e suoni di buona qualità, ma anche per assistere, a distanza di qualche settimana dalla prima, a uno spettacolo la cui produzione ha destato polemiche tra gli addetti ai lavori e gli appassionati. Oltre ai soliti dissensi rivolti alla regia, ma questo è ormai inevitabile, fischi sono stati rivolti alla concertazione del direttore.

La prima contestazione che si è rivolta a Frédéric Chaslin è quella della scelta della versione. Les contes d’Hoffmann infatti sono stati lasciati incompiuti nella strumentazione e nella certezza della forma conclusiva. L’ultimo capolavoro di Offenbach fu presentato con i dialoghi parlati all’Opéra-Comique il 10 febbraio 1881, quattro mesi dopo la morte del compositore, con l’orchestrazione completata da Ernest Guiraud. Per la successiva rappresentazione viennese lo stesso Guiraud trasformò i dialoghi in recitativi cantati, così come aveva fatto per la Carmen di Bizet. Da allora si sono susseguiti innumerevoli versioni, quasi una per ogni editore che abbia pubblicato la partitura. Limitandoci alle principali, oggi a nostra disposizione ne abbiamo essenzialmente quattro, indicate con i nomi dei rispettivi autori: (I) Choudens (quattro edizioni tra il 1881 e il 1887), in cinque atti e con numeri non presenti nel manoscritto; (II) Oeser (1976), in tre atti con un prologo e un epilogo; (III) Kaye (1992), basata sul libretto originale; (IV) Keck (2003), in cinque atti. Per le minime differenze tra le versioni III e IV queste vengono spesso indicate come un’unica versione, la Kaye-Keck (2009).

Ignorando deliberatamente quest’ultima versione, ad oggi la più attendibile e vicina all’originale, il direttore francese ha proposto una sua propria versione basata sulla vecchia Choudens, con i recitativi cantati, ma con tagli, talora senza senso, e inserti, spuri, dalla Oeser. Vuoi per pigrizia, vuoi per ragioni di economia – anche se non è pensabile che un teatro come La Scala voglia risparmiare sul prezzo di un’edizione – quella presentata è una versione arbitraria che non tiene conto di quanto si è scoperto in questi ultimi cinquant’anni.

La seconda e più decisa contestazione rivolta a Chaslin è la sua lettura della partitura. Del direttore francese tutto si può dire, ma di certo che non conosca l’opera, avendola diretta centinaia di volte. D’accordo che questo non garantisce sulla qualità di un’esecuzione, ma sicuramente la sua non è una lettura improvvisata. Le recensioni negative sono andate un po’ a rimorchio della inappellabile stroncatura pubblicata su FB l’indomani della prima da Elvio Giudici, che ha dedicato all’opera di Offenbach e alle sue tante versioni ben 66 pagine nel suo nel suo volume sull’Ottocento de L’Opera. Storia, teatro, regia. In queste recensioni si è letto che la direzione è stata «greve, piatta, morchiosa, blumbea, lenta», ma contemporaneamente anche «esuberante, frastornante, superficiale, esteriore»! Comunque censurabile. Di certo quella di Chaslin è una concertazione che si prende alcune libertà nei tempi, o troppo lenti o troppo veloci, manca di raffinatezza e trasparenza, ma è comunque attenta alle pagine liriche e ricrea efficacemente il carattere ibrido di questo lavoro, qui più grand opéra che opéra-comique, con un ironico tocco di cabaret quando Nicklausse sussurra al microfono le parole di «Ô rêve de joie et d’amour» o quando Hoffmann e Lindorf si allacciano in un tango, ma qui c’è lo zampino del regista, ovviamente.

La messa in scena è stata infatti l’altro elemento di discussione. Livermore non rinuncia qui agli amati trucchi di magia – una candela che fluttua sulle prime file di platea, una pianta in vaso che fiorisce, una macchina da scrivere che prende fuoco, un tavolino volante, specchi magici, botole – e ad altri congegni: un nastro trasportatore su cui entrano da sinistra a destra i personaggi, ombrelli da “funerale sotto la pioggia”, pistole (tante pistole), teli che cadono dall’alto o fluttuano o coprono gli spettatori della platea, come se fossero immersi nella laguna, durante la Barcarola. E soprattutto le lanterne cinesi del torinese Controluce Teatro d’Ombre, che hanno preso il posto delle meraviglie digitali della altrettanto torinese D Wok, probabilmente per risparmiare sul budget o forse perché più adatte, vista la loro tecnica di vecchio stampo, alla scelta adottata da Livermore di trasformare la sulfurea e inquietante vicenda in uno spettacolo di varietà in bianco e nero all’Olympia di Parigi! Scelta comprensibilissima seppure non totalmente condivisibile. 

A confronto dei sempre elegantissimi costumi di Gianluca Falaschi, le scenografie di Giò Forma hanno qui un minimalismo insolito per gli standard degli spettacoli di Livermore alla Scala: la statua di un angelo – che ricorda quella del Castel sant’Angelo nell’ultimo atto di una Tosca di tradizione – dentro cui canta la Musa; un bar per la taverna del prologo; cataste di manichini bianchi per il quadro di Olympia; un pianoforte per la casa di Crespel; due altalene, un accenno di gondola e tanti veli per il quadro veneziano. Ma il regista non rinuncia a riempire la scena di particolari, spesso non necessari se non fuorvianti in una vicenda già di per sé tutt’altro che lineare: un nano, il doppio di Hoffmann alla fine in una bara, mimi, ballerini, figuranti in nero. Eccellente come sempre invece la recitazione degli interpreti e la caratterizzazione di certe parti. Tutto si può dire di Livermore, ma non certo che manchi di senso del teatro.

Nella parte del poeta Hoffmann il tenore Virttorio Grigolo – un cantante che non lavora più nei teatri d’opera della maggior parte del mondo anglosassone dal 2019 a seguito di un’accusa di comportamento inappropriato durante uno spettacolo in Giappone – è stato il trionfatore della serata: voce limpida, fresca, ottima pronuncia e dalla sorprendente proiezione, la sua è stata una interpretazione di incontenibile ed esaltante energia, a partire dalla ballata di Kleinzack, con le sue gustosissime onomatopee, alla appassionata e languida «Ah, sa figure était charmante» del quadro di Olympia. È stato affiancato da una eccellente Marina Viotti (Musa/Nicklausse) e da una memorabile Eleonora Buratto (Antonia) di sontuosa presenza vocale e bel fraseggio. Diversamente apprezzati gli altri due idoli femminili: Federica Guida è un’Olympia poco “automa”, infatti il regista la presenta come una donna insicura e vittima del padre, che dà un tono drammatico alle sue agilità che quindi mancano di quella qualità astratta che ci si aspetta dalla bambola meccanica; Francesca di Sauro invece non convince del tutto come Giulietta, vuoi per la scarsa sensualità, nella voce non certo nella figura, vuoi perché privata delle sue pagine più belle, ma qui la colpa è del direttore. Pur corretto e come sempre ben timbrato, a Luca Pisaroni, nella quadruplice parte diabolica di Lindorf/Coppélius/Docteur Miracle/Dapertutto, manca il tono luciferino che abbiamo trovato in altri interpreti e la differenziazione dei personaggi. Quattro parti anche per François Piolino (Andrès/Cochenille/Frantz/Pitichinacchio) che il regista traveste da fantesca un po’ isterica e sempre col piumino della polvere in mano. Ottimo attore, quando canta però fa sue le parole di Frantz: «Dame! on n’a pas tout en partage: je chante pitoyablement»… Gloriosi cammei sono stati quelli di Alfonso Antoniozzi (Luther/Crespel) e di Yann Beuron (Spalanzani/Nathanaèl), l’uno consumato animale di palcoscenico, l’altro indimenticabile interprete delle opéra-bouffe di Offenbach.

Questa volta il glorioso coro del teatro non si dimostra inappuntabile essendo spesso in ritardo rispetto all’orchestra. Osservando poi l’età media dei coristi viene da pensare ai cori d’oltralpe, formati da giovani che si dimostrano più attenti alle richieste dei direttori e ricettivi alle esigenze sceniche. Questo è un problema generale di tutti cori italiani dovuto alla mancanza di quel serbatoio di cori amatoriali che invece all’estero forniscono nuova linfa ai cori dei teatri più blasonati.

 

 

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Les contes d’Hoffmann

 

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Jacques Offenbach, Les contes d’Hoffmann

★★★★☆

Zurich, Opernhaus, 11 avril 2021

(streaming)

Qui la versione italiana

Un dénouement heureux pour l’opéra d’Offenbach

La version de référence des Contes d’Hoffmann, opéra laissé inachevé après la mort d’Offenbach, reste celle de Michael Kaye et Jean-Christophe Keck. Andreas Homoki, surintendant de l’opéra de Zurich et, en cette occasion, également metteur en scène, a donc bien fait d’opter pour celle-ci, qui est la plus complète (trois heures et demie de musique), et la plus cohérente du point de vue dramaturgique. Du finale inachevé, Homoki donne une version optimiste qui ne correspond pas tout à fait à l’esprit de l’opéra : Hoffmann vainc Lindorf et s’échappe avec Stella ; c’est le premier et seul moment où nous le voyons sourire après les événements tragiques qu’il aura traversés…

la suite sur premiereloge-opera.com

Les contes d’Hoffmann

 

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Jacques Offenbach, Les contes d’Hoffmann

★★★★☆

Zurigo, Opernhaus, 11 aprile 2021

(video streaming)

bandiera francese.jpg Ici la version française

Lieto fine per l’opera di Offenbach

Per Les contes d’Hoffmann, opera lasciata incompleta alla morte di Offenbach, la versione di riferimento è da tempo quella di Michael Kaye e Jean-Christophe Keck. Bene ha fatto quindi Andreas Homoki, sovrintendente del teatro lirico di Zurigo e qui regista, optare per questa che è la più completa, quasi tre ore e mezza e musica, e la più coerente dal punto di vista drammaturgico. Del finale incompiuto Homoki dà una versione ottimistica non molto in linea con lo spirito dell’opera però: Hoffmann sconfigge Lindorf e scappa con Stella ed è il primo e unico momento in cui lo vediamo sorridere dopo le vicende tragiche che ha attraversato.

La narrazione è lineare, gli episodi si susseguono con logica implacabile nell’ordine Olympia-Antonia-Giulietta, i costumi molto belli di Wolfgang Gussmann e Susana Mendoza sono d’epoca, la scenografia dello stesso Gussmann è semplicissima, una pedana a disegni di piastrelle e basculante nel centro del palcoscenico vuoto e immerso nel buio. Minimi gli elementi in scena: oltre alla conchiglia del suggeritore e alla botte onnipresenti, vi sono un divano, un pianoforte, un tavolo da gioco e un lampadario di cristallo, uno per ogni episodio. Il sobrio spazio è illuminato dal gioco luci come al solito sapiente di Franck Evin. Grande attenzione è posta alla recitazione dei personaggi e all’equilibrio tra dramma e umorismo, con momenti di forte impatto emotivo come la morte di Antonia uccisa dal suo stesso pianoforte mentre per una volta è chiaro il ruolo degli occhiali che ingannano Hoffmann sulla natura della bambola meccanica.

Antonino Fogliani dà una lettura brillante della partitura con l’orchestra lontana chilometri là in sala prove, ma soprattutto il coro si sente che non è presente: in scena c’è un coro finto formato da figuranti con le maschere e le voci arrivano distanti nonostante tutte le diavolerie tecnologiche adottate.

Debuttante nella parte eponima è Saimir Pirgu. L’impresa è impegnativa ma il risultato è più che soddisfacente anche se l’emissione è talora un po’ ingolata e il timbro non bellissimo nel registro basso. Alexandra Kadurina è una sensibile Musa/Nicklausse anche se pure lei ha qualche problema di emissione nei passaggi di registro. Sorprendenti le tre donne: Olympia ha in nel soprano americano Katrina Galka un’interprete di grande sicurezza nelle agilità e nella presenza scenica;  il soprano russo Ekaterina Bakanova è un’intensa Antonia e l’australiana Lauren Fagan una suadente Giulietta. Stella in questa versione canta e ha la sontuosa voce di Erica Petrocelli. Andrew Foster-Williams gestisce con grande abilità, senso musicale e perfetta dizione le quattro parti di Lindorf/Coppélius/Docteur Miracle/Capitaine Dapertutto, solo alla fine accusando una leggera stanchezza vocale. Spigliato ed efficace Spencer Lang anche lui impegnato nei quattro personaggi di Andrès/Cochenille/Frantz/Pitichinaccio. Di eccellente livello gli altri numerosi interpreti.

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Les contes d’Hoffmann

Jacques Offenbach, Les contes d’Hoffmann

Barcellona, Gran Teatre del Liceu, 11 febbraio 2013

★★★★★

(registrazione video)

L’addio alla musica di Antonia

Al Gran Teatre del Liceu di Barcellona va in scena Les contes d’Hoffmann nella versione integrale, ossia quella di Kaye ma con le variazioni della versione Keck nel quarto atto, edizioni che prendono come riferimento il libretto originario. Nel quinto atto si ascolta un duetto di Hoffmann con Stella, che finalmente acquista qui la voce. Al momento è quindi l’edizione più completa e con i suoi 183 minuti supera di oltre mezz’ora la registrazione di Prêtre/Schlesinger e di dieci minuti quella di Davin/Py.

La messa in scena di Laurent Pelly è stupefacente, perfettamente aderente allo spirito folle e grottesco di E.T.A. Hoffmann. Come sempre chiarissima è la sua drammaturgia che segue molto fedelmente il libretto. Le grigie affascinanti scenografie di Chantal Thomas hanno il culmine nella casa di Antonia, un incubo di scale e porte da cui sbuca l’onnipresente Docteur Miracle, che come Nosferatu agisce anche solo con la sua ombra. Quello di Pelly è un espressionismo però molto moderno che ricorda i neri netti e le luci livide di certe strip di fumetto. L’assenza totale di colori nei costumi fine Ottocento, come sempre disegnati da Pelly, ne conferma l’impressione.

I dialoghi recitati si fondono perfettamente con le parti cantate ma non mancano alcuni tagli e nel finale c’è una sorprendente novità: la Morte di Giulietta, spinta da Dapertutto sulla spada di Hoffmann, che quindi diventa qui doppio assassino, dopo aver eliminato Schlemil sempre con la complicità del personaggio diabolico.

Magnifico l’Hoffmann di Michael Spyres: stile impeccabile, generosità vocale e ricchezza di chiaroscuri, dizione da manuale. Solo dopo tre ore accusa qualche stanchezza, ma nel complesso la sua è una performance memorabile.

Abilmente manovrata a tempo di musica su un dolly che si protende anche sulla buca dell’orchestra, Olympia sembra sospesa nel buio e volteggiante nel vuoto con i suoi gorgheggi. Kathleen Kim si dimostra un’efficace bambola meccanica, ma non riesce a far dimenticare quella di Natalie Dessay, che avrebbe dovuto coprire i quattro ruoli, ma che invece qui è solo Antonia – e a pochi mesi dall’abbandono della scena litrica del soprano francese per problemi di salute vocale. Il personaggio della donna che non può più esprimersi col canto ha un effetto devastante nel suo caso e il pubblico reagisce all’emozione con un’ovazione grandiosa.

Una Giulietta caricatura a metà tra principessa russa e principe Orlowski è quella di Tatiana Pavlovskaya. Nicklausse perfetto scenicamente con solo qualche incertezza di intonazione qua e là è quello di Michèle Losier. Degna del genio di Brachetti è poi la sua  fulminea trasformazione da musa in studente e viceversa.

Eccelso come si poteva supporre Laurent Naouri, sia vocalmente sia scenicamente: con quei suoi occhi chiari è un Linsdorf insinuante, un Coppélius inquietante e vendicativo che strappa gli occhi alla bambola. Del suo Docteur Miracle si è detto e come Dapertutto tira fuori tutta la cattiveria del personaggio anche se sempre con grande aplomb. Molto buoni anche gli interpreti secondari ed eccellente la lettura del direttore Stéphane Denève.

Les contes d’Hoffmann

Jacques Offenbach, Les contes d’Hoffmann

★★★★★

Berlino, Komische Oper, 5 ottobre 2015

(registrazione video)

I tre Hoffmann della versione Kaye-Keck-Kosky

Prima o poi il sulfureo Kosky si doveva confrontare con la sulfurea ultima opera di Jacques Offenbach: il macabro surrealismo di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann sembrerebbe perfettamente consono alle geniali invenzioni teatrali del direttore della Komische Oper, che infatti confeziona uno spettacolo molto intelligente e ricchissimo di idee.

Ogni produzione de Les contes d’Hoffmann è diversa dalle altre, stante la mancanza di un’edizione definitiva del lavoro: Offenbach morì a quattro mesi dalla prima all’Opéra-Comique del febbraio 1881. Ma non bastavano le innumerevoli versioni: prendendo come base quella di Kaye-Keck, Kosky ne crea ancora un’altra! Numeri sono spostati, eliminati o aggiunti e in scena ci sono ben tre diversi interpreti per la parte del protagonista: Hoffmann-1 anziano, interpretato da un attore che recita in tedesco passi tratti dal Don Juan (1); un Hoffmann-2 baritono per il prologo e l’episodio di Olympia; un Hoffmann-3 tenore per gli altri due episodi. In compenso è una sola l’interprete di Stella/Olympia/Antonia/Giulietta, come uno solo (ma questo è già più comune) quello di Lindorf/Coppelius/Docteur Miracle/Dapertutto.

Non tutti i registi mettono in risalto il fatto che la vicenda dell’ultima opera di Offenbach parte da una rappresentazione del Don Giovanni. Kosky sì e al posto del preludio orchestrale ci fa ascoltare l’inizio dell’ouverture dell’opera di Mozart. Altri temi si ripresenteranno qua e là fino al sorprendente finale: invece dell’Epilogo la Musa fa entrare in una bara Hoffmann-1 sulle note del duetto Don Giovanni-Zerlina – e qui il cavaliere è il mezzosoprano mentre Zerlina è l’attore recitante – con Lindorf che si affretta a inchiodare il coperchio! Detto così può sembrare brutale e gratuita, ma la trovata è coerente col resto ed è a suo modo molto toccante. Kosky spinge agli estremi limiti la drammaturgia (qui di Ulrich Lenz) e il suo intervento da regista, ma glielo permettono la frammentarietà e la non compiutezza del lascito del compositore di cui ricrea comunque fedelmente lo spirito, anche se si tratta di «a strangely lopsided fidelity to Offenbach», come scrive A. J. Goldman su Opera News.

La scenografia di Katrin Lea Tag è estremamente semplice e funzionale: una grande piattaforma nera e quadrata, posta con un vertice verso il pubblico, che può sollevarsi e inclinarsi su uno sfondo altrettanto nero. Fondamentale è il ruolo delle luci di Diego Leetz, dove a risaltare sono gli scarsi oggetti, i costumi e, all’inizio, la marea di bottiglie vuote in cui naufraga Hoffmann con i suoi soliloqui. Le note del coro iniziale «Glou! glou! glou!» qui sono solo orchestrali. Katrin Lea Tag firma anche i costumi e ritroviamo il coro maschile in abiti da sera femminili come avevamo già visto nell’Angelo di Fuoco di Monaco. La Musa/Nicklausse indossa un costume settecentesco, tutti gli altri sono in abiti contemporanei.

Pochi gli oggetti in scena, tutto è ottenuto con i corpi degli attori/cantanti: Antonia, figura dell’ossessione per la musica, è trafitta dagli archetti di quindici violiniste tutte uguali alla madre (e alla Mrs Bates di Psycho…); di Olympia vediamo parti sconnesse del suo corpo apparire dai cassetti e dagli sportelli di un mobile; la Venezia di Giulietta è sintetizzata nei ventagli e nei macabri sorrisi dipinti sulle facce degli invitati alla festa nel palazzo sul Canal Grande che dondola come una zattera sulle onde della barcarola.

Perfetta è l’intesa del regista con il direttore Stefan Blunier, che accende di sprazzi drammatici la partitura e concerta con efficacia le voci in scena. Offenbach aveva composto la parte del titolo per Jacques Bouhy (l’Escamillo della prima Carmen) ed è su questo presupposto che per il prologo e l’episodio di Olympia come Hoffmann-2 in scena c’è Dominik Köninger che canta la versione per baritono approntata da Kaye. Köninger è un interprete versatile (da Monteverdi a Debussy a Weinberger nella sola Berlino) che incarna con sensibilità il personaggio, ma per timbro e registro non rende l’eleganza cui ci hanno abituato Osborn, Spyres e Flórez, per dire degli ultimi Hoffmann. Per gli episodi di Antonia e Giulietta si torna alla consueta voce di tenore per Hoffmann-3, qui un Edgaras Montvidas più persuasivo come attore che come cantante. L’aver frammentato il personaggio in due diversi interpreti è comunque l’elemento meno convincente di questa produzione.

Un’unica interprete, come si diceva, per le tre donne: un’impresa che è stata affrontata non da molte cantanti (Sutherland, Sills, Gruberová e recentemente Delunsch e Peretjat’ko) e non sempre con risultati esaltanti. Nicole Chevalier ne esce con gli allori perché sa intelligentemente affrontare i tre personaggi in modo diverso e con una presenza scenica che manca alle dive del passato. La coloratura della sua Olympia forse non è impeccabile (questo è uno spettacolo da godere in teatro, non da assaporare dalle registrazioni audio), ma le acrobazie vocali sono accompagnate da effetti vocali irresistibili cha vanno dai tic di un robot impazzito al suono di una cassetta che si riavvolge. Cambio di scena ed eccola come una dolente Antonia e poi come la cortigiana Giulietta, tutto sesso e niente sentimento. Nelle parti dei vari vilain Lindorf/Coppelius/Docteur Miracle/Dapertutto, che poi sono le incarnazioni dello stesso elemento demonico, Dimitrij Ivaščenko non fa male, ma neanche è memorabile. Eccellente la performance vocale del mezzosoprano Karolina Gumos quale Nicklausse, La Musa e Voce della madre di Antonia. Di ottimo livello i cantanti della “casa” Peter Renz e Philipp Meierhöfer nelle altre parti. L’attore Uwe Schönbeck è l’espressivo poeta alla fine della vita che ricorda i suoi infelici amori. Efficiente come sempre il magnifico coro del teatro.

(1) Appartenente ai Pezzi fantastici alla maniera di Callot, il racconto ha come sottotitolo “Un evento fantastico che è accaduto ad un entusiasta viaggiatore”, un viaggiatore  addormentato sulla poltrona della sua stanza, che ascolta una musica. In sogno la porta dà direttamente sul palco d’un teatro: la musica è l’ouverture del Don Giovanni: «…nell’andante i brividi del terribile “regno sotterraneo del pianto” si impadronirono di me; terrificanti presentimenti d’orrore affollarono la mia anima. L’esultante fanfara nella settima battuta dell’allegro risuonò dentro di me come un giubilo sacrilego; nella notte profonda vidi fiammeggianti demoni allungare i loro artigli infuocati verso la vita di uomini felici che danzavano allegramente sull’orlo sottile di un abisso senza fondo. Il conflitto della natura umana con le orrende forze sconosciute che la circondano, spiandone la rovina, si presentò distintamente agli occhi del mio spirito. Finalmente la tempesta si placa; il sipario si alza…».

Les contes d’Hoffmann

Bozzetto della scenografia di Rainer Sellmaier

Jacques Offenbach, Les contes d’Hoffmann

★★★★☆

Amsterdam, het Muziektheater, 4 giugno 2018

(live streaming)

Le condo d’Hoffmann

Come tutti i capolavori, anche Les contes d’Hoffmann, l’ultima opera di Offenbach, permette letture molto diverse e stimolanti. Solo recentemente ci sono state quelle degne di nota di Robert Carsen (2002), Olivier Py (2008) e Laurent Pelly (2013), per non parlare di quella mitica di Chéreau (1974), la sua seconda regia operistica.

Ora al Nationale Opera di Amsterdam è in scena la produzione di Tobias Kratzer con la scenografia di Rainer Sellmaier. Quello che vediamo è un palcoscenico diviso in vari ambienti su più livelli, una casa di bambole aperta che non è certo una novità sulle scene dei teatri lirici degli ultimi anni (1), ma qui si dimostra particolarmente efficace a rappresentare i vari piani narrativi che si intersecano in questo lavoro onirico. Come nel romanzo di Georges Perec La vie mode d’emploie, il regista e lo scenografo ci fanno passare da un ambiente all’altro per seguire i deliri di Hoffmann, un artista ossessionato dalla cantante Stella, che fotografa anche di nascosto, nella cui figura egli rivive le tre folli passioni della sua vita: l’automa Olympia, l’infelice cantante Antonia, la mondana Giulietta. Il suo studio è nel mezzo di questo condominio che prevede il triste appartamento di Spalanzani, che in soffitta tiene le replicanti senza occhi di Olympia; le camere stuccate e borghesi in cui Crespel tiene prigioniera la figlia Antonia; le dark room del postribolo di Giulietta.

Kratzer porta in scena in maniera intrigante l’ossessione e la discesa nell’abiezione dell’artista che inizialmente rifiuta la “musa” che ha sempre avuto accanto per poi scoprire alla fine che l’ama. La Musa qui non diventa Niklausse, ma rimane una ragazza, l’unica donna del gruppo di ubriaconi e drogati della cerchia di Hoffmann, del quale è palesemente innamorata e di cui cura gli affari artistici.

Che il poeta abbia qualche problema con le donne “normali” ce lo suggerisce il regista, che trasforma Olympia in una bambola offerta dal padre al primo venuto e i cui vocalizzi sono intesi dal pubblico dei vicini di casa come espressioni del piacere sessuale. Antonia è invece un’educanda con le calze bianche e il grembiule nero che sfoga col canto la sua reclusione e colloquia con una madre morta la cui voce è registrata su un disco che alla fine lei spezzerà e con il quale si taglierà la gola. Giulietta è una sgualdrina vestita da sirena che irretisce gli uomini con la droga. Il coro è fuori scena nel primo atto, il meno convincente, ma poi la lettura del regista tedesco diventa sempre più incisiva e la discesa agl’inferi della degradazione umana è cupamente persuasiva.

Funzionale dal punto di vista drammaturgico, l’impianto lo è un po’ meno da quello vocale per i cantanti, che duettano separati da un muro o su livelli diversi, ma la professionalità degli interpreti ha avuto la meglio su questa idea registica. Presa di ruolo con esiti brillanti quella di John Osborn, un Hoffmann tormentato e dalle mille sfaccettature che il cantante risolve con richezza di sfumature, generosità vocale, acuti sicuri e una dizione quasi perfetta. Sempre presente in scena la Musa/Niklausse di Irene Roberts dal timbro caldo e dal piacevole registro basso. Le tre donne hanno qui tre interpreti diversi: Olympia ha la voce di Nina Minasian, soprano eccellente che si prende la libertà di gustose variazioni nei suoi couplet; Ermonela Jaho stupisce come sempre per l’intensità emotiva espressa nella definizione del personaggio di Antonia; Christine Rice offre la sua opulente presenza e sontuosa vocalità alla Giulietta del penultimo atto.

Il quadruplice ruolo di Lindorf/Coppélius/Miracle/Dapertutto trova in un animale da palcoscenico qual è Erwin Schrott, un temperamento istrionico fino all’eccesso con varie intemperanze vocali che disegnano un po’ sopra le righe personaggi in un crescendo di abiezione. Della sua fantasiosa dizione del francese non si può dire se sia voluta o meno. Dei restanti ruoli maschili ricordiamo almeno il Crespel/Luther di Paul Gay e l’abbrutito Schlémil di François Lis. Una sorpresa per presenza scenica e vocale è quella di Sunnyboy Dladla, Andrès/Cochenille/Frantz/Pitichinaccio, tutti quanti efficacemente caratterizzati.

Alla testa dell’Orchestra di Rotterdam, Carlo Rizzi concerta con sicuro mestiere questi Contes d’Hoffmann nell’edizione critica Kaye/Keck, l’unica ormai accettabile, con i versi di Stella qui cantati dalle tre donne nel finale e con alcuni tagli forse non necessari. Questa era l’occasione giusta per presentare finalmente la versione completa e definitiva di questo sulfureo capolavoro.

(1) Due esempi: Written on Skin di Katie Mitchell (2012), Cav & Pag di Philip Stölzl (2015)

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Cardillac

Paul Hindemith, Cardillac

★★★☆☆

Firenze, Teatro del Maggio Musicale, 12 maggio 2018

L’arte è al di sopra della morale? Un esordio deludente nella regia lirica.

Aveva inaugurato la stagione del Maggio Musicale nel 1991 e ora ritorna a dare il via all’81° Festival Fiorentino. Si tratta del Cardillac, lavoro di Paul Hindemith del 1926 poco frequente in Italia. Se allora erano stati Liliana Cavani e Dante Ferretti a metterla in scena, oggi è un attore/regista prestato per la prima volta alla lirica, Valerio Binasco, a rileggere questa storia della ossessione omicida di un artista incapace di staccarsi dalle proprie creazioni.

L’epoca scelta per l’ambientazione non è la Parigi di Luigi XIV prevista dalla novella di E.T.A.Hoffmann, ma gli anni della composizione dell’opera, con i costumi di Gianluca Falaschi, memorabili come sempre, che rimandano agli anni ’20, ma con un tocco felliniano. Le scene di Guido Fiorato hanno come sfondo palazzi le cui facciate sono sostenute da ponteggi: una via di mezzo tra una città “che sale” e una scampata a un bombardamento, mentre gli interni sono invece anche fin troppo realistici.

A sipario aperto, prima ancora che parta il puntuto tema del preludio, il regista inscena la pantomima di una coppia di genitori che appena rientrata a casa viene uccisa da Cardillac per riprendere il gioiello che il marito aveva regalato alla moglie per Natale. Una scelta non solo ingiustificata ma che rovina la tensione del successivo omicidio, come invece avviene nella novella da cui è tratto il libretto, in cui non si vede mai l’assassino in azione. Molto più azzeccata era stata resa la scena nella produzione parigina del 2005 dove Cardillac era stato trasformato dal regista André Engel in un Fantômas mascherato che agiva nell’oscurità. Malamente risolta è anche la scena della visita del re al laboratorio di Cardillac con un gruppo di gaudenti ubriachi. Anche qui il confronto a un precedente allestimento, quello di Jean-Pierre Ponnelle del 1985 in cui la venuta di Luigi XIV venne rappresentata come un sogno dell’orafo, non gioca a favore della scelta attuale.

Il problema di questa lettura di Binasco è che il regista non si schiera con decisione con la tesi dell’opera: nell’ambiguo finale l’arte è messa al di sopra di tutto, anche della morale. La cosa non era certo sfuggita ai censori nazisti, quegli stessi che avrebbero commesso le loro atrocità al grido di «Gott mit uns» e in nome di un’ideologia basata su una logica che non indietreggia di fronte all’omicido o addirittura allo sterminio. Questa preoccupazione fu colta in seguito da Hindemith, che nel 1952 a Zurigo rappresentò una versione in quattro atti, rivista anche nel libretto, in cui nel finale Cardillac risonosce la sua colpevole arroganza omicida. Qui nella versione del 1926 invece, dopo che la folla accecata e assetata di giustizia sommaria si è gettata su Cardillac e lo ha ucciso, l’ufficiale, vestito in un pastrano nero cui manca solo la svastica, intona una inquietante eulogia dell’assassino: «Ein Held starb. | Menschenangst war ihm unbekannt. | Liegt er auch hier, | ist er doch Sieger, | und ich beneide ihn» (Morì un eroe. Umana paura gli era ignota. Pur se qui giace, è lui il vincitore, e io lo invidio). Una conclusione che lascia piuttosto di ghiaccio.

In qualità di direttore musicale del Maggio, Fabio Luisi affronta la partitura con sapienza, dipanando lucidamente il contrappuntismo neobarocco che costella questa musikoper – opera cioè basata su una logica puramente musicale e scandita in 18 numeri chiusi in cui vecchie forme quali l’aria, il duetto, il quartetto (mirabilmente polifonico quello del numero 15) e il concertato con coro utilizzano un linguaggio musicale moderno che guarda però a Bach come riferimento. I particolari strumentali di cui è costellata la partitura sono chiaramente messi in luce da Luisi: l’oboe che precede la notte degli sfortunati innamorati, l’assolo di violino, oboe e corno dell’aria della Figlia, il sax tenore ombra di Cardillac. Le musichette volgari della taverna hanno le sonorità stridule, appuntite di un’orchestra la cui sezione degli archi è volutamente ridotta rispetto a quella dei fiati ed essenziali sono le percussioni. Il coro, che ha gran parte nell’azione assieme a numerosi figuranti in questa edizione, sotto la guida di Lorenzo Fratini si è dimostrato eccellente per precisione e colore.

Cardillac è l’unico ad avere un nome nel libretto di Lion, tutti gli altri sono semplicemente personaggi anonimi denotati dal loro ruolo sociale – la Dama, il Cavaliere, la Figlia, l’Ufficiale, il Commerciante d’oro, il Comandante della Prévôté. Nel ruolo titolare c’è Martin Gartner, vocalmente autorevole ma caratterizzato da un fraseggio piuttosto monocorde. Gun-Brit Barkmin è la Figlia, timbro lucente e un acuminato registro acuto sono i punti di forza della sua performance. A suo agio sia vocalmente sia scenicamente è risultato l’Ufficiale di Ferdinand von Bothmer. Nella coppia di innamorati si fa notare il cammeo di Jennifer Larmore, Dama non di primo pelo ma di personalità; meno rilevante il Cavaliere di Johannes Chum; più efficace scenicamente che vocalmente il Mercante di Pavel Kudinov.

Il pubblico fiorentino, non particolarmente folto alla recita pomeridiana, una delle quattro previste, ha decretato un buon successo agli artefici dello spettacolo.

Les contes d’Hoffmann

Jacques Offenbach, Les contes d’Hoffmann

★★★★☆

Monte-Carlo, Grand Théâtre, 31 gennaio 2018

(video streaming)

Les contes ritornano a Monte-Carlo con un Flórez che supera sé stesso

Il 5 ottobre 1880 Jacques Offenbach muore lasciando incompiuto il suo ultimo capolavoro. Ventiquattro anni dopo questo viene proposto all’Opéra di Monte-Carlo dove il direttore Raoul de Gunsbourg e André Bloch (che ne curò la riorchestrazione) effettuano proprie modifiche, integrando l’atto quarto (Giulietta) dopo il secondo atto (Olympia) e aggiungendo proprie composizioni (l’aria di Dapertutto «Scintille, diamant» e il sestetto con coro su tema della barcarola, basati su musica di Offenbach). Con la pubblicazione nel 1907, dal solito Choudens, dell’edizione Gunsbourg, l’opera assume la veste che, considerata come definitiva, verrà adottata nei teatri di tutto il mondo sino agli anni ’70. (1)

Senza prendere minimamente in considerazione gli studi e i ritrovamenti degli ultimi anni su cui sono basate le produzioni più recenti, l’opera ritorna nella piccola Salle Garnier del Principato nella vecchia versione ed è ripresa dalla televisione francese e trasmessa in streaming da culturebox.

Punto forte dell’avvenimento non è tanto l’allestimento, risalente al 2010, quanto l’atteso debutto di Juan Diego Flórez come Hoffmann. Fin dalla prima frase, «Hélas sur une herbe morte au souffle glacé du vent du nord», profferita con un’eleganza e una varietà di colori che assegna ad ogni parola la sua giusta intenzione, si sente che il cantante ha lavorato molto sulla parte e si capisce che la sua performance sarà memorabile. E nel prosieguo si conferma infatti la prima impressione: con gli occhialetti tondi di Offenbach, il fraseggio curato al massimo, la dizione impeccabile, la solita magistrale gestione dei fiati e generoso di acuti, il tenore peruviano si prende la scena e non la molla più fino alla fine, anche grazie a una presenza scenica che negli anni si è rivelata sempre più sicura.

I tre ruoli femminili (il quarto, quello di Stella, qui è muto) sono interpretati dalla stessa cantante, impresa che nel passato solo dive come Beverly Sills, Joan Sutherland ed Edita Gruberová avevano affrontato. Recente era stato il caso della bravissima Mireille Delunsch nell’edizione di Minkowski/Pelly a Losanna. Ora Olga Peretjat’ko, anche lei al debutto nel ruolo, non convince pienamente: a parte una dizione non perfetta («Elle a fui, la tourtouralle»…) e acuti non sempre puliti, come Olympia delude nelle agilità e la presenza scenica è un po’ scialba, nonostante l’idea del regista di trasformarla in donna “vera” quando Hoffmann indossa gli occhiali di Coppélius e ritornare bambola meccanica quando se li toglie – come già aveva fatto Arias nell’edizione alla Scala con la Dessay.  Manca anche lo stralunato umorismo o quel pizzico di erotismo che invece ad esempio Desirée Rancatore immetteva nel personaggio dell’automa. Come Antonia il soprano russo non riesce a commuovere veramente e il timbro leggermente metallico della voce qui si fa evidente. E infine a Giulietta manca la sensualità e qui si fa sentire la fatica a sostenere tutti e tre i personaggi.

E quattro sono anche i ruoli ricoperti dallo stesso cantante, Nicolas Courjal. Qui però il fascinoso basso di Rennes riesce pienamente nell’impresa e i suoi Lindorf, Coppélius, Docteur Miracle e Dapertutto hanno tutti un’elegante impronta diabolica pur essendo distintamente caratterizzati da una vocalità che gioca con prodigiose sfumature, dove non ci sono note acute o basse che non siano sempre pienamente concluse e con un timbro di grande bellezza.

Ottimi i ruoli secondari: dal Nicklausse di Sophie Marilley al quadruplo valletto Andrès-Cochenille-Frantz-Pitichinaccio di Rodolphe Briand, dalla madre di Antonia, un’intensa Christine Solhosse, allo Spalanzani di Reinaldo Macias. Voce affaticata e ridotta a un soffio invece quella del Crespel di Paata Burchuladze. Di buona resa la fluida direzione musicale del canadese Jacques Lacombe a capo dell’Orchestre Philharmonique.

A distanza di anni la messa in scena del direttore del teatro Jean-Louis Grinda si rivela ancora teatralmente efficace e la scenografia di Laurent Castaingt, con il fondo che riproduce la stessa sala dell’Opéra de Monte-Carlo vista dal palcoscenico, è funzionale ai diversi atti ognuno caratterizzato da particolari: automi appesi dall’alto nel secondo, l’ombra di un pianoforte nel terzo, un pavimento nero lucido per simulare l’acqua lagunare nel quarto. L’allestimento di Grinda non ha comunque la genialità di quelli di Carsen, Py o Pelly, ma si limita a illustrare la vicenda. Il costumista David Belugou non rinuncia a vestire con le solite maschere il coro veneziano, ma per il resto gli abiti ottocenteschi hanno una loro eleganza se non originalità. La produzione non meriterebbe più di tre stelline, ma Dieguito le fa conquistare quella in più.

(1) Sulla questione delle varie versioni – in sostanza quattro: Choudens (1887-1907), Oeser (1976), Kaye (1992) e Keck (2009) – si vedano le numerose pagine dedicate da Elvio Giudici all’argomento nel suo ultimo volume sull’Ottocento de L’Opera. Storia, teatro, regia.

Le roi Carotte

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Jacques Offenbach, Le roi Carotte

★★★★★

Lione, Opéra Nouvel, 14 dicembre 2015

«C’est lui, c’est lui le roi Carotte. Sapristi! Malheur à qui, à qui s’y frotte!»

Sei ore di musica, 24 quadri ripartiti in quattro atti, sedici ruoli principali, quaranta personaggi, centinaia tra coristi, comparse e fantasisti, un guardaroba immenso con costumi fastosi e fantastici – studenti, contadini, borghesi, cortigiani, antichi pompeiani, scimmie, insetti vari, formiche, api e ovviamente legumi. Un successo enorme. Eppure le 190 repliche al Théâtre de la Gaîté bastarono appena a pagare le spese di allestimento, non a coprire i debiti accumulati precedentemente e Jacques Offenbach dovette rituffarsi nella composizione di altre opere che sarebbero costate nuovamente una follia e così via in un circolo vizioso per il resto della sua vita.

Per di più l’ostilità attorno alla figura di questo ebreo tedesco naturalizzato francese stava montando sia per invidie professionali sia per il crescente antisemitismo. Il suo Roi Carotte veniva letto dai realisti come una satira della monarchia e dai radicali come una satira della repubblica, con il risultato che il compositore si andava inimicando in egual misura entrambe le fazioni. E così la sua féerie musicale/opéra bouffe dal titolo assurdo scomparve dalle scene dei teatri francesi.

Victorien Sardou aveva iniziato a scrivere il libretto nel 1869, ma la guerra franco-prussiana aveva imposto l’esilio a Offenbach, considerato una spia dai francesi e un traditore dai tedeschi. Il compositore dovette riparare prima in Spagna e poi in Italia. Solo alla fine della guerra, con la sconfitta dei francesi, potè ritornare a Parigi e rimettersi al lavoro. Nel gennaio 1872 Le roi Carotte è pronto per le scene. Il successo è fenomenale, come si è detto, ma ambiguo e il suo Fantasio presentato appena tre giorni dopo è un fiasco colossale, con la stampa che accusa Offenbach di essere la causa della disfatta militare: «facendo ballare il Secondo Impero al suono delle sue operette ha demoralizzato la Francia […] quando poi non l’ha messa in guardia contro il militarismo con la Grande-duchesse de Gérolstein» come riassume il musicologo Jean-Christophe Keck che ha riportato alla luce il manoscritto in una curata edizione critica,

Ispirato al racconto di E.T.A. Hoffman Klein Zaches, genannt Zinnober (Il piccolo Zaccaria detto Cinabro, che come Kleinzach apparirà nei Racconti di Hoffmann), l’arguto libretto di Sardou ha piuttosto lo spirito di un Voltaire (non è un caso che uno dei personaggi si chiami Cunégonde come nel Candide): nata come parabola dell’evoluzione politica dell’Impero, nella vicenda di Roi Carotte ognuno poteva leggere quello che voleva poiché non c’è niente di meglio dei legumi per far passare un messaggio politico: il tiranno, pur nella sua perfidia, rimane inattaccabile in quanto radice commestibile!

Siamo nella città di Krokodyne. Il paese è economicamente in rovina e il principe si aspetta dalle nozze con la principessa Cunégonde di salvare le finanze del regno. La strega Coloquinte, per vendicarsi di uno sgarbo del padre di Fridolin, risveglia gli spiriti delle piante del giardino reale: prendono così vita rapanelli, barbabietole, rape e soprattutto la carota, che detronizza Fridolin mettendolo in fuga. Questi si salverà solo con l’aiuto dell’anello di Salomone. Viaggiando nel tempo e nello spazio l’anello viene recuperato a Pompei il giorno stesso dell’eruzione del Vesuvio. Fridolin perderà stupidamente l’anello, ma nel frattempo il popolo si accorge che il nuovo dominatore è ancora peggiore del precedente e una controrivoluzione riporta Fridolin sul trono.

Anche se ai contemporanei di Offenbach potevano offrire spunti di satira politica, ora le strampalate vicende sono soprattutto motivo di divertimento e uno dei massimi momenti di umorismo è il quadro di Pompei in cui tra le altre cose i nostri viaggiatori nel tempo spiegano agli svagati pompeiani che cos’è una locomotiva nella “ronde des chemins de fer” con il suo delizioso refrain: «Écume et renifle, noir cheval de fer! | Souffle, souffle, siffle, va ton train d’enfer».

Della copiosa produzione di Offenbach, oltre un centinaio d’opere, solo una mezza dozzina sono più o meno regolarmente in scena oggi, ma ogni tanto viene messo alla luce qualche nuovo gioiello e questo Roi Carotte è certamente uno di quelli. Laurent Pelly, cui si devono le più brillanti regie dei capolavori offenbachiani degli ultimi anni, lo fa rivivere sulle tavole dell’Opéra di Lione con la complicità delle sue abituali collaboratrici: Agathe Mélinand per l’adattamento del libretto e la nuova versione dei dialoghi parlati e Chantal Thomas per le scenografie. Mancano le coreografie, essendo queste tagliate in questa produzione che condensa in tre atti divisi in undici quadri l’opera impossibile da mettere in scena integralmente. La mancanza di una tradizione interpretativa (neppure una registrazione audio è disponibile) è stata una sfida per il regista che ha usato la sua sbrigliata fantasia per una lettura briosa immersa scenicamente in un bric-à-brac di mobili e librerie che creano i vari ambienti (la birreria, la soffitta della strega, il palazzo reale, Pompei, la campagna, il mercato) in cui si sviluppa questa fantasticheria vegetale che sembra far suo il surrealismo della Alice in Wonderland pubblicata sette anni prima. Tutti memorabili i momenti della sua messa in scena, dalla ronda scatenata degli studenti del primo quadro alla surreale conclusione del terzo atto allorché Roi Carotte viene ignominiosamente spinto dentro un enorme passaverdura da cui esce in formato di purea…

In scena vecchie e nuove glorie di questo genere musicale. Yann Beuron è un Fridolin come sempre servito da impareggiabile presenza scenica e qualità vocali di prim’ordine, qualità che troviamo anche nel Pipertrunck di Jean-Sébastien Bou. Eccellenti le giovani interpreti femminili Julie Boulianne (spigliato Robin-Luron), Chloé Briot (lirica Rosée-du-soir) e Antoinette Dennefeld (la simpatica canaglia Cunégonde). Di ottimo livello il resto del cast che comprende il ruolo tenorile dello spassoso Roi Carotte, Christophe Mortagne,  e quello parlato della perfida strega Coloquinte.

Un giovanissimo Victor Aviat guida con bravura l’orchestra del teatro lionese in questa partitura che alterna vivaci ensemble a momenti intensamente lirici, ma che non dimentica di parodiare la musica dell’amato/odiato Rossini, soprattutto quello del Guillaume Tell, come nel quartetto del II atto, il saluto a Pompei: «Salut, fantôme du passé | Salut ô ville morte! Salut! Salut!».

Lo spettacolo termina tra gli applausi del pubblico divertito. Che peccato dover ripartire l’indomani e non poter ritornare a ridere con Offenbach, ce ne sarebbe proprio bisogno in questo momento, e non solo qui in Francia. Per arrivare a teatro si passa davanti alla scalinata del palazzo municipale ancora ricoperta di lumini e fiori a un mese dal massacro del Bataclan – e Ba-ta-clan è il titolo di un’altra opera di Offenbach…

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Les contes d’Hoffmann

  1. López-Cobos/Carsen 2002
  2. Davin/Py 2008

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★★★★☆

1. Grandiosa e surreale messa in scena dell’ambizioso ultimo capo­lavoro di Offenbach

La prima rappresentazione della seconda e ultima opera di Offenbach (le altre 100 sono operette) avvenne nel 1881 dopo la morte del­l’autore senza che egli ne avesse potuto terminare la strumentazione. È dunque un’opera aperta e ogni direttore ha la sua personale lettura fra le infini­te possibili versioni.

Esaurienti sono le 64 pagine e le tabelle riportanti le varie versioni nel testo di Elvio Giudici sull’Ottocento della sua monumentale L’opera. Storia, teatro, regia.

Il libretto di Jules Barbier è tratto da una pièce che egli stesso aveva scritto con Michel Carré nel 1851 basandosi su tre racconti fan­tastici di E. T. A. Hoffmann (L’uomo della sabbia, Il consigliere Krespel e Le avventure della notte di San Silvestro).

Atto primo (Prologo). La taverna di mastro Luther, rischiarata dalle luci della notte. Gli spiriti del vino e della birra animano, invisibili, la serata intonando un coro alle gioie della vita. Evocata dal loro canto, si materializza la Musa che, dopo un saluto festoso ai fumi della taverna, chiede agli spiriti di restituirle l’amore di Hoffmann. Da qualche tempo il poeta non ha occhi che per Stella, la cantante che ora sta trionfando sul palcoscenico del teatro vicino in un’opera di Mozart. Per raggiungere il suo scopo, la Musa assume le sembianze di un giovane, Nicklausse, e si unisce agli studenti e agli amici di Hoffmann. L’arrivo nella taverna del consigliere Lindorf, corteggiatore di Stella, seguito da Andrea, il servitore della cantante, immette nell’atmosfera una nota sinistra: non soltanto perché Lindorf si è impadronito di un biglietto amoroso, indirizzato a Hoffmann, in cui Stella ha messo le chiavi del suo appartamento, ma per la tracotanza e il cinismo dell’uomo, convinto di conquistare la cantante con le armi dell’astuzia. Luther e i suoi aiutanti si preparano intanto a ricevere la primadonna. Si apre una porta sul fondo, una corte di studenti entra in scena brindando al ritmo di una canzone goliardica. Dopo i giovani compaiono anche Hoffmann e Nicklausse e subito il poeta è al centro dell’attenzione. Sembra preoccupato: «Notte e giorno mal dormire» risponde enigmaticamente, con una citazione mozartiana, agli amici che lo interrogano. Ma nella taverna non c’è spazio per le malinconie d’amore: incalzato dai presenti Hoffmann è costretto a reagire e a raccontare la leggenda del buffo nano Kleinzach. L’immagine di Stella finisce però con l’affiorare anche tra le descrizioni di quell’essere bizzarramente deforme e Hoffmann si perde di nuovo tra i suoi pensieri prima di essere riportato alla realtà dagli amici che vogliono ascoltare la conclusione della storia. Appartato ma attento a ogni sfumatura, Lindorf osserva il rivale incupirsi, poi negare di essere innamorato e inneggiare all’ebbrezza. Decide così di sferrare il suo attacco, con provocazioni che colpiscono Hoffmann nel segno. Nonostante l’evidenza, il poeta continua a fingere distacco dalle donne e dall’amore, ma alla fine, stuzzicato anche dagli studenti, accetta di confessare tre storie appassionate di cui è stato protagonista.
Atto secondo. Nel suo studio di scienziato il fisico Spalanzani sta ammirando la sua ultima creatura. Ed è con piacere misto a riluttanza che se ne stacca per ricevere Hoffmann, il migliore tra i suoi allievi, venuto a festeggiare con altri invitati illustri l’ingresso in società di sua figlia Olympia. Rimasto solo in salotto, per permettere a Spalanzani e al suo servitore balbuziente Cochenille di ultimare i preparativi, Hoffmann vede la ragazza dormire dietro una tenda ed è subito preso d’amore per lei. Con argomentazioni oscure Nicklausse esorta il poeta alla prudenza: invano. Annunciato dalla stessa nota sinistra che aveva accompagnato Lindorf arriva intanto Coppélius, uno strano commerciante di lenti, che mostra a Hoffmann le sue merci meravigliose – occhialetti, piccoli binocoli e autentici occhi – e riesce a venderne alcune all’ingenuo poeta. Un losco commercio sembra legare Coppélius e Spalanzani, che si contendono la paternità di Olympia e chiudono la questione con un accordo economico: un versamento dello scienziato (ma in una banca appena fallita). Gli ospiti riportano un clima di serena affettazione, cui aderisce il manierato padrone di casa presentando finalmente la figlia tanto decantata. La ragazza, avara di parole e dai movimenti stranamente legnosi, si esibisce in una chanson durante la quale si sentono rumori sospetti di caricamento meccanico che rianima i gorgheggi quando sembrano spegnersi. Nemmeno il poeta, in un romantico tête à tête, riesce a scuotere la fanciulla dal suo mutismo: come risposta alle parole d’amore ottiene soltanto dei laconici ‘sì’. E quando si aprono le danze, la giovane sfinisce con i suoi inarrestabili volteggi l’arrendevole Hoffmann, sempre più innamorato. Dopo il ballo, assistita da Cochenille, la silente Olympia si ritira, ma presto un rumore di ferri rotti scioglie i dubbi degli invitati e rompe l’incantesimo del poeta: Coppélius, infuriato per l’imbroglio di Spalanzani, ha distrutto la algida fanciulla, che altro non era se non un automa.
Atto terzo. Una stanza nella casa del liutaio Crespel, a Monaco. Su una parete, tra violini appesi, incombe un ritratto di donna. Seduta al clavicembalo, Antonia, la figlia di Crespel, intona una canzone. La sua voce melodiosa fa trasalire il padre che entra nella stanza e, correndo verso di lei, la implora di smettere. Una malattia mortale, provocata dal canto, minaccia Antonia, la stessa che ha già tolto la vita a sua madre. Ma la giovane, attratta irresistibilmente dalla musica, sembra non curarsene. Per scongiurare il peggio, il padre bada che nessuno, in particolare Hoffmann, avvicini la figlia e istruisce in proposito il vecchio servitore, il sordo Frantz, che annuisce senza avere inteso. Al contrario, non appena Crespel è uscito, Frantz apre la porta di casa al poeta e al suo amico Nicklausse. Finalmente soli, Antonia e Hoffmann amoreggiano sino a quando il ritorno di Crespel li obbliga a separarsi e il poeta deve nascondersi. Tetragono agli ordini del padrone, Frantz introduce persino il dottor Miracle, colpevole di avere ucciso, con i suoi malevoli inviti a cantare, la madre di Antonia. Grazie alle sue facoltà medianiche, il diabolico dottore induce la ragazza a gorgheggiare, mentre Hoffmann, che ha scoperto la verità, teme con il liutaio per la sua vita. Crespel riesce a sventare il pericolo, ma Miracle, cacciato dalla porta, rientra magicamente da una parete e i due finiscono con l’accapigliarsi. Intanto Hoffmann, uscito dal suo nascondiglio, scongiura l’innamorata di rinunciare alla musica. Miracle però istiga di nuovo Antonia a cantare e per convincerla chiama in aiuto lo spettro della madre, la cui voce esce improvvisamente dal ritratto appeso alla parete. Antonia non resiste alla tentazione e muore tra le braccia del padre e dell’affranto Hoffmann.
Atto quarto. In un lussuoso salone di un palazzo veneziano. Giulietta, fascinosa cortigiana, intrattiene gli ospiti di una festa spumeggiante. Fuori scena, due voci femminili e il coro si uniscono in una barcarola. Hoffmann risponde con un chant bacchique, già pronto per una nuova avventura amorosa. La conoscenza di Peter Schlémil, corteggiatore discreto ma tenace di Giulietta, accende la gelosia e insieme il desiderio del poeta, ignaro di quanto la sorte abbia in serbo per lui. Mentre gli invitati, spinti dalla cortigiana, si spostano nella sala da gioco, appare un sinistro personaggio, il sedicente capitano Dapertutto. L’uomo, dotato di poteri magici, possiede un diamante prezioso quanto rarissimo, con il quale seduce Giulietta promettendo di donarglielo se priverà Hoffmann del suo riflesso così come ha tolto a Schlémil la sua ombra. La donna ubbidisce: attira a sé il poeta, lo circuisce, lo deruba e, quando lo scempio è avvenuto, lo deride. Accecato d’ira, Hoffmann si batte a duello con Schlémil, uccidendolo. Ma l’avida cortigiana gli sfugge imbarcandosi su una gondola con il servitore Pitichinacchio, mentre Nicklausse trascina via l’amico per salvarlo dall’arresto.
Atto quinto (Epilogo). Nella taverna di mastro Luther i presenti hanno finito di ascoltare i racconti e ora accettano l’invito di Hoffmann a bere e a brindare alle tre donne, in cui si sommano i diversi aspetti di una sola: Stella. Applausi, acclamazioni fuori scena: nel teatro vicino l’opera è finita. Lindorf si affretta a raggiungere la primadonna, mentre il poeta esita. Riappare allora la Musa, nelle sue sembianze divine, e come all’inizio prega Hoffmann di dedicarsi all’arte. Si sentono le voci di un coro. Il poeta, turbato, si unisce al canto.

La produzione dell’Opéra Bastille di Parigi del 2002 è nella ricostruzione di Ernest Guiraud (edizione Choudens). La grandiosa e intelligente mes­sa in scena è di Robert Carsen ed è tra le sue regie più ambiziose. Egli in­tende la vicenda come un onirico meta-teatro, così come quella di Offenbach è un’operazione meta-musicale: il prologo e l’epilogo sono nel bar del foyer di un teatro in cui si dà il Don Giovanni di Mozart tra i cui interpreti c’è Stella, la bambola Olympia volteggia dietro il sipa­rio, Antonia spira cantando tra i leggii di una fossa orche­strale e la vi­cenda di Giu­lietta avviene tra file di poltrone che ondeggia­no al ritmo della celebre barcarola. Jesús López-Cobos dirige con fervore e trova i tempi giusti lungo tutta la partitura ed è ben seguito dall’ottima orchestra.

L’americano Neil Shicoff, tenore non di primo pelo e con quasi cento interpretazioni nel ruolo del titolo, si conferma intelligente interprete, ma non bisogna soffermarsi troppo sui suoi suoni strangolati, su una li­nea di canto sfaldata e una dizione non ineccepibile. Squillanti e precisi inve­ce i suoi acuti. L’altra star della produzione è Bryn Terfel nel quadruplo ruolo diabolico: monumentale e inquietante nella presenza scenica, sontuoso e potente nel­la vocalità.

Il trio delle dame è validamente sostenuto da tre grandi interpreti: Desirée Rancatore è una bambola meccanica ironica nei suoi ammiccamenti erotici e impavida nelle acrobazie vocali del suo ruolo, Ruth Ann Swenson presta la sua voce intensa e bellissima alla patetica figura di An­tonia e Béatrice Uria-Monzon disegna al meglio una seduttiva Giu­lietta. Nella parte della Musa e di Nicklausse è l’ammirevole Susanne Mentzer. Il mitico Michel Sénéchal presta la sua arguta figura ai personaggi buffi del­le diverse vicende.

Ripresa video di François Roussillon con insistenza sui primissimi pia­ni (ah, gli occhi di Terfel! e quanto suda Shicoff!). Due dischi, tre tracce audio, nessun extra.

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★★★☆☆

2. L’Offenbach macabro e sulfureo di Py

Con questo spettacolo del 2008 il regista Olivier Py, che cura anche le luci, conclude il trittico “diabolico” ideato per il Grand Théâtre di Ginevra dopo Der Freischütz e La damnation de Faust. Scheletri e teschi sono una presenza costante nell’ambiente tardo Secondo Impero noir e tenebroso seppure rischiarato dall’elettricità. Dalla cornice di luci alla lampadina penzolante nei sinistri ambienti disegnati dal suo fedele scenografo Pierre-André Weitz, è tutto un gioco di luci livide e riflessi in cui si perde non solo l’immagine di Hoffmann ma anche la prospettiva della struttura a più piani che si divide e si ricompone e ruota incessantemente.

Di Weitz sono anche i costumi. Caratteristici i coristi in nero con cilindro e maschera, ma numerose sono le nudità, anche se suggerite, più che esposte, da calzamaglie color carne con pelo pubico applicato. La regia video di Philippe Béziat fa acrobazie per evitarle, usando solo primissimi piani o campi lunghi. Nudità ancora più esplicite saranno quelle della produzione di Marthaler al Teatro Real di Madrid nel 2014.

Come si capisce in questi due DVD l’aspetto visivo è preponderante e ha la meglio su quello musicale, soprattutto quello vocale. Utilizzando la versione Oeser, tra le più complete, il direttore Patrick Davin riesce a dare unità a questo lavoro frammentario e ne esprime correttamente la drammaticità, se non la sulfureità.

Marc Laho è un Hoffmann vocalmente generoso ma senza gli acuti di tradizione e soprattutto monocorde e inespressivo. Nelle quattro parti diaboliche Nicolas Cavallier è corretto ma manca completamente di carisma. Le tre parti femminili sono opportunamente assegnate a tre diverse cantanti tutte però fisicamente simili alla Stella: caschetto nero alla Louise Brooks (tanto che senza la musica parrebbe di trovarsi davandi alla Lulu di Berg), nuda Olympia, abbottonatissima Antonia, in guépière Giulietta. Ma anche qui, a parte l’Olympia di Patricia Petibon, che con l’abbassamento di mezzo tono previsto dalla versione Oeser svetta nelle sue precise agilità, né l’Antonia di Rachel Harnisch né la Giulietta di Maria Riccarda Wesseling convincono pienamente: la prima un po’ fredda, la seconda dal timbro sgradevole. Meglio la Musa/Nicklausse di Stella Doufexis. Efficaci Henri Huchet nelle parti buffe, Gilles Cachemaille come Crespel e Bernard Deletré, Schlemil.

La registrazione è su 2 DVD con sottotitoli in quattro lingue ma non in italiano.