L’angelo di fuoco

Sergeij Prokof’ev, L’angelo di fuoco

★★★★☆

Monaco, Nationaltheater, 12 dicembre 2015

Servizio in camera con esorcismo

Il problema de L’angelo di fuoco è: bisogna prenderlo sul serio?

Il lavoro di Prokof’ev è basato sul romanzo simbolista di Valerij Brjusov che nel 1909 alla sua pubblicazione non aveva scandalizzato quanto l’opera del compositore russo che, terminata nel 1927 dopo lunga gestazione, debuttò postuma quasi trent’anni dopo perché nessuna osava metterla in scena: la vicenda è un caso patologico di isteria femminile, come quelli analizzati da Freud a fine Ottocento, vissuto tra forti pulsioni sessuali e ossessivi sensi di colpa. Renata, la protagonista, è come Salome ed Elettra frutto della psicanalisi, ma come personaggio drammaturgico è meno convincente.

Incorniciata da un passe-partout bianco, la scena di Rebecca Ringst mostra la junior suite dell’Hotel Belvedere: la valigia da disfare, la bottiglia di vodka comprata al duty free shop, lo schermo al plasma della tv già acceso, la cena in camera. La «sordida mansarda di una locanda» qui è un hotel di lusso (c’è anche un pianoforte!) e si capisce che il cavaliere, dall’aria un po’ mafiosa, è uno avvezzo ai viaggi internazionali. Da sotto il letto esce Renata, la donna invasata che cerca di scacciare il demonio che la tormenta nelle sue visioni. Nella spasmodica ricerca di un appagamento erotico la donna si era innamorata di un angelo, poi del conte Heinrich in cui lo pensava reincarnato, poi dirà di amare anche Ruprecht, prima di finire in convento ed essere bruciata per possessione diabolica – siamo pur sempre nella Germania del Cinquecento. Il viaggiatore osserva dapprima con divertito scetticismo le intemperanze della donna e per un momento pensa anche di approfittarne per un’avventuretta, poi acconsente ad accompagnarla nelle sue ricerche, all’inizio forse per spezzare la monotonia del suo viaggio d’affari, ma poi sarà sempre più invischiato nella spirale delle sue distruttive allucinazioni.

Nel secondo atto le cose si complicano: colpi alle pareti, oggetti che si muovono, un antiquario di libri che sbuca dal letto. Lo scetticismo di Ruprecht deve fare i conti con le visioni di Renata che l’hanno ora completamente contagiato. Siamo entrati in un piano metafisico, ma “à la Koski”: con un coup de théâtre del tutto coerente con la musica sparata in orchestra con una violenza quasi insostenibile, entra un caricaturale Agrippa che invece dei «cani pelosi» citati dal libretto si porta dietro un corteo di ragazzi tatuati in lunghi abiti da sera femminili (i costumi sono disegnati da Klaus Bruns). Non si sa se sia intenzionale la scelta del regista, ma c’era il precedente del tatuaggio sul petto dell’interprete Evgenij Nikitin di una svastica nazista che aveva causato la cancellazione della sua partecipazione nell’Olandese volante a Bayreuth nel 2012 a pochi giorni dal debutto.

Anche l’ingresso di un Mefistofele e un Faust (sì, ci sono anche loro!) ancora più caricaturali è occasione per il regista di allestire un altro momento spettacolare: una sarabanda demoniaca suggerita dal tono della musica. La surreale scena della taverna dà modo a Kosky di esibire il suo lato camp con il personaggio clownesco di Faust, le gag grottescamente sessuali suggerite dalla situazione e i movimenti coreografici del fidato Otto Pichler. Un terzo momento di grande teatralità è ovviamente la lunga – troppo lunga – scena dell’esorcismo finale in cui l’Inquisitore, ma anche le monache, sono dei Cristi da processione con corona di spine e tunica sporca di sangue.

La scelta dell’ambientazione condiziona la drammaturgia: quasi tutti i personaggi appartengono al personale dell’albergo. La scena è sì fissa, ma non troppo: la camera d’albergo si contrae, si dilata, i mobili si muovono da soli, botole si aprono nel pavimento, il soffitto sparisce, tendaggi rosso sangue coprono le pareti, dalla porta entra di tutto e le luci non naturalistiche di Joachim Klein ne cambiano in continuazione l’atmosfera. Rosse, verdi, blu, bianco ghiaccio, danno il tocco espressionistico a una vicenda bizzarra dagli oscuri simbolismi.

A questo punto si può rispondere alla domanda iniziale. Kosky legge la vicenda come un caso di dipendenza patologica da parte di un uomo emotivamente soggiogato dalla pazzia di una donna di cui non siamo nemmeno certi dell’esistenza e continuiamo a chiedercelo anche dopo il delirante finale, dopo oltre due ore di accelerando musicale senza intervalli. Quindi la risposta è sì sul lato psicanalitico, no su quello metafisico.

La vorticosa cavalcata musicale è condotta da Vladimir Jurovski alla testa dell’orchestra del teatro con una tensione spasmodica che non impedisce però la cura del particolare strumentale di questa sorprendente e complessa partitura. Il già citato Evgenij Nikitin è un Ruprecht vocalmente talora affaticato e non del tutto convinto del personaggio, ma in effetti né il libretto né Prokof’ev lo aiutano molto. Totale dedizione è invece quella di Svetlana Sozdateleva nella sfibrante parte di Renata sostenuta fino alla fine senza cedimenti vocali e con bella presenza scenica. Nei tanti personaggi secondari si contano interpreti mediamente efficaci: ecco quindi ad esempio il tenore Vladimir Galouzine (Agrippa), il basso Igor Tsarkov (Faust), il tenore Kevin Konners (Mephistopheles), il basso Jens Larsen (Inquisitore), Elena Manistina (Indovina) e Christian Rieger (servo della locanda).

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