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Jean-Philippe Rameau, Les Boréades
★★★★☆
Digione, Grand Théâtre, 22 marzo 2019
(video streaming)
L’amore che sfida gli dèi
Un ottantenne Rameau nel 1763 portava a termine la sua carriera di compositore con questo strano lavoro che concludeva anche il periodo dell’estetica barocca nell’opera: l’ultimo intervento di Abaris, l'”air gracieux” con le sue fioriture vocali e la metafora dell’amore come un ruscello che scorre in mezzo ai fiori, sembrava condensare le migliaia di analoghe metafore delle arie barocche.
La storia è quella di Alphise regina di Battria, che per decreto divino deve unirsi in matrimonio con un discendente di Borée, dio del vento del nord, che ha due figli, Calisis e Borilée. Il cuore di Alphise però batte per Abaris, figlio incognito di Apollo stesso, e per amore la regina rinuncia al trono destando l’ira di Borée che scatena gli elementi atmosferici e rapisce Alphise. Abaris però sconfigge il dio con una freccia magica ricevuta da Amore ed è allora che Apollo rivela di essergli padre. Essendo la madre una discendente di Borée, Abaris può sposare Alphise.
L’esilità della vicenda e la mancanza di una vera e propria azione portano Rameau a concentrare l’attenzione sulla caratterizzazione dei personaggi, insolita per l’epoca e prefigurante già Berlioz e Debussy secondo Emmanuelle Haïm che dirige l’opera. Con il suo Concert d’Astrée, orchestra e coro, e la scelta di un diapason a 400 Hz, la fulva direttrice restituisce all’opera i suoi colori e la sua tensione emotiva. Per non parlare del brio delle danze.
In scena ci sono ottimi interpreti tutti specialisti in questo repertorio. Hélène Guilmette è la contesa Alphise, vocalmente sicura e sensibile. A Mathias Vidal tocca la parte più drammatica, che il tenore francese, nel ruolo di haute-contre, disimpegna con grande emozione e proprietà stilistica. Emmanuelle de Negri qui copre ben quattro parti diverse con brio e presenza scenica. Edwin Crossley-Mercer presta con efficacia il suo registro basso ai personaggi di Adamas e di Apollo. Qualche difficoltà vocale non impedisce a Christopher Purves di delineare il malvagio Borée. Non proprio indimenticabili gli interpreti dei due figli Borilée e Calisis.
Dopo i tableaux vivants di Jean-Louis Martinoty a Aix-en-Provence della riscoperta nel 1982 dopo più di due secoli, nel 1999 a Salisburgo ne Les Boréades si erano cimentati i coniugi Herrmann e a Lione Laurent Pelly nel 2004. L’anno prima Robert Carsen aveva portato la sua produzione sul palcoscenico di Palais Garnier, un’edizione memorabile e fortunatamente registrata su disco.
La tenue storia è punteggiata da innumerevoli balletti. Se a Parigi questi erano stati affidati ai La La La Human Steps, qui a Digione in quella che è stata definita dalla critica la miglior co-produzione europea dell’anno, abbiamo gli altrettanto ironici passi di Otto Pichler, abituale collaboratore coreografico del direttore del Komische Theater.
Kosky sceglie una lettura estremamente minimalista assieme alla scenografa Katrin Lea Tag che si occupa anche dei costumi, abiti moderni di tutti i giorni: uno schermo bianco si rivela essere una enorme scatola quando Amour ne alza il coperchio con un dito e rimane una piattaforma, campo d’azione principale dove i personaggi sono risvegliati e mossi dal soffio degli dèi (Apollo, Amore e Borée) che fanno degli umani i loro burattini e sembra che diano loro vita solo per osservarne le reazioni. Anche la rappresentazione era iniziata con il soffio vivificatore di Borée verso la buca dell’orchestra e far partire così la musica. Pochi altri elementi si aggiungono a questa messa in scena estremamente depurata: fiori giganti che pendono a testa in giù per la festa di Aphise, mucchi di terra bruciata dopo le devastazioni degli elementi, una pioggia di stelle dorate per l’apparizione del deus ex machina – qui un lugubre personaggio con testa di corvo e sostenuto lui stesso da corvi neri, proprio il contrario della luminosità che penseremmo abbinata ad Apollo. Spiazzante è anche il finale, quando i due amanti, dopo le peripezie che li hanno finalmente riuniti, vengono privati della freccia da Amore e si separano per poi perdersi nel buio. Il coperchio si abbassa per l’ultima volta e ci troviamo davanti al cubo bianco iniziale. Tutto è ritornato com’era prima, come se non fosse successo nulla.
Tende al minimalismo anche il numero degli interpreti: uno solo per Adamas e Apollon (il sacerdote qui è l’incarnazione del dio) e uno solo per Sémire, Amour, Ninfa e Polymnie, che quindi è quasi sempre in scena.
Digione, patria di Rameau, è la città che ha rivelato Kosky ai francesi, fin dal Castor et Pollux del 2014. Anche allora il regista aveva puntato all’essenziale: una scena unica e spoglia per concentrare l’attenzione sui corpi, dove dai solisti ai coristi tutti si muovono e danzano con convinzione, qui prendendo a prestito i codici della commedia musicale tanto cara al regista.
⸪