Valerij Brjusov

L’angelo di fuoco

Sergeij Prokof’ev, L’angelo di fuoco

★★★☆☆

Madrid, Teatro Real, 22 marzo 2022

(video streaming)

Follia e desiderio femminile

Proveniente da Zurigo, dove era stato presentato nel 2017, è sulle scene del Teatro Real di Madrid questa produzione dell’ultima opera di Prokof’ev, un lavoro che dopo un lungo periodo di assenza negli ultimi anni è frequentemente presente nei cartelloni dei teatri europei. La scabrosa vicenda, la complessità dell’allestimento, la selvaggia musica del compositore russo, elementi che avevavo intimorito gli impresari – tanto che l’opera fu presentata solo dopo la morte di Prokof’ev e a quasi trent’anni di distanza dalla sua composizione – sembrano invece sollecitare i registi contemporanei e abbiamo quindi avuto ultimamente Mariusz Treliński, Barrie Kosky, Emma Dante e appunto Calixto Bieito cimentarsi con L’angelo di fuoco.

Ognuno di loro ha scelto una chiave di lettura diversa tra le tante offerte dal testo simbolico di Brjusov su cui si basa il libretto scritto dallo stesso compositore. Curiosamente quasi nessuno ha puntato sul soprannaturale: per Bieito è la follia, non solo della protagonista femminile, ma anche di altri personaggi, a impregnare la sua regia in cui vediamo una Renate disturbata probabilmente da un’infanzia traumatica, in preda a malattie mentali «schizofrenia, disturbi bipolari, traumi, ansia, depressione – frequenti oggi» dice il regista. Ma neanche Ruprecht sembra al meglio delle sue facoltà razionali: ben lontano dalla figura di nobile cavaliere, in scena vediamo una figura dimessa, in canottiera – essendo l’ambientazione quella degli anni ’50 del secolo scorso – tormentata dalla passione per questa ragazza enigmatica e incoerente fino alla follia che Bieito rende morbosamente attratta dalla figura del conte tedesco Heinrich in cui lei pensa si sia impersonato l’angelo Madiel dei suoi adolescenziali sogni erotici. La muta presenza di un anziano attore rappresenta per la ragazza probabilmente anche la figura paterna.

Renate e Ruprecht sono praticamente sempre in scena e non è facile per loro mantenere la tensione e la convinzione del personaggio, soprattutto per Leigh Melrose che deve esprimere la sua sofferta personalità con il corpo e le smorfie del viso unitamente a una vocalità aspra e defatigante per tutte e due le ore della rappresentazione senza intervallo.  Il baritono inglese non è nuovo nella parte. Più convincente il soprano Aušrinė Stundytė che ritorna in un ruolo che ha già frequentato con successo: nonostante l’intensità interpretativa la voce mantiene una sua bellezza e la presenza scenica fa il resto. Molto efficaci sono gli altri interpreti, dal tenore Dmitrji Golovnin (Agrippa van Nettelsheim, Mephistopheles) al basso Mika Kares (Inquisitore); dal mezzosoprano Nino Surguladze (l’ostessa della locanda) al basso Dmitrij Ul’anov (Faust); dal tenore Josep Fadó (Dottore, Jakob Glock) al basso Gerardo Bullón (il proprietario della locanda a Monaco, Mathias). Alla guida dell’orchestra del teatro il direttore valenciano Gustavo Gimeno affronta per la prima volta la partitura ma conosce bene Prokof’ev che ha eseguito spesso. Si sente nella sicurezza con cui dipana le note di un lavoro di grande violenza ma splendidamente strutturato e orchestrato. Ma se in orchestra si sentono le cose più forti, in scena non succede molto: con la furiosa marcia di Agrippa del secondo atto c’è la giostrina che gira, ossia la solita struttura rotante a più piani e vari ambienti («la psiche di Renate», secondo il regista) disegnata da Rebecca Ringst. Ben altro l’impatto visivo aveva avuto in questi stessi momenti la produzione di Kosky. Anche il momento dell’esorcismo viene trascinato lungamente senza che avvenga molto in scena, a parte il finale, quando la bicicletta da cui Renate non si è mai separata prende fuoco, simbolo del suo rogo come eretica.

Ci si aspettava qualcosa di più da un regista come lui. Questa volta c’è stata un po’ di delusione.

 

Pubblicità

L’angelo di fuoco

Sergeij Prokof’ev, L’angelo di fuoco

★★★★☆

Monaco, Nationaltheater, 12 dicembre 2015

Servizio in camera con esorcismo

Il problema de L’angelo di fuoco è: bisogna prenderlo sul serio?

Il lavoro di Prokof’ev è basato sul romanzo simbolista di Valerij Brjusov che nel 1909 alla sua pubblicazione non aveva scandalizzato quanto l’opera del compositore russo che, terminata nel 1927 dopo lunga gestazione, debuttò postuma quasi trent’anni dopo perché nessuna osava metterla in scena: la vicenda è un caso patologico di isteria femminile, come quelli analizzati da Freud a fine Ottocento, vissuto tra forti pulsioni sessuali e ossessivi sensi di colpa. Renata, la protagonista, è come Salome ed Elettra frutto della psicanalisi, ma come personaggio drammaturgico è meno convincente.

Incorniciata da un passe-partout bianco, la scena di Rebecca Ringst mostra la junior suite dell’Hotel Belvedere: la valigia da disfare, la bottiglia di vodka comprata al duty free shop, lo schermo al plasma della tv già acceso, la cena in camera. La «sordida mansarda di una locanda» qui è un hotel di lusso (c’è anche un pianoforte!) e si capisce che il cavaliere, dall’aria un po’ mafiosa, è uno avvezzo ai viaggi internazionali. Da sotto il letto esce Renata, la donna invasata che cerca di scacciare il demonio che la tormenta nelle sue visioni. Nella spasmodica ricerca di un appagamento erotico la donna si era innamorata di un angelo, poi del conte Heinrich in cui lo pensava reincarnato, poi dirà di amare anche Ruprecht, prima di finire in convento ed essere bruciata per possessione diabolica – siamo pur sempre nella Germania del Cinquecento. Il viaggiatore osserva dapprima con divertito scetticismo le intemperanze della donna e per un momento pensa anche di approfittarne per un’avventuretta, poi acconsente ad accompagnarla nelle sue ricerche, all’inizio forse per spezzare la monotonia del suo viaggio d’affari, ma poi sarà sempre più invischiato nella spirale delle sue distruttive allucinazioni.

Nel secondo atto le cose si complicano: colpi alle pareti, oggetti che si muovono, un antiquario di libri che sbuca dal letto. Lo scetticismo di Ruprecht deve fare i conti con le visioni di Renata che l’hanno ora completamente contagiato. Siamo entrati in un piano metafisico, ma “à la Koski”: con un coup de théâtre del tutto coerente con la musica sparata in orchestra con una violenza quasi insostenibile, entra un caricaturale Agrippa che invece dei «cani pelosi» citati dal libretto si porta dietro un corteo di ragazzi tatuati in lunghi abiti da sera femminili (i costumi sono disegnati da Klaus Bruns). Non si sa se sia intenzionale la scelta del regista, ma c’era il precedente del tatuaggio sul petto dell’interprete Evgenij Nikitin di una svastica nazista che aveva causato la cancellazione della sua partecipazione nell’Olandese volante a Bayreuth nel 2012 a pochi giorni dal debutto.

Anche l’ingresso di un Mefistofele e un Faust (sì, ci sono anche loro!) ancora più caricaturali è occasione per il regista di allestire un altro momento spettacolare: una sarabanda demoniaca suggerita dal tono della musica. La surreale scena della taverna dà modo a Kosky di esibire il suo lato camp con il personaggio clownesco di Faust, le gag grottescamente sessuali suggerite dalla situazione e i movimenti coreografici del fidato Otto Pichler. Un terzo momento di grande teatralità è ovviamente la lunga – troppo lunga – scena dell’esorcismo finale in cui l’Inquisitore, ma anche le monache, sono dei Cristi da processione con corona di spine e tunica sporca di sangue.

La scelta dell’ambientazione condiziona la drammaturgia: quasi tutti i personaggi appartengono al personale dell’albergo. La scena è sì fissa, ma non troppo: la camera d’albergo si contrae, si dilata, i mobili si muovono da soli, botole si aprono nel pavimento, il soffitto sparisce, tendaggi rosso sangue coprono le pareti, dalla porta entra di tutto e le luci non naturalistiche di Joachim Klein ne cambiano in continuazione l’atmosfera. Rosse, verdi, blu, bianco ghiaccio, danno il tocco espressionistico a una vicenda bizzarra dagli oscuri simbolismi.

A questo punto si può rispondere alla domanda iniziale. Kosky legge la vicenda come un caso di dipendenza patologica da parte di un uomo emotivamente soggiogato dalla pazzia di una donna di cui non siamo nemmeno certi dell’esistenza e continuiamo a chiedercelo anche dopo il delirante finale, dopo oltre due ore di accelerando musicale senza intervalli. Quindi la risposta è sì sul lato psicanalitico, no su quello metafisico.

La vorticosa cavalcata musicale è condotta da Vladimir Jurovski alla testa dell’orchestra del teatro con una tensione spasmodica che non impedisce però la cura del particolare strumentale di questa sorprendente e complessa partitura. Il già citato Evgenij Nikitin è un Ruprecht vocalmente talora affaticato e non del tutto convinto del personaggio, ma in effetti né il libretto né Prokof’ev lo aiutano molto. Totale dedizione è invece quella di Svetlana Sozdateleva nella sfibrante parte di Renata sostenuta fino alla fine senza cedimenti vocali e con bella presenza scenica. Nei tanti personaggi secondari si contano interpreti mediamente efficaci: ecco quindi ad esempio il tenore Vladimir Galouzine (Agrippa), il basso Igor Tsarkov (Faust), il tenore Kevin Konners (Mephistopheles), il basso Jens Larsen (Inquisitore), Elena Manistina (Indovina) e Christian Rieger (servo della locanda).

L’angelo di fuoco

Calcedonio Reina, Love and Death, 1883

Sergej Prokof’ev, The Fiery Angel

★★★★☆

Rome, Teatro dell’Opera, 23 May 2019

  Qui la versione italiana

Emma Dante’s demonic obsessions in Prokofiev’s The Fiery Angel

Classified as “the weirdest and creepiest opera ever written”, The Fiery Angel was composed by Prokofiev between 1919 and 1927, but the author never saw his work on stage: the libretto, from Bryusov’s novel, was considered so blasphemous and the intensity of the music so shocking that the first production did not take place until 1955, two years after the composer’s death and almost thirty years after the completion of the work.

At the time the reviewers did not understand the depth of its message: «A sort of 16th-century Carmen with super-natural trimmings»…

continues on bachtrack.com

L’angelo di fuoco

Calcedonio Reina, Amore e morte, 1883

Sergej Prokof’ev, L’angelo di fuoco

★★★★☆

Roma, Teatro dell’Opera, 23 maggio 2019

Click here for the English version

Ossessioni demoniache nell’Angelo di fuoco di Emma Dante

Definita «l’opera più strana e inquietante mai scritta», L’angelo di fuoco fu composta da Prokof’ev tra il 1919 e il 1927, ma l’autore non la vide mai in scena: la trama del romanzo di Brjusov da cui è tratto il libretto venne ritenuta così blasfema e l’intensità della musica così allucinata che l’opera debuttò in teatro solo nel 1955, due anni dopo la morte del compositore e a quasi trent’anni dal suo completamento.

Il pubblico e la critica non compresero allora la profondità del messaggio: “Una specie di Carmen del XVI secolo con guarnizioni soprannaturali” fu definita dal critico di The New Statesmen. Ne L’angelo di fuoco il compositore aveva voluto mettere in campo la complessità dei rapporti fra bene e male, reale e sovrannaturale, sacro e profano, intelletto e follia, intrecciati in un’elaborata e ardita forma musicale, un “dramma etico” in cui è difficile discernere il naturale dall’innaturale. Ambientato nella Germania del XVI secolo, è il dramma di Renata, giovane che fin da bambina si crede guidata dal suo angelo custode Madiel’ per essere avviata a una vita di castità. Ma la donna si innamora però dello stesso angelo il quale, furente, si trasforma in una colonna di fuoco. La vicenda della donna si svolge tra solitudini conventuali e visioni demoniache fino alla condanna al rogo da parte dell’Inquisizione.

Nelle sue messe in scene la regista Emma Dante non rinnega le sue origini aggiungendo spesso un tocco di sicilianità alle sue produzioni, che siano i quartieri di Palermo (il Feuersnot di Strauss), il teatro dei pupi (il Macbeth di Verdi) o le processioni religiose (nella Cavalleria rusticana di Mascagni). Per l’opera di Prokof’ev sceglie di ambientarne l’inizio nelle cosiddette Catacombe dei Cappuccini, il cimitero sotterraneo di un convento di Palermo dove sono esposti i resti mummificati di quasi 8000 cadaveri, in piedi o coricati e vestiti di tutto punto, che costituiscono una macabra attrazione per i turisti della città. Con caustico umorismo quando Ruprecht cerca alloggio nel primo atto gli viene offerto proprio un loculo!

Quello della Dante è un teatro di corpi, di fisicità, ecco perché la figura dell’angelo qui è affidata a un muscoloso danzatore di break dance che invece delle ali usa le gambe e le braccia per… volare. La regista spinge molto sul pedale del grottesco, comunque ben presente nel lavoro: tra i numerosi personaggi ci sono anche un Mefistofele in vena di burle e un trio di scheletri beffardi. Nel finale l’ultima acrobazia del danzatore di break dance termina quando egli viene trapassato da una delle spade della Madonna dei Sette Dolori in cui è stata trasformata Renata prima di essere mandata al rogo. Non funziona sempre a meraviglia, però, questo trasferimento dal cupo misticismo della Germania del Cinquecento alla religiosità sfarzosa del Mediterraneo, e spesso una sorta di horror vacui spinge la regista a riempire la scena con figuranti e acrobati non necessari. Il meglio Emma Dante lo dà nel quadro della taverna con una perfetta coreografia di movimenti. Gustosi siparietti separano i vari atti e qui il tocco della regista è infallibile, che siano i due storpi che fanno la parodia del duello che si è appena svolto tra Rupert e Heinrich – ma con le stampelle! – o la coppia di monaci che passano e ripassano davanti al sipario con un leggero tintinnio dei loro campanelli, una gag sottilmente surreale. Heinrich ha spesso le movenze di un burattino di legno e il Cristo crocefisso che campeggia nell’ultima scena è una figura scheletrica con viso di donna: questa è quasi un’allegoria della morte quale vediamo negli affreschi medievali dei cimiteri italiani. Ma nel complesso manca il mistero nella sua messa in scena.

Il direttore argentino Alejo Pérez fa propria la musica di questa complessa partitura. Inquietanti ostinati ritmici rappresentanti il demoniaco si alternano con le struggenti sezioni liriche dell’appassionate dichiarazioni d’amore di Renata. Nel quinto atto Pérez riproduce l’antico contrappunto medievale, inserito da Prokof’ev in un linguaggio moderno. Talora però, la sua veemenza copre i cantanti.

Ewa Vesin si piega con duttilità alle differenti richieste dell’impegnativa parte di Renata, costituita da soliloqui allucinati, slanci lirici, momenti urlati. Gli altri 21 personaggi sono affidati a interpreti efficaci. Vigoroso Ruprecht è Leigh Melrose, baritono di bel timbro e decisa personalità che riprende il ruolo dopo il debutto a Zurigo due anni fa. Il Mefistofele di Maxim Paster è il vero mattatore della serata: il tenore russo riempie la scena con la sua presenza sia fisica che vocale. L’Inquisitore de L’angelo di fuoco è meno minaccioso di quello del Don Carlos verdiano, ma Goran Jurić riesce comunque a renderlo potente, mentre l’Agrippa forse troppo cesellato di Sergej Radčenko supera invece con difficoltà il muro dell’orchestra. Dei tanti altri interpreti una menzione va al giovane italiano Domingo Pellicola, un vivace Jakob Glock, il procacciatore di libri proibiti.

L’angelo di fuoco

Sergej Prokof’ev, L’angelo di fuoco

★★★★☆

Aix-en-Provence, Grand Théâtre de Provence, 15 luglio 2018

(live streaming)

Tra Alfred Hitchcock e David Lynch

Una tenda della doccia con una donna insanguinata. Inizia così L’angelo di fuoco nella messa in scena del polacco Mariusz Treliński, come nel film di Hitchcock Psycho. La «sordida mansarda di una locanda per viaggiatori» qui è un motel come ce ne sono a migliaia in America.

Dal secondo atto siamo in un ambiente non molto diverso, con le insegne al neon che dominano oltre la vetrata. Nella scena del mago Agrippa tutto si trasforma in una scenografia multipla (di Boris Kudlička) che divide lo spazio del palcoscenico del Grand Théâtre de Provence in più ambienti. Qui l’atmosfera richiama i film di David Lynch con i personaggi che si sdoppiano o triplicano come in un incubo angoscioso. Ancora una volta l’immaginario cinematografico presta le sue illusioni al teatro lirico e un regista inquieto come il direttore dell’Opera di Varsavia adatta la sua visionarietà a una delle opere più enigmatiche del secolo trascorso.

L’Angelo di fuoco è stata un’opera sfortunata per il suo autore. Dopo averla iniziata negli anni ’20 Prokof’ev faticosamente la porta a termine, ma non riesce a vederla rappresentata: l’edizione definitiva è eseguita nel 1928 a Parigi in versione di concerto, ma è solo nel 1955 che viene messo in scena a Venezia in italiano. Il compositore era però mancato il 5 marzo 1953, lo stesso giorno della scomparsa di Stalin che in questo modo, dopo avergli reso la vita difficile da vivo, gli nuoceva anche da morto, eclissando la notizia della sua fine nel grande lutto per la morte del dittatore.

La vicenda di Огненный ангел (Ognennyj angel), basata sul romanzo simbolista omonimo del 1908 di Valerij Brjusov (1) e su libretto dello stesso compositore, è disorientante per la compresenza di personaggi reali e immaginari, Mefistofele e Faust. La coerenza del lavoro di Prokof’ev è affidata totalmente alla musica «capace di proporre e assimilare episodi molto diversi tra loro, una dolce berceuse e una frenetica ostinazione orchestrale, un canto declamato sulla parola e un abbandono lirico. In maniera non lineare, invece sismografica, tesa, una “montagna russa” del tutto adatta a restituire la verità profonda di un caso di follia non così raro nelle ragazze di un tempo, oppresse nei loro desideri di emancipazione sociale, sessuale e intellettuale. Quando si è visto una sola volta L’Angelo di fuoco, non si riesce a dimenticarlo più». (Angelo Foletto)

Questo è un caso di isteria femminile che si affianca ad altre due analoghe vicende operistiche del Novecento: Sancta Susanna di Stramm/Hindemith che la precede nel 1922, e I diavoli di Loudun di Huxley/Penderecki del 1969, anche questa con una scena di esorcismo.

Atto primo. Nella Germania del XVI secolo, nella soffitta di una miserabile locanda. Sulla via del ritorno da un lungo viaggio nelle Americhe, Ruprecht ha preso alloggio per la notte in una sordida stamberga in cui si è trovato a passare. Il suo arrivo è subito turbato da terribili grida femminili che provengono dalla camera vicina alla sua; il cavaliere si precipita in soccorso sfondando la porta sbarrata e vi trova una giovane, Renata, in preda a un terrore incontrollabile, seminuda e con i capelli scarmigliati. La donna ringrazia Ruprecht per averla salvata con la sua irruzione dalle visioni demoniache che la stavano perseguitando. Quindi gli narra delle apparizioni di Madiel’: «Un angelo tutto di fuoco, tutto immerso nella luce, con un abito candido come le neve». Dall’età di otto anni Madiel’ le era stato accanto come un angelo custode con il compito di indirizzarla a una vita di santità e penitenza. Ma Renata, fattasi adulta, smarrì la via dell’amore celeste restando preda di una passione terrena e carnale per Madiel’, rapita dai suoi occhi «azzurri come il cielo e dai capelli sottili come l’oro». L’angelo si mutò allora in un’irata colonna di fuoco, che svanì lasciandole delle ustioni sul corpo. Renata si convinse tuttavia di aver ritrovato Madiel’ nelle fattezze umane del conte Heinrich, del quale fu l’amante per due anni prima di esserne abbandonata. Interviene la padrona della locanda ad ammonire Ruprecht: Renata è una poco di buono e si dice che abbia stregato il conte Heinrich, che per colpa sua si è dato alla magia, all’alchimia e ad altre pratiche diaboliche. Ruprecht, affascinato dalla giovane, tenta di sedurla ma ne è respinto. Il cavaliere si scusa del suo accesso passionale e decide di aiutarla a ritrovare Heinrich. Prima che i due lascino insieme la locanda, un’indovina predice a Renata un fosco destino di sangue.
Atto secondo. Nella casa di Ruprecht e Renata a Colonia. In questa città Renata ‘sente’ di poter ritrovare Heinrich con perlustrazioni, esorcismi e con la guida di trattati di magia forniti dal libraio Jacob Glock. Ma tutto è vano; sconfortato, Ruprecht accetta l’offerta di Glock di accompagnarlo da Agrippa di Nettesheim. Ma il celebre mago si schermisce, affermando di non sapere nulla di sabba, demoni e segreti alchimistici. Dice di essere solo uno studioso: ma i tre scheletri umani che penzolano a una parete nascosta a Ruprecht, si lamentano facendo sbattere le ossa: «Menti, menti!», gridano all’indirizzo del mago.
Atto terzo. Una strada davanti alla casa di Heinrich. Renata ha infine identificato la casa di Heinrich e chiede a Ruprecht di ucciderlo. Davanti al suo amore puro, afferma Renata, che in lui vedeva un’incarnazione dell’angelo Madiel’, il conte si è comportato come uno spregevole seduttore, anzi come il peggiore dei tentatori mandatole dal demonio per farle smarrire il cammino della santità. Convinto dalla versione dei fatti della giovane, Ruprecht decide di sfidare il conte a duello. Intanto questi appare dalla finestra della sua casa, e in lui Renata ravvisa di nuovo la luminosa bellezza di Madiel’. Ora la giovane si pente dell’impulso vendicativo e vorrebbe trattenere Ruprecht, ma è troppo tardi: l’indomani si svolgerà il duello tra i due uomini. Nei pressi di un burrone sul Reno. Il duello si è appena concluso con il ferimento di Ruprecht. Renata si proclama commossa dal gesto eroico del cavaliere e dichiara di amarlo mentre un coro invisibile commenta con ironia le sue parole. In preda ai rimorsi, decide di entrare in convento se Ruprecht non dovesse sopravvivere. Ma Mathias, medico e compagno di studi del cavaliere, riesce a salvarlo.
Atto quarto. Una piazza di Colonia. Ruprecht è convalescente e ormai sulla via della guarigione; ma Renata è fermamente convinta che il suo amore per il cavaliere sia peccaminoso. Ancor prima di incontrare Ruprecht, confessa, il suo solo desiderio era di ritirarsi in convento. Rifiuta perciò la sua proposta di matrimonio e fugge da lui con le parole «Ipocrita! C’è un diavolo in te!». Alla parola ‘diavolo’ entrano in scena Faust e Mefistofele; si siedono a un tavolo della taverna vicino a Ruprecht che, dopo aver cercato inutilmente di inseguire Renata, si accascia affranto su una panca. Dopo essersi preso gioco del padrone della locanda con i suoi diabolici prodigi, Mefistofele si rivolge allo sconsolato Ruprecht. «La mia anima è come una viola scordata», confessa il cavaliere. Mefistofele si offre di sollevare il suo umore e di insegnargli il vero modo per essere felici. In cambio Ruprecht farà da guida per la città a lui e al suo amico Faust.
Atto quinto. La cripta sotterranea di un convento. Da quando Renata è entrata nel convento, lamenta la madre superiora, la pace ne è fuggita. Le suore sono tormentate da segni e rumori misteriosi, da visioni oscure e da terribili convulsioni. A combattere il peccato e riportare l’ordine è stato chiamato un Inquisitore. Renata si sente accusata ingiustamente e ribatte di essere lei la perseguitata dal Maligno; inveisce contro l’Inquisitore mentre altre suore, invasate, sono contagiate dai suoi accessi di mistica frenesia e le danzano attorno. Insieme a Mefistofele, sopravviene Ruprecht a osservare la scena da una galleria sopraelevata. Mefistofele gli addita Renata: «Guarda, non è lei che ha scordato la tua viola?» A quella vista il cavaliere vorrebbe gettarsi dalla galleria, ma Mefistofele lo trattiene. Quindi l’Inquisitore pronuncia la sentenza di condanna: la strega Renata sarà torturata e bruciata sul rogo per essersi congiunta carnalmente con il diavolo.

L’angelo di fuoco sta diventando un titolo frequente nei cartelloni lirici: alla Komische Oper di Berlino nel 2014 (direzione di Henrik Nánási, regia di Benedict Andrews); a Monaco nel 2015 (Jurowski/Kosky); a Lione nel 2016 (Ono/Andrews); a Zurigo nel 2017 (Noseda/Bieito) e a Roma l’anno prossimo (con la regia di Emma Dante e la direzione di Alejo Pérez). Ora al Festival di Aix-en-Provence arriva la produzione del Wielki di Varsavia con il direttore e l’interprete principale dell’edizione lionese, ossia il giapponese Kazushi Ono e il soprano lituano Aušrinė Stundytė. Quest’ultima è una habituée dei ruoli estremi e come Renata raggiunge un grado di alta intensità espressiva in questo cocktail di misticismo ed erotismo dove viene esaltato il suo grande talento di attrice oltre che di cantante che si piega a tutte le impervie necessità vocali della parte. Scott Hendricks è Ruprecht, scialbo commesso viaggiatore sopraffatto dagli avvenimenti. Efficace il resto del cast proveniente in massa dalla Polonia: Krzysztof Bączyk, nel ruolo multiplo di Faust, Heinrich e inquisitore cieco (qui molto meno minaccioso di quello verdiano); Andrej Popov (Agrippa, Mefistofele); Pavlo Tolstoy (Glock, dottore); Agnieszka Rehlis (veggente,  madre superiora) e Bernadetta Grabias (ostessa).

Alla guida della valida Orchestre de Paris, Kazushi Ono evidenzia le particolarità di una partitura ricca di novità musicali e carica di trasparente lirismo, ma nello stesso tempo di eccessi brutali e di echi hollywoodiani.

Nella lettura di Treliński magia, misticismo e satanismo sono del tutto assenti: i riferimenti sono più legati alla nostra epoca, con Glock che diventa un pusher che trasforma i deliri mistici di Renata e di Ruprecht in trip psichedelici, e con l’inquisitore enigmatico direttore di un pensionato femminile, mentre drag queen e cowboys sorridenti con chitarra fanno parte di quel Midwest americano anni ’50 che qui ha soppiantato la Germania cupa del XVI secolo. Così però i momenti soprannaturali e l’esorcismo perdono di intensità e la rivolta delle ragazze che gettano per aria cuscini e materassi non ha né il significato né la forza sconvolgente delle monache possedute dal demonio del libretto originale. Qui si tratta solo di un flashback di Renata che ricorda i suoi trascorsi in collegio dove a otto anni vide nel direttore l’angelo di fuoco che l’ha poi ossessionata per il resto dei suoi giorni. L’impossibilità di renderla realisticamente o in maniera fedele (?) al libretto fa di quest’opera la più adatta a stimolare chi deve metterla in scena. Ecco il perché del suo successo nei teatri lirici negli ultimi anni.

(1) Ecco l’epigrafe iniziale del racconto fatto in prima persona e che si finge giunto a noi sotto la forma di un manoscritto ritrovato nel quale l’autore descrive quel che egli stesso ha veduto e vissuto: «L’angelo di fuoco, ovvero narrazione veridica in cui si racconta del Diavolo, più volte apparso in veste di spirito luminoso a una fanciulla tentandola a diverse azioni peccaminose; e delle pratiche contrarie a Dio di magia, astrologia e negromanzia; del giudizio su di essa fanciulla sotto la presidenza di Sua Eminenza l’Arcivescovo di Treviri; ed altresì degli incontri e colloqui col cavaliere e triplice dottore Agrippa di Nettesheim e col dottor Faust: scritta da an testimone oculare».