Le roi Carotte

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Jacques Offenbach, Le roi Carotte

★★★★★

Lione, Opéra Nouvel, 14 dicembre 2015

«C’est lui, c’est lui le roi Carotte. Sapristi! Malheur à qui, à qui s’y frotte!»

Sei ore di musica, 24 quadri ripartiti in quattro atti, sedici ruoli principali, quaranta personaggi, centinaia tra coristi, comparse e fantasisti, un guardaroba immenso con costumi fastosi e fantastici – studenti, contadini, borghesi, cortigiani, antichi pompeiani, scimmie, insetti vari, formiche, api e ovviamente legumi. Un successo enorme. Eppure le 190 repliche al Théâtre de la Gaîté bastarono appena a pagare le spese di allestimento, non a coprire i debiti accumulati precedentemente e Jacques Offenbach dovette rituffarsi nella composizione di altre opere che sarebbero costate nuovamente una follia e così via in un circolo vizioso per il resto della sua vita.

Per di più l’ostilità attorno alla figura di questo ebreo tedesco naturalizzato francese stava montando sia per invidie professionali sia per il crescente antisemitismo. Il suo Roi Carotte veniva letto dai realisti come una satira della monarchia e dai radicali come una satira della repubblica, con il risultato che il compositore si andava inimicando in egual misura entrambe le fazioni. E così la sua féerie musicale/opéra bouffe dal titolo assurdo scomparve dalle scene dei teatri francesi.

Victorien Sardou aveva iniziato a scrivere il libretto nel 1869, ma la guerra franco-prussiana aveva imposto l’esilio a Offenbach, considerato una spia dai francesi e un traditore dai tedeschi. Il compositore dovette riparare prima in Spagna e poi in Italia. Solo alla fine della guerra, con la sconfitta dei francesi, potè ritornare a Parigi e rimettersi al lavoro. Nel gennaio 1872 Le roi Carotte è pronto per le scene. Il successo è fenomenale, come si è detto, ma ambiguo e il suo Fantasio presentato appena tre giorni dopo è un fiasco colossale, con la stampa che accusa Offenbach di essere la causa della disfatta militare: «facendo ballare il Secondo Impero al suono delle sue operette ha demoralizzato la Francia […] quando poi non l’ha messa in guardia contro il militarismo con la Grande-duchesse de Gérolstein» come riassume il musicologo Jean-Christophe Keck che ha riportato alla luce il manoscritto in una curata edizione critica,

Ispirato al racconto di E.T.A. Hoffman Klein Zaches, genannt Zinnober (Il piccolo Zaccaria detto Cinabro, che come Kleinzach apparirà nei Racconti di Hoffmann), l’arguto libretto di Sardou ha piuttosto lo spirito di un Voltaire (non è un caso che uno dei personaggi si chiami Cunégonde come nel Candide): nata come parabola dell’evoluzione politica dell’Impero, nella vicenda di Roi Carotte ognuno poteva leggere quello che voleva poiché non c’è niente di meglio dei legumi per far passare un messaggio politico: il tiranno, pur nella sua perfidia, rimane inattaccabile in quanto radice commestibile!

Siamo nella città di Krokodyne. Il paese è economicamente in rovina e il principe si aspetta dalle nozze con la principessa Cunégonde di salvare le finanze del regno. La strega Coloquinte, per vendicarsi di uno sgarbo del padre di Fridolin, risveglia gli spiriti delle piante del giardino reale: prendono così vita rapanelli, barbabietole, rape e soprattutto la carota, che detronizza Fridolin mettendolo in fuga. Questi si salverà solo con l’aiuto dell’anello di Salomone. Viaggiando nel tempo e nello spazio l’anello viene recuperato a Pompei il giorno stesso dell’eruzione del Vesuvio. Fridolin perderà stupidamente l’anello, ma nel frattempo il popolo si accorge che il nuovo dominatore è ancora peggiore del precedente e una controrivoluzione riporta Fridolin sul trono.

Anche se ai contemporanei di Offenbach potevano offrire spunti di satira politica, ora le strampalate vicende sono soprattutto motivo di divertimento e uno dei massimi momenti di umorismo è il quadro di Pompei in cui tra le altre cose i nostri viaggiatori nel tempo spiegano agli svagati pompeiani che cos’è una locomotiva nella “ronde des chemins de fer” con il suo delizioso refrain: «Écume et renifle, noir cheval de fer! | Souffle, souffle, siffle, va ton train d’enfer».

Della copiosa produzione di Offenbach, oltre un centinaio d’opere, solo una mezza dozzina sono più o meno regolarmente in scena oggi, ma ogni tanto viene messo alla luce qualche nuovo gioiello e questo Roi Carotte è certamente uno di quelli. Laurent Pelly, cui si devono le più brillanti regie dei capolavori offenbachiani degli ultimi anni, lo fa rivivere sulle tavole dell’Opéra di Lione con la complicità delle sue abituali collaboratrici: Agathe Mélinand per l’adattamento del libretto e la nuova versione dei dialoghi parlati e Chantal Thomas per le scenografie. Mancano le coreografie, essendo queste tagliate in questa produzione che condensa in tre atti divisi in undici quadri l’opera impossibile da mettere in scena integralmente. La mancanza di una tradizione interpretativa (neppure una registrazione audio è disponibile) è stata una sfida per il regista che ha usato la sua sbrigliata fantasia per una lettura briosa immersa scenicamente in un bric-à-brac di mobili e librerie che creano i vari ambienti (la birreria, la soffitta della strega, il palazzo reale, Pompei, la campagna, il mercato) in cui si sviluppa questa fantasticheria vegetale che sembra far suo il surrealismo della Alice in Wonderland pubblicata sette anni prima. Tutti memorabili i momenti della sua messa in scena, dalla ronda scatenata degli studenti del primo quadro alla surreale conclusione del terzo atto allorché Roi Carotte viene ignominiosamente spinto dentro un enorme passaverdura da cui esce in formato di purea…

In scena vecchie e nuove glorie di questo genere musicale. Yann Beuron è un Fridolin come sempre servito da impareggiabile presenza scenica e qualità vocali di prim’ordine, qualità che troviamo anche nel Pipertrunck di Jean-Sébastien Bou. Eccellenti le giovani interpreti femminili Julie Boulianne (spigliato Robin-Luron), Chloé Briot (lirica Rosée-du-soir) e Antoinette Dennefeld (la simpatica canaglia Cunégonde). Di ottimo livello il resto del cast che comprende il ruolo tenorile dello spassoso Roi Carotte, Christophe Mortagne,  e quello parlato della perfida strega Coloquinte.

Un giovanissimo Victor Aviat guida con bravura l’orchestra del teatro lionese in questa partitura che alterna vivaci ensemble a momenti intensamente lirici, ma che non dimentica di parodiare la musica dell’amato/odiato Rossini, soprattutto quello del Guillaume Tell, come nel quartetto del II atto, il saluto a Pompei: «Salut, fantôme du passé | Salut ô ville morte! Salut! Salut!».

Lo spettacolo termina tra gli applausi del pubblico divertito. Che peccato dover ripartire l’indomani e non poter ritornare a ridere con Offenbach, ce ne sarebbe proprio bisogno in questo momento, e non solo qui in Francia. Per arrivare a teatro si passa davanti alla scalinata del palazzo municipale ancora ricoperta di lumini e fiori a un mese dal massacro del Bataclan – e Ba-ta-clan è il titolo di un’altra opera di Offenbach…

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