foto © Mario Finotti
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Gaetano Donizetti, Le convenienze ed inconvenienze teatrali
Novara, Teatro Coccia, 11 novembre 2022
Donizetti, o quel che ne è rimasto, diverte il pubblico di Novara
Il fatto che Donizetti approntasse una seconda versione di questa sua operina, lui che era impegnato a sfornare nuovi titoli in quantità – da cui il malevolo epiteto di Dozzinetti… – sta a dimostrare quanto il compositore tenesse a questa sua creatura: la prima versione, “farsa in un atto”, era stata presentata al Teatro Nuovo di Napoli il 21 novembre 1827 col titolo Le convenienze teatrali, lo stesso della commedia di Antonio Simone Sografi da cui era stato tratto il libretto di Domenico Gilardoni. Determinante per il successo dell’operazione fu la presenza del basso Gennaro Luzio, uno dei più importanti personaggi del teatro buffo napoletano. Il 18 aprile 1831 al milanese Teatro della Canobbiana andava in scena la seconda versione, in due atti con alcune modifiche e il titolo completo che usiamo ora, mentre una terza differente versione sarà quella che verrà ripresa a Napoli cinque mesi dopo.
Appartenente all’inesauribile filone delle parodie e del teatro nel teatro, i cui esempi più illustri vanno da Mozart a Richard Strauss, Le convenienze ed inconvenienze teatrali ha la sua ragion d’essere se il pubblico in sala è al corrente di quello che viene preso in giro sul palcoscenico, quello cioè che era d’attualità nel 1831… E infatti il pubblico del 2022 del Teatro Coccia ride di gusto soprattutto al ridicolo di Mamma Agata, baritono en travesti, e ai riferimenti di oggi – le mail, i telefonini, i followers – inseriti nel libretto da chi dell’opera conosce perfettamente vizi e virtù, ossia Alberto Mattioli: il testo del Gilardoni, che già era stato modificato da Donizetti stesso, è reso quasi irriconoscibile nei dialoghi recitati tra personaggi del teatro di oggi. Il problema però è che la lingua moderna mal si fonde con la lingua musicale di Donizetti e con le situazioni così specifiche del teatro d’opera ottocentesco. Per mantenere poi la forza comica del lavoro occorrerebbe puntare sulla presenza di una Mamma Agata che pochi hanno saputo interpretare con gusto e intatte capacità canore e sceniche – come è stato il caso di quello straordinario animale da palcoscenico che è Paolo Bordogna, indimenticabile Agata nella produzione del Teatro della Fortuna di Fano del 2009. Qualità che non sono del tutto convincenti né in Simone Alberghini, che punta in maniera preponderante sul tono del travestimento grottesco per risolvere la sua parte strabordante, né nella regia di Renato Bonajuto, assistito da Daniele Piscopo, vivace e dinamica, ma che ricorre troppo spesso a una comicità da avanspettacolo, compresi alcuni siparietti a sipario chiuso, per far ridere il pubblico. Il ritmo è serrato, le gag innumerevoli ma insistite, gli interpreti sono buoni cantanti, non sempre sono anche buoni attori. La parodia dell’opera si perde nel bailamme in scena e si ride per motivi diversi da quelli previsti. Geniale era stato Laurent Pelly nella sua produzione di Lione che senza rinunciare al comico, garantito lì dal fuoriclasse Laurent Naouri, aveva creato in modo magistrale un tono malinconico che si adattava perfettamente al tema meta-teatrale della vicenda. La suddetta produzione, tra l’altro, sarebbe dovuta venire anche a Torino, ma come per i tanti misteri di cui questa città si vanta, è scomparsa dai cartelloni del Teatro Regio – e questo ben prima di purghe e pandemie!
L’impianto scenografico di Danilo Coppola si rivela efficace nel ricreare il disordine di un palcoscenico nel primo atto e la baroccata del secondo, con un’imponente conchiglia botticelliana da cui sorge la Venere in carne e lamé di Simone Alberghini. Artemio Cabassi ha modo di sfogare la sua fantasia nei costumi dei personaggi della metastasiana vicenda di Romolo ed Ersilia che questa compagnia di guitti cerca con fatica di mettere in scena. Funzionali le luci di Ivan Pastrovicchio e impeccabilmente eseguite le coreografie di Riccardo Buscarini riprese da Giuliano del Luca col corpo di ballo del Romæ Capital.
Già presentato lo scorso anno a Piacenza, lo spettacolo viene ripreso con un cast in gran parte diverso. Confermano la sicura presenza scenica e vocale Andrea Vincenzo Bonsignore (il paziente direttore Biscroma Strappaviscere), Stefano Marchisio (il nevrotico, ma chi non lo sarebbe al posto suo, regista Prospero Salsapariglia, nell’originale Poeta e droghiere) e Dario Giorgelè (l’impresario dall’accento francese, la lingua di buona parte dei sovrintendenti dei teatri lirici italiani…). Carolina Lippo (Corilla Scortichini) ha voce di sicura agilità che sfoggia nelle imperversanti cadenze dei suoi interventi musicali assieme un certo tono acidulo funzionale a caratterizzare in termini poco simpatici la sua parte di supponente Prima Donna. Paolo Ingrasciotta è il marito Procolo Cornacchia con il suo momento di gloria nella grande aria in cui difende le virtù della moglie con foga convincente «Fin nell’utero materno | fece spaccio di volate; | scale, poi, semitonate | si sentìan ne’ suoi vagiti» o quando sostituisce nella parte eroica di Romolo il tenore fuggito. Simone Alberghini mette a prova la sua adattabilità vocale nella “Canzone del sacco”, grottesca parodia della rossiniana “Canzone del salice”, qui arricchita di una cabaletta in cui occorre ricorrere al falsetto per raggiungere il Si4 richiesto. La sua corporatura non gli permette invece i passi sulle punte, in cui eccelleva Bordogna, quando appare in un improbabile tutù di tulle.
Nella distribuzione dobbiamo ancora ricordare Leona Tess, l’iperprotetta figlia di Mamma Agata; Lorrie Garcia, il mezzosoprano che si spaccia per controtenore perché così è più facile trovare lavoro nella «solita rarità barocca riemersa da uno scantinato»; Didier Peri è il tedesco Guglielmo Antolstoinoloff, preoccupato più della cena alle 17 che della sua prestazione vocale che si rivela infatti con problemi di intonazione abilmente eseguiti dal tenore livornese; quasi afono è invece l’Ispettore del teatro Juliusz Loranzi. Un tocco surreale alla rappresentazione è infine dato dalla presenza in scena di un volonteroso all Korean/Chinese male choir mentre in buca il maestro Giovanni di Stefano realizza con brio e contrastanti dinamiche una partitura adattata da Vito Frazzi pescando a man bassa nel repertorio sia rossiniano che donizettiano e non facendosi scrupolo di utilizzare pagine anche del Don Pasquale, opera che Donizetti scriverà sedici anni dopo Le convenienze e inconvenienze teatrali… A teatro tutto è possibile. Soprattutto l’impossibile.
⸪