Amin Maalouf

L’amour de loin

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★★★★★

L’idealizzato «amor de loing» della poesia trovadorica

Confesso che nulla sapevo di questa compositrice finlandese nata nel 1952 e meno ancora della sua opera su libretto in francese di Amin Maalouf e presentata a Salisburgo nel 2000, ma i nomi di Esa-Pekka Salonen, Peter Sellars e Gerald Finley mi erano sembrati una garanzia.

Eccomi dunque immerso nell’atmosfera rarefatta di questa vicenda in cui il trovatore Jaufré Rudel principe di Blaye (XII secolo) ama una donna, Clémence contessa di Tripoli, della quale avrebbe sentito parlare da alcuni pellegrini di Antiochia e per la quale comincia a comporre versi senza averla mai vista. Rudel si fa crociato e parte per Tripoli, ma in viaggio si ammala e viene condotto dalla contessa morente. In un ultimo slancio vitale, dopo averla a lungo immaginata, riesce così a vederla e a stringerla tra le braccia per la prima e ultima volta. Sentendosi responsabile della sua morte la contessa decide di ritirarsi in un convento e nell’ultima scena la vediamo pregare, ma di rabbia, e non si capisce se è per un dio lontano o per «un amor de loing».

Nell’estrema economia dell’opera i personaggi sono solo tre: il trovatore, la contessa e un pellegrino. Un coro fuori scena è il quarto elemento vocale.

La musica della Saariaho ha lontane riminiscenze ligetiane risolte però in più melodiche ondate armonicamente e coloristicamente  preziose che Esa-Pekka Salonen fa scaturire  dall’orchestra dell’Opera Nazionale Finlandese per farle rifulgere in un’atmosfera di puro incantesimo. I cinque atti sono senza soluzione di continuità per un totale di circa due ore di musica e la ricca partitura prevede oltre agli archi e agli ottoni quattro flauti, oboe, clarinetto, due fagotti, una nutrita percussione, due arpe, un pianoforte ed elettronica.

Le scenografie sono di quel mago di George Tsypin e consistono unicamente in due scale elicoidali di metallo da cui i due personaggi principali non scendono mai per mettere piede a terra, per meglio dire in acqua visto che la superficie del palcoscenico è coperta da uno specchio di acqua scura in cui si staglia la luminosa barca di cristallo del pellegrino. È quel mare che divide i due cuori anelanti l’uno all’altro.

Metafora dei rispettivi castelli da cui l’uomo e la donna non escono mai, le scale sono illuminate da luce fredda e verdastra (quella del trovatore) o calda e aranciata (quella della donna amata), mentre altri elementi tubolari luminosi scendono e salgono lentamente per definire ancora di più la separazione spaziale dei personaggi: lui ha paura di vedere nella realtà l’oggetto del suo amore idealizzato e lei teme di non essere all’altezza delle lodi messe in musica dal trovatore.

Anche se si riferisce a temi lontanissimi nel tempo come l’amor cortese, si capisce come la storia abbia comunque qualcosa di estremamente attuale e penso sia questo che ha motivato la scelta del soggetto da parte della musicista. Curiosamente, anche un’altra opera recentissima come Written on Skin ha attinto a temi medievali.

Anche se alla prima dell’opera l’interprete di Jaufré Rudel era un altro, non riesco immaginarne uno migliore per proprietà vocale e intensità espressiva del Gerald Finley di questa produzione registrata nel 2004 a Helsinki, mentre creatrice del ruolo di Clémence era la Dawn Upshaw che ritroviamo qui. La sua parte è quella musicalmente più impegnativa e varia. All’inizio è la distante castellana lusingata dalle chansons del trovatore, poi esibisce un lato quasi coquette quando intona lei stessa, nei modi della musica antica, i suoi versi in provenzale e infine ridiventa donna appassionata e distrutta dal dolore quando le muore tra le braccia l’uomo che ha finalmente conosciuto. Dell’allestimento originale è anche Monica Groop, il terzo personaggio.

Non è indicato nel libretto accluso alla confezione del disco, ma la regia video è splendida e non mi stupirei fosse dello stesso Peter Sellars del quale abbiamo un’intervista negli extra che comprendono anche interventi di Salonen e della Saariaho.

La lunghissima pausa di silenzio che segue le ultime note della partitura e lo scrosciare subito dopo degli applausi del pubblico per festeggiare gli interpreti sguazzanti nell’acqua dimostrano una volta di più che l’opera, soprattutto quella moderna, non solo non è affatto morta, ma ha ancora molto da dire.

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