Wystan Hugh Auden

The Bassarids

Hans Werner Henze, The Bassarids

★★★★☆

Roma, Teatro dell’Opera, 27 novembre 2015

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«Uno sguardo sulla insondabilità ferina della psiche umana» (1)

Rappresentato in Italia una sola volta, alla Scala nel 1968 due anni dopo il debutto tedesco, arriva a inaugurare la stagione dell’opera di Roma The Bassarids, ossia la tragedia Le baccanti di Euripide riletta da Auden e Kallman e messa in musica da Hans Werner Henze.

Il titolo si riferisce all’appellativo con cui erano conosciute le baccanti della Lidia e della Tracia che portavano pellicce di volpe, in greco βασσάρα, durante i culti dionisiaci. È anche il titolo di una tragedia di Eschilo andata perduta e appartenente alla tetralogia “Licurgea” in cui si narrava del re Licurgo nemico di Dioniso squartato dai suoi stessi sudditi sul monte Pangeo. In Euripide, e nell’opera di Henze, il re è Penteo di Tebe e il monte il Citerone. Per un maggior tocco tragico – per un altro “turn of the screw” avrebbe detto Henry James – una delle baccanti colpevoli del fatto è la madre Agave, che nella frenesia dionisiaca crede di avere tra le mani come trofeo la testa di un leoncino e invece si tratta di quella del figlio. La grandiosa messa in scena di Mario Martone non ci risparmia il momento horror dopo il selvaggio baccanale, ma il regista sempra propendere per la razionalità di Penteo piuttosto che per la destabilizzante figura di Dioniso, coerentemente con i due librettisti. La scenografia di Sergio Tramonti e le luci di Pasquale Mari costruiscono un mondo dicotomico anche nei costumi di Ursula Patzak: uniformi moderne contro vesti antiche, una evidente contrapposizione tra gli statici cittadini di Tebe e le scatenate Menadi in abiti succinti o addirittura nude e con corna ritorte tra i capelli arruffati. Il Monte Citerone qui è un ipogeo e uno specchio a 45° ce ne mostra la dimensione infera e orgiastica.

Stefan Soltesz a capo dell’orchestra del teatro fornisce un’ottima prova mettendo in luce la straordinaria ricchezza di una strumentazione smisurata in un arco drammatico teso e continuo. Chiaramente definiti sono i colori orchestrali associati ai due personaggi principali, Penteo e Dioniso, con la vittoria finale di quest’ultimo evidenziata dai suoni barbari del suo trionfo. Eccellente Penteo è Russel Braun dal generoso strumento vocale che sa piegarsi ai momenti lirici come a quelli più drammatici. Ladislav Elgr è un Dioniso seducente dalla ipnotizzante presenza scenica e dalla sorprendente vocalità che riesce a superare abilmente la barriera sonora dell’orchestra mentre Marc S. Doss ed Erin Caves danno voce autorevole ai personaggi di Cadmo e di Tiresia. Di grande livello anche il terzetto di voci femminili, con una scatenata

Veronica Simeoni come Agave, Sara Herskowitz sensuale Autonoe e Sara Fulgoni sensibile Beroe. Impegnativo per molte ragioni il ruolo del coro, qui ottimamente diretto da Roberto Gabbiani.

(1) Stefano Ceccarelli sull’Ape Musicale l’indomani della prima.

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The Bassarids

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Hans Werner Henze, The Bassarids

★★★★★

Berlino, Komische Oper, 13 ottobre 2019

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Quando gli dèi erano fra noi

Che meraviglia quest’opera! A 38 anni Hans Werner Henze comincia a scrivere The Bassarids subito dopo aver composto l’opera comica Der junge Lord e avendo alle spalle Boulevard Solitude ed Elegie für junge Liebende. The Bassarids viene commissionata dal Festival di Salisburgo quando il suo nome è già internazionalmente noto. L’opera costituisce perciò il punto d’incontro e di riflessione di alcune fondamentali caratteristiche della sua estetica: l’impegno politico e lo sforzo di salvaguardare lo spirito libertario, evitando la degenerazione dogmatica. E il tema dell’antagonismo tra il pensiero vitalistico, spregiudicato e corporeo di Dioniso e quello più legalitario e spirituale di Penteo lo tocca particolarmente. Nell’opera di Henze i due antagonisti, il dio dell’estasi e dell’ebrezza e il re raziocinante di Tebe, si affrontano a duello, ma entrambi periranno alla fine. Il problema su come l’uomo possa mantenere il giusto equilibrio tra istinto e ragione rimane irrisolto.

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Ecco come il compositore presenta la sua opera: «Le Baccanti di Euripide, rilette e presentate da due poeti moderni [W.H. Auden e Chester Kallman]. Il testo descrive il drammatico conflitto eros-repressione e la vittoria di Dioniso, dio vendicativo, sul suo avversario e persecutore, il giovane Penteo, monoteista re di Tebe. La musica per il dramma è stata composta nella forma di una sinfonia in quattro tempi. Il luogo dell’azione è la corte del palazzo reale di Tebe e il monte Citerone». Dell’originale tragedia i librettisti scelgono solo alcuni punti focali che si sviluppano nei quattro movimenti con i quali si articola l’atto unico.

Primo movimento (forma sonata). Dopo l’abdicazione del vecchio re Cadmo a favore di suo nipote Penteo, il coro acclama il nuovo sovrano di Tebe; una voce annuncia allora l’arrivo in Beozia di Dioniso e il coro si prepara ad andare sul Citerone a festeggiarlo. I protagonisti della tragedia, Penteo escluso, discutono sulla natura divina di Dioniso nato da Zeus e da Semele: Agave ed Autonoe la negano mentre Cadmo è perplesso e Tiresia è propenso ad ammetterla; il capitano della guardia, un bell’uomo attraente per le donne ma insensibile al loro fascino, legge un decreto di Penteo che proibisce il culto di Dioniso. Arriva allora Penteo che col suo mantello spegne la fiamma che brucia sulla tomba di Semele e ribadisce il suo ordine. Agave ed Autonoe approvano ma quando sentono la voce del dio, se ne vanno verso il monte Citerone.
Secondo movimento (Scherzo e trio). Cadmo, pieno di cautela verso il nuovo dio, è esterrefatto quando sente Penteo ordinare al capitano di arrestare quanti si trovano sul Citerone; il re confessa a Beroe che ha scelto un sistema di vita austero, senza vino e senza carne, e per giunta casto. Nella sala d’udienza del palazzo, il capitano arriva con i prigionieri del Citerone fra i quali figurano Agave, Autonoe, Tiresia ed uno Straniero. Penteo condanna al supplizio alcuni prigionieri, tenta di strappare Agave, sua madre, al suo delirio dionisiaco, poi la fa rinchiudere con Autonoe e ordina la distruzione della casa di Tiresia; benché Beroe l’abbia avvertito che lo Straniero è Dioniso, Penteo tratta rudemente quest’ultimo, che canta la vendetta di Dioniso a Nasso.
Terzo movimento (adagio e fuga). Esasperato, Penteo vuol mandare lo Straniero al supplizio quando si producono fenomeni straordinari: la terra trema, i muri crollano, si riaccende la tomba di Semele e i prigionieri evadono misteriosamente e fuggono verso il monte Citerone. Lo Straniero propone allora a Penteo di guidarlo verso il Citerone, ma prima il re chiede a Beroe lo specchio di sua madre. Lo Straniero-Dioniso convince Penteo a travestirsi da donna per andare a spiare le Menadi sul posto del loro culto. Affascinato, Penteo ubbidisce mentre Cadmo è disperato. Nella foresta del monte Citerone, le Bassaridi cantano la gloria di Dioniso. Tuttavia, una voce informa che un uomo è nascosto per spiarle e che le Menadi (fra le quali si trova Agave) devono inseguirlo; infatti, lo trovano, lo uccidono e lo smembrano.
Quarto movimento (passacaglia). Le Menadi si fanno avanti; Agave si dice fiera di aver ucciso un leoncino; Cadmo le chiede di guardare attentamente di chi è la testa portata da Agave; lei prende allora coscienza di aver ucciso suo figlio Penteo in un delirio dionisiaco. Arriva Dioniso, ordina che sia incendiata la reggia e condanna all’esilio la famiglia reale. Agave gli ricorda amaramente che anche lui scenderà un giorno nel Tartaro. Indi il dio chiama Semele sua madre per farla salire all’Olimpo; infine, ingiunge ai tebani di adorarlo ciecamente.

L’opera di Henze si inserisce in quel filone mitologico e neo-classico di cui l‘Œdipus Rex di Stravinskij (1928) è forse il risultato più conosciuto, ma che era continuato con le opere di Carl Orff Antigonæ (1949), Œdipus der Tyrann (1959) e Prometheus (1968, con il testo greco originale di Eschilo). Antigone era stato anche il titolo dell’opera di Arthur Honegger (1927) su testo di Cocteau, per non parlare dell’Œdipe di George Enescu (1936).

La prima assoluta dell’opera fu a Salisburgo nel 1966 diretta da Christoph von Dohnányi nella traduzione in tedesco di Maire Basse-Sporleder (Die Bassariden). La prima rappresentazione con il testo originale fu all’Opera di Santa Fe nel 1968. Ora alla Komische Oper di Berlino, eccezionalmente in inglese, viene messa in scena da Barrie Kosky con una semplice scenografia di Katrin Lea Tag formata da una scalinata, come quella della sua Carmen, che qui però non vuol richiamare i musical di Busby Berkeley quanto le gradinate della tragedia greca con quel suo colore di travertino cotto dal sole. Il palcoscenico continua in una passerella oltre la buca dell’orchestra dove suonano gli archi, l’arpa, il pianoforte e la celesta. I fiati occupano le parti laterali della scalinata luogo d’azione del coro e dei solisti. Ma l’esecuzione è tutt’altro che oratoriale: tutti si danno un gran da fare in scena dal punto di vista attoriale sotto le precise indicazioni di Kosky, assieme ai ballerini sulle coreografie del fidato Otto Pichler che sintetizza con mosse stilizzate il baccanale di prammatica.

Del tutto diversi anche fisicamente sono i due interpreti antagonisti: il tenore americano Sean Panikkar è lo straniero/Dioniso e assieme alla bellissima voce porta in scena il tocco esotico delle sua discendenza dallo Sri Lanka. Oltre a cantare benissimo, danza anche con la consumata facilità di un attore di Bollywood. Pallido e biondo il baritono Günther Papendell per una volta è pienamente soddisfacente nella parte del coscienzioso e illuminato ma soffocante re di Tebe. Il loro duello termina con un lungo bacio: a furia di combattersi si sono appassionati, il re per un momento dimentica il suo self-control, il dio vendicativo le sue mire di sterminio. Non è l’unico momento speciale della messa in scena di Kosky che riesce sempre a stupire con il suo teatro.

Di eccellente livello sono tutti gli altri cantanti, nessuno escluso: dall’indimenticabile Cadmus di Jens Larsen al nevrotico Tiresias di Ivan Turšić al compassato Capitano Tom Erik Lie. Perfette anche le tre interpreti femminili: Tanja Ariane Baumgarten (Agave), Vera-Lotte Böcker (Autonoe) e Margarita Nekrasova (Beroe).

Non bastano le lodi per il coro e per l’orchestra del teatro diretta da uno specialista della musica del Novecento qual è Vladimir Jurovskij. Sotto la sua bacchetta la meravigliosa e complessa partitura rifulge di luce intensissima. E il pubblico berlinese l’ha compreso tributando entusiastiche ovazioni agli artefici dello spettacolo.

The Rake’s Progress (La carriera di un libertino)

Locandina dell’Opéra de Nice

Igor’ Stravinskij, The Rake’s Progress

★★☆☆☆

Nizza, Opéra, 1 marzo 2019

A Nizza una sbiadita Carriera

Come il libertino protagonista delle otto incisioni di William Hogarth che hanno ispirato l’opera, anche Igor’ Stravinskij ha frequentato tutte le mode e le correnti della musica del Novecento suggellando nel suo progress la fase neoclassica con un lavoro che può essere definito un esercizio di stile: geometria della struttura (un preludio, tre atti di tre scene ciascuno e una morale finale, il taglio rigoroso in arie con da capo e recitativi), reminiscenze tematiche (con citazioni dall’Orfeo di Monteverdi, da Gluck, Bach, Rossini), stilistiche (la cabaletta donizettiana di Anne Trulove, la händeliana ‘aria di furore’ di Baba the Turk), musicali (dissonanze, ritmi e accenti irregolari), timbriche e strumentali (ad esempio il clavicembalo associato alla figura del diavolo).

Opera non facile, ha bisogno di un direttore che sappia mettere in luce questo gioco di distaccato recupero degli stilemi settecenteschi e di virtuosistica costruzione artificiale del dramma vissuto con assoluta e ricercata inespressività. Con Roland Böer e l’Orchestre Philharmonique de Nice l’impresa è riuscita solo in piccola parte: le lucide armonie della partitura stravinskiana hanno avuto una resa sbiadita e ben poco si è rilevato della sulfurea ironia di cui è intrisa l’opera. Un’esecuzione poco più che didascalica, con momenti di stanchezza, in cui latitava un’idea che desse significato all’operazione.

In tutto questo non è stato d’aiuto l’allestimento velleitario di Jean de Pange che ha ambientato il lavoro in epoca moderna e del metateatro insito nell’opera ha fornito una banale e mal riuscita realizzazione. La prima scena ha come sfondo una pittura di stile fiammingo sull’età dell’oro in cui tutte le specie animali convivono felici, una raffigurazione quasi fuorviante delle intenzioni sarcastiche dell’autore. Nella seconda scena il bordello di Mother Goose è un raffazzonato teatrino di varietà con due ballerine di pole dance, due satiri di cui uno sovrappeso, coriste poco convinte con piume in testa e coristi in canottiera. Un quadro da recita scolastica con lo sfondo di un enorme pendolo che oscilla inesorabile invece di fermarsi e tornare indietro come vorrebbe il libretto. La scena della vendita all’asta è un omaggio al blu dell’artista Yves Klein, gloria della città, mentre quella del cimitero sarebbe teatralmente efficace con la superficie del camposanto che scende dall’alto con le sue croci e la buca della tomba, se non fosse realizzata poveramente e con un telo bianco di fondo che annulla ogni senso di spazialità. Unico momento riuscito è quello della ‘morale’, intonata come se fosse un encore dopo gli applausi finali.

Accanto a un coro di livello estremamente modesto, la compagnia di canto è invece accettabile: Julien Behr, il Pamino del Flauto di Carsen a Parigi e l’Arbace dell’Idomeneo di Michieletto, ha un bel timbro e dimostra ottima presenza scenica come Tom Rakewell di cui evidenzia soprattutto i momenti lirici di ripiegamento su sé stesso al pensiero dell’amata. Amélie Robins è una sensibile Anne Trulove, anche se l’aria del finale primo culminante in quell’acuto con cui Elisabeth Schwarzkopf aveva conquistato il pubblico della Fenice l’11 settembre 1951, qui non ha la stessa luminosità. Mezzi vocali un po’ appannati quelli di Vincent le Texier, un troppo gesticolante Nick Shadow a cui manca l’insinuante eleganza diabolica del personaggio. Accettabile il papà Trulove di Scott White, mentre non centra il lato grottesco la Baba the Turk di Isabelle Druet, ascoltata recentemente come sorellastra nella Cenerentola al Palais Garnier di Parigi, a cui il regista fa incomprensibilmente togliere la barba a metà dell’opera.

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The Rake’s Progress

Igor’ Stravinskij, The Rakes’s progress

★★★★☆

Aix-en-Provence, Théâtre de Archevêché, 5 luglio 2017

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La carriera metropolitana di un libertino d’oggi

Una grande scatola bianca vuota, in un angolo un uomo accasciato. Una donna entra con dei fiori bianchi che posa in terra come su una tomba. Con abili proiezioni le pareti della scatola si trasformano in un idillico paesaggio inglese, prima in bianco e nero poi a colori appena Anne Trulove canta «The woods are green and bird and beast at play | For all things keep this festival of May» (I boschi sono verdi e giocano uccelli e animali poiché ogni cosa celebra il maggio). «I wish I had money» (Come vorrei avere soldi) dichiara invece molto più prosaicamente il fidanzato Tom Rakewell.

Siamo nel cortile dell’Archevêché di Aix-en-Provence in questa nuova produzione del fable di Wystan Hugh Auden e Chester Kallman messo in musica da Igor’ Stravinskij. Dopo il Flauto Magico di tre anni fa, Simon McBurney ritorna al Festival con questo allestimento, molto più convincente, la cui drammaturgia (di Gerard McBurney) rispetta pienamente lo spirito corrosivo dell’opera di Stravinskij. Oltre al bric-à-brac dell’asta gli unici elementi in scena sono una sedia e un letto; il resto è fatto tutto dalle proiezioni video di Will Duke. Della scatola scenica di Michael Levine s’è detto, in più c’è una passerella tra l’orchestra e il pubblico dove si riuniscono gli interpreti/personaggi nella morale dell’epilogo.

La Londra in cui si muove Tom è quella della finanza rampante e dei festini agli ultimi piani dei grattacieli della City. Dagli strappi nelle pareti bianche entrano gli altri personaggi, prima Nick Shadow poi Mother Goose e i suoi gaudenti accoliti, ma anche gli oggetti dell’asta di Baba la Turca. La scatola bianca si corrompe sempre più, come l’anima di Tom, e alla fine il manicomio in cui è rinchiuso Tom è una stanza vuota dalle pareti lacerate in cui si proietta di nuovo il paesaggio d’inizio, ma sbiadito, inquietante, mentre Anne ritorna con i fiori, come nella prima scena. Belli i momenti dell’arrivo di Anne a Londra alla ricerca di Tom, con l’assolo di tromba suonato da un musicista di strada in uno squallido sottopassaggio della metropolitana o il verboso racconto di Baba mentre tutta la sua mirabilia spunta dalle pareti e dal soffitto – una gondola, una giraffa, un contrabbasso, un lampadario di cristallo, un’arpa, una Venere di Milo, un divano Louis XVI, una Madonna incoronata, una pendola, un tappeto orientale… Giustamente desolata e molto ben realizzata la scena del cimitero.

Alla testa dell’Orchestre de Paris il giovane direttore norvegese Eivind Gullberg Jensen ha sostituito Daniel Harding e la concertazione, pur corretta, risente della soluzione rimediata all’ultimo momento. Tra scena e buca non sempre c’è l’intesa che ci si dovrebbe aspettare e la lettura manca di incisività.

Cast buono, ma senza che nessuno degli interpreti emerga per personalità ed eccellenza vocale. Così è sia del Tom Rakewell di Paul Appleby sia dell’Anne Trulove di Julia Bullock. Più efficace il Nick Shadow di Kyle Ketelsen, qui molto poco demonico. L’idea di affidare il ruolo di Baba la Turca a un controtenore en travesti (Andrew Watts) poteva essere buona sulla carta, ma il risultato non convince né vocalmente né scenicamente. David Pittsinger come Trulove padre, Hilary Summers Mother Goose e Alan Oke il banditore Sellem completano il cast. Ottimi gli interventi dei coristi dell’English Voices che si dimostrano anche spigliati attori.

foto © Pascal Victor/ArtComPress

Elegy for Young Lovers

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Hans Werner Henze, Elegy for Young Lovers

direzione di Lothar Koenigs

allestimento di Pier Luigi Pizzi

11 dicembre 2005 Teatro delle Muse, Ancona

Non sono poche le registrazioni video delle opere di Hans Werner Henze, uno dei più prolifici autori del XX secolo, ma di questo, che è tra i suoi lavori più celebrati, nonostante i numerosi allestimenti non c’è traccia su disco.

Il titolo in inglese si deve al fatto che il libretto è di W. H. Auden e Chester Kallman (gli stessi autori del Rake’s Progress stravinskiano) e in questa lingua venne presentato a Glyndebourne il 13 luglio 1961. Aveva però debuttato il 20 maggio di quello stesso anno a Schwetzingen in una traduzione tedesca.

«Un albergo isolato da tutto e da tutti [Der schwarze Adler, in Tirolo], un poeta senza ispirazione ma abilissimo nel procurarsela attraverso chi lo circonda, atmosfere sospese, detto e non detto, esplicito e celato: questi gli elementi salienti di Elegy for young lovers. Wystan [Hugh] Auden, qui in collaborazione con Chester Kallmann, elabora un libretto di altissimo valore poetico, nel quale riversa ancora una volta tutta la sua sfiducia nella natura umana, esplicitando il suo concetto di solitudine totale di ciascuno e la contemporanea, ossessiva ricerca di un amore tanto assoluto quanto impossibile, sino all’annientamento dell’oggetto stesso dell’amore. Gregor Mitterhofer non è poeta, bensì manipolatore di sentimenti altrui, sfruttati come elemento poetico: le visioni della schizofrenica vedova Mack vengono sfruttate sino a che non cessano, nel momento in cui viene ritrovato il corpo del marito, scomparso quarant’anni prima sul ghiacciaio che sovrasta l’albergo. Gregor, mostro di cinismo, vessatore della sua nobile e nevrotica segretaria, la quale è complice e vittima ad un tempo, favorisce la passione tra Elisabeth, sua giovane amante, e Toni, nipote del suo medico personale, per trarre nuova materia poetica, spingendosi sino a conseguenze estreme. I giovani amanti periranno sul ghiacciaio, travolti da una tormenta di neve tanto imprevista quanto auspicata da Gregor, che li ha mandati a raccogliere delle stelle alpine per lui nella speranza che l’irreparabile accada. Il poema sarà composto, ma Gregor non troverà le parole per recitarlo in pubblico, tormentato dalle voci dei morti per causa sua». (Alessandro Cammarano)

Mescolando abilmente tonalità e atonalità, Henze introduce sinuose linee nel canto delle voci mentre l’orchestra sottolinea la realtà dei personaggi con il timbro o associando ad ognuno uno strumento particolare: il flauto a Hilda e alle sue deliranti allucinazioni (allusione alla pazzia di Lucia), il corno inglese a Carolina, il fagotto al Dott. Reischmann, viola e violino ai giovani amanti, gli ottoni al narcisista Mittenhofer e l’arpa ai suoi momenti di ispirato abbandono.

«Regista estetizzante, Pier Luigi Pizzi non pare qui l’uomo giusto al posto giusto: se a Henze fu rimproverato di aver composto un lavoro che stimolava più i nervi che il cuore, Pizzi sembra sollecitare soprattutto l’occhio. Resa lode alla chiarezza elegante del Pizzi scenografo, non convincono né la decisione di accorpare i tre atti senza intervallo, che vanifica in parte proprio l’ampio respiro operistico del lavoro, né alcune soluzioni tutto sommato abusate, dall’impiego di mimi alla tempesta di neve evocata, strehlerianamente, dalla semplice agitazione di un telo bianco; e la scelta di fare anche di Mittenhofer uno sconfitto (nel finale lo vediamo trascinarsi svuotato di energie, a testa china) lascia il sospetto di una forzatura. Molto riusciti invece taluni incisi ironici, come la folle in attesa del marito prima agghindata da sposa in bianco e poi, preso atto della realtà, trasformata in una vedova allegra sgonnellante in veletta nera. Ai cantanti, chiamati a trascolorare dal canto spiegato al declamato al parlato, l’opera richiede ovviamente una precisione ritmica tutta novecentesca, ma anche di essere delle autentiche voci. Il cast femminile (Ruth Rosique è la ragazza, l’intensissima Elizabeth Laurence incarna la segretaria masochista, Isolde Siebert è la pazza insignita della sua brava aria di follia, con tanto di coloratura) risponde a entrambi i desiderata. Quello maschile offre, più che altro, dei buoni interpreti, ma pur con mezzi vocali non memorabili almeno il baritono Davide Damiani merita un plauso incondizionato per come tratteggia il suo Mittenhofer narcisistico e glaciale». (Paolo Patrizi)

Vincitore al XXV Premio della critica musicale Franco Abbiati 2005, questo allestimento è stato ripreso nel 2014 alla Fenice.

The Rake’s Progress (La carriera di un libertino)

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Igor Stravinskij, The Rake’s Progress

★★★★★

Torino, Teatro Regio, 18 giugno 2014

Il memento mori di McVicar e Stravinskij

Nuovo spettacolo con la regia di David McVicar in Italia dopo il suo Faust a Trieste e Les Troyens a Milano, questo Rake’s Progress è in coproduzione con la Scottish Opera con cui aveva debuttato nel 2012 a Glasgow.

Nessuna attualizzazione dell’ambientazione, siamo in pieno Settecento con le scene e i costumi di John MacFarlane: elementi di legno incorniciano fondali dipinti e prospettive architettoniche nel gusto dell’epoca e il tutto è dominato dal senso della morte rappresentato da un grande scheletro che troviamo già dipinto sul sipario, poi nel lugubre orologio a cucù del bordello e infine nella mano ossuta che scosta il sipario per mostrarci la casa londinese di Tom, una Wunderkammer il cui  eterogeneo bric-à-brac verrà messo all’asta per ripianare i debiti del libertino.

La regia è piena di gustosi dettagli e varrebbe la pena vedere due volte lo spettacolo per assaporali tutti. La cura registica trova nei cantanti, tutti debuttanti in Italia, validi interpreti. Bo Skovhus è anche un ottimo attore e delle doti recitative della De Niese non si avevano dubbi. Vocalmente il Nick Shadow del cantante danese è forse un po’ troppo leggero, ma il personaggio esce comunque molto ben definito. La De Niese, sempre elegante e musicalissima dà il meglio di sé nella struggente ninna nanna del finale. L’americano Leonardo Capalbio è la voce al protagonista, timbro piacevole e ottima linea di canto. Annie Vavrille rifugge giustamente da eccessi caricaturali facendo di Baba la Turca un personaggio molto umano.

Su tutti Noseda stende le note di quest’opera senza cadere nella trappola del freddo gioco neoclassicista (tanto criticato alla prima di Venezia nel 1951) né della chiave satirica e caustica della vicenda fine a sé stessa. La sua direzione è di un equilibrio perfetto e gli applausi della serata suggellano degnamente uno degli spettacoli più belli delle ultime stagioni del Regio torinese.

The Rake’s Progress

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★★★☆☆

Storia con morale

Pretesto dell’opera è la famosa serie di otto dipinti di William Hogarth del 1733, ora al Soane Museum di Londra, in cui il pittore descrive ascesa e caduta del giovane Tom che sperpera una ricca eredità e finisce i suoi giorni in manicomio.

Lo spumeggiante libretto, di Wystan Hugh Auden e Chester Kallman, infonde vita a un lavoro che sulla carta sembrerebbe una fredda operazione intellettuale. Loro è l’invenzione della figura di Nick Shadow e soprattutto della teatralissima barbuta Baba la Turca.

Stravinskij, superato da tempo il “periodo russo” dei suoi primi balletti parigini, dopo il ’20  aveva spostato il suo interesse verso l’utilizzo di temi del periodo classico, la mitologia greca da una parte e le forme musicali del settecento dall’altra. The Rake’s Progress (La carriera di un libertino), presentata a Venezia l’11 settembre 1951, fu l’ultimo esempio di questo periodo neoclassico prima che l’inesausto musicista affrontasse una nuova strada nella musica seriale e dodecafonica delle composizioni degli ultimi anni.

Il titolo italiano non rende esattamente le sfumature dell’originale: in inglese rake è anche un verbo che significa rastrellare, intascare, mentre progress fa riferimento a The Pilgrim’s Progress (titolo completo:The Pilgrim’s Progress from This World, to That Which Is to Come: Delivered under the Similitude of a Dream Wherein is Discovered, the Manner of His Setting Out, His Dangerous Journey, and Safe Arrival at the Desired Countrey), romanzo allegorico di John Bunyan del 1678 che tratta del viaggio del cristiano dalla città natale (“City of Destruction”) al Paradiso (“Celestial City”). L’intento dei librettisti era dunque quello satirico di presentare un “pellegrinaggio” al contrario, verso la rovina e la follia.

Atto primo. Scena prima. In Inghilterra nel XVIII secolo, nel giardino della casa di campagna dei Trulove. Anne Trulove e Tom Rakewell si scambiano tenere parole d’amore, ma sono interrotti dal sopraggiungere del padre della fanciulla, che intende offrire al futuro genero un lavoro come contabile. Ma ben altre sono le aspirazioni del giovane, che dapprima rifiuta l’offerta e poi espone la sua scanzonata filosofia di vita. A smorzare le preoccupazioni di Trulove giunge uno sconosciuto, tale Nick Shadow: ha l’incarico di comunicare a Rakewell che la morte di un vecchio zio ha fatto di lui un uomo ricco e che ora dovrà recarsi a Londra in sua compagnia per l’eredità. L’annuncio viene accolto con comprensibile entusiasmo. Rakewell e Anne si lasciano con un affettuoso ‘arrivederci’, mentre Shadow dichiara che per la sua ricompensa attenderà un anno e un giorno. Segue un ulteriore congedo tra Rakewell, Anne e Trulove. Scena seconda. Nel bordello di Mother Goose, a Londra. Prostitute e ragazzi elevano un canto in onore di Venere e Marte. Shadow ha condotto qui Rakewell per fargli conoscere i piaceri della vita e lo ha nel frattempo istruito sul reale significato di concetti quali la bellezza, il piacere e l’amore. Cosicché, quando la tenutaria si rivolge al giovane per saggiare la sua preparazione alla vita, questi risponde perfettamente. Il parlare dell’amore tuttavia ingenera in lui un sentimento di nostalgia per Anne. Ora vorrebbe andarsene, è tardi, un orologio batte l’una; ma con un solo gesto Shadow fa ritornare le lancette sulla mezzanotte, affermando che il tempo è loro e bisogna divertirsi. Rakewell si rivolge ad Amore affinché accolga la sua tristezza. Le  prostitute vorrebbero consolarlo a modo loro, ma è Mother Goose a rivendicare i propri diritti di anzianità sulle altre e ad allontanarsi con lui. Scena terza. Notte di luna piena, nel giardino di Trulove. Anne confida alla notte la propria disperazione per il mancato ritorno di Rakewell; il padre interviene per richiamarla, ma ella ha ormai deciso di andare a cercarlo, e invoca la luna di guidarla nel suo cammino.
Atto secondo. Scena prima. La camera da letto nella casa di Rakewell, in un elegante quartiere di Londra. Rakewell lamenta la propria condizione di uomo annoiato e vacuo, anche se conduce una vita brillante. Irrompe allora Shadow che, mostrandogli il ritratto di Baba la turca, una orrenda donna da circo con tanto di barba nera, irretisce completamente l’amico con le sue argomentazioni e lo piega alla sua folle volontà di fargliela prendere in moglie. Una sinistra risata dei due suggella l’accordo: Rakewell sposerà Baba, liberandosi così in un colpo solo sia della passione sia della ragione, i tiranni che gli impediscono di essere un uomo libero. Scena seconda. La strada di fronte alla casa di Rakewell. È autunno, di sera. Anne non sa se entrare nell’appartamento di Rakewell,  quindi si mette in disparte per lasciar passare una processione di servi, che incedono tenendo sollevata una portantina. Appare Rakewell che, imbarazzato dalla presenza della fanciulla, tenta di convincerla di tornare a casa contro la sua volontà. Si sente la voce di Baba che, bloccata nella portantina, da cui non riesce a scendere, reclama le attenzioni del marito. Rakewell confessa ad Anne che quella è la sua sposa e tranquillizza Baba dicendole che la donna che gli sta parlando non è altro che una lattaia, venuta a reclamare un antico debito. Richiamata intanto dai servitori, sopraggiunge la folla ad acclamare Baba; la donna, per compiacere il suo pubblico, si toglie il velo che copriva la sua folta barba nera. Scena terza. Nella camera di Rakewell. Scene di vita domestica: Baba continua a parlare, irritando Rakewell, che la respinge in malo modo, convinto ormai che solo il sonno possa costituire un rimedio alla sua infelicità. Mentre Rakewell è addormentato e sognante, giunge Shadow con una strana macchina che tramuta la pietra in pane e quando Rakewell gli racconta di aver sognato una macchina simile, gliela mostra. Rakewell grida al miracolo ed è raggiante perché ora, costruendo altre macchine simili, potrà debellare la fame e la povertà e guadagnarsi così la gratitudine della gente.
Atto terzo. Scena prima. Nella camera di Rakewell a Londra. Un gruppo di borghesi – tra i quali è anche Anne, sempre invano alla ricerca di Rakewell – s’è dato convegno nell’appartamento del libertino, dove un banditore, Sellem, si appresta a mettere all’asta tutti i beni accumulati da Rakewell nella sua smania di ricchezza. Tra i vari oggetti – animali, vegetali e minerali – vi è pure Baba, celata da una grossa parrucca. Una volta ‘scoperchiata’, la donna è pronta a riprendere il discorso interrotto nella scena precedente. Dalla strada si odono le voci scanzonate di Rakewell e Shadow cantare «Mogli vecchie in vendita». Prima di decidere di far ritorno al circo, Baba rassicura Anne sull’amore di Rakewell. Scena seconda. Cimitero, in una notte senza stelle. Un anno e un giorno sono ormai trascorsi e Shadow reclama i propri diritti. In cambio dei suoi servigi egli non vuole denaro, ma l’anima di Rakewell: gli lascia tuttavia un’estrema possibilità di salvezza, indovinare cioè le tre carte che ora estrarrà da un mazzo. Con l’aiuto dell’amore di Anne, sua regina di cuori, Rakewell vince. Prima di sprofondare nel ghiaccio e nel fuoco Shadow, con un ultimo gesto di magia, toglie a Rakewell la ragione. Scena terza. Nel manicomio, Rakewell invita le ombre degli eroi a esultare con lui per l’imminente arrivo di Venere, in visita al suo Adone, ma un gruppo di pazzi lo motteggia. Arriva Anne, e il guardiano del manicomio la avvisa che Rakewell risponde solo se è chiamato Adone e che a sua volta si rivolgerà a lei chiamandola Venere. Dopo averle chiesto perdono dei suoi peccati, Adone/Rakewell chiede ad Anne/Venere di cantare una canzone per addormentarlo: la ninna-nanna di Anne ottiene l’effetto desiderato. Il guardiano fa ora entrare Trulove, che invita la figlia a venir via con lui, giacché la bella favola d’amore è finita. Risvegliatosi, Rakewell chiede dove sia finita la sua Venere, ma i pazzi gli dicono che non c’è stata nessuna Venere in manicomio. Infine, sentendo la morte appressarsi, invita Orfeo a intonare il canto del cigno e prega le ninfe e i pastori di compiangere Adone morente. Epilogo. Richiamati da Shadow, che ferma con un gesto la calata del sipario, tutti i protagonisti appaiono alla ribalta per affermare la morale, ossia che il diavolo trova sempre lavoro per gli oziosi.

La prima veneziana fu un evento di grande mondanità «con buon successo di pubblico e abbastanza disomogeneo riscontro critico», come scrive Adriana Guarnieri Corazzol sul programma di sala del Teatro la Fenice per la suo produzione del giugno 2014.  L’opera infatti divise la critica che si soffermava sul controverso rapporto tra “tradizione” e “modernità”. Le voci più ostili o diffidenti furono quelle di Giorgo Vigolo (“Carriera del sobrio”), Mario Zafred e Teodoro Celli (“Strawinsky settantenne: sconcertante ‘messaggio'”), sul versante opposto ammirazione e comprensione da Emilia Zanetti (“La maestria risolta in semplicità”), Eugenio Montale (“Sulla scia di Stravinskij”), Fedele D’Amico (“Domande su Stravinskij”) e soprattutto Massimo Mila,  – che avrebbe poi scritto il saggio Compagno Strawinsky – dove con “compagno” intendeva un compagno di strada dell’uomo moderno.

La collaborazione tra John Cox (regista) e David Hockney (scenografo) per l’opera di Stravinskij risale al 1975. Dopo trentacinque anni la loro produzione approda nel 2010 per la settima volta consecutiva a Glyndebourne. Per le sue originali scenografie Hockney non si ispira ai quadri a olio di Hogarth quanto alle popolari incisioni che ne seguirono, poiché applica la stessa tecnica per dipingere le sue scene: un tratteggio in bianco e nero acceso da qualche raro colore e un rigore geometrico che rispecchiano a meraviglia la musica che ricostruisce un settecento visto dagli occhi di un compositore russo dell’avanguardia, anche se qui ripiegato in una fase neoclassicista.

Il giovane direttore Vladimir Jurovskij apporta il suo contributo russo alla produzione con una lettura della impegnativa partitura che dà ottimi risultati. Bravissimi i due interpreti principali: Topi Lehtipuu è Tom Rakewell mentre Miah Persson copre il ruolo di Anne Trulove che Elisabeth Schwarzkopf aveva cantato alla prima, il personaggio cui Stravinskij dedica le pagine più liriche e struggenti. Matthew Rose è un Nick Shadow di maniera, poco musicale e senza bagliori luciferini.

Immagine perfetta, regia video di François Roussillon, due tracce audio, extra e sottotitoli in quattro lingue, ma non in italiano.