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Gioachino Rossini, La Cenerentola
Parigi, Palais Garnier, 20 giugno 2017
(video streaming)
Una Cenerentola che sa di cenere
«Une production sans génie […] En même temps que l’aspect comique, l’approche gomme la dimension merveilleuse, également consubstantielle à l’ouvrage […] La mise en scène se révèle sans grande inventivité, bien statique et manquant cruellement de flamme […] Une naïveté déconcertante et une timidité qui confine bien vite à l’ennui […] Les occasions de sourire sont-elles rares. Bien plus que les occasions d’être émus». È concorde la critica francese nei confronti di questo allestimento de La Cenerentola di Rossini affidato al celebre attore Guillaume Gallienne alla sua prima regia lirica, giudicata «indegna di un artista talentuoso e intelligente, che lascia una triste impressione di superficialità». Al di là delle Alpi una certa idea di Rossini come irresistibile burlone è ancora tenace e per di più qui si tratta della “loro” Cendrillon, ma in effetti il risultato non convince.
Ambientata ai giorni nostri in una Napoli minacciata dalle eruzioni del Vesuvio (sembra sia cenere vulcanica quella di Cenerentola…), la scena unica di Éric Ruf è nello stesso color rosso ocra della sala di Palais Garnier: il cortile di un palazzo gotico decrepito, con le pareti di lamiera corrose dalla ruggine e invaso per di più da una colata lavica, il che dà da subito un tono cupo al “dramma giocoso”. Ancor più desolata la «deliziosa sala del casino di Don Ramiro» con un ponteggio di tubi innocenti e la scabra pavimentazione ben poco adatta a un ballo.
Dandini è atteso da uno stuolo di spose scacciate dalle due sorelle armate di fucile, ma le stesse spose ritorneranno a più riprese, anche quando non è necessario. Don Magnifico esce dalla camera in dolce compagnia femminile e così non si capisce come abbia potuto fare il suo «magnifico sogno». Diventa poi un Bacco cantiniere, ma la sua bonomia non cancella la crudeltà di questo doppio vedovo nei confronti della figlia. Come ne La Pelle di Malaparte, alla fine del primo atto il Vesuvio si risveglia: la terra balla sotto i piedi («Ma ho timore sotto terra | piano piano, a poco a poco | si sviluppi un certo foco; | e improvviso a tutti ignoto | balzi fuori un terremoto»), l’aria si tinge di rosso e si riempie di fumo.
Nonostante i cospicui tagli lo spettacolo dura due ore e quaranta minuti: la direzione di Dantone sembra essere stata contagiata dalla mestizia dell’allestimento e lo specialista del barocco sembra non a suo agio senza la sua orchestra e abbandona i ritmi che danno vivacità alla vicenda puntando a una elegante ma talora accademica freddezza. Ne sono un esempio la sfilacciata entrata di Dandini e il concertato del «nodo avviluppato», fin troppo centellinato. Ha fatto poi discutere l’accompagnamento con arpa dei recitativi di Angelina. Chissà perché non ci ha pensato a suo tempo l’autore…
Teresa Iervolino, Angelina sempre mesta, anche incoronata ha l’aria di chi non ha superato lo choc delle violenze subite da bambina. La cantante esibisce i toni scuri della voce e sono quelli che la fanno ricordare, più che le trionfanti agilità, anche a causa delle scelte del regista e del costumista Olivier Bériot che la presentano a corte con uno straccetto che nemmeno la casalinga di Voghera avrebbe mai messo. Il finale, che dovrebbe sprizzare gioia da tutti i pori, qui a causa delle luci, delle candele in mano ai coristi e degli abiti scuri, diventa una veglia funebre.
Don Ramiro è il tenore messicano Juan José De León dalla voce chioccia e dal tono petulante finché non si sfoga in alto. Alessio Arduini è un Dandini di giusta presenza ma tutt’altro che memorabile nella vocalità. Maurizio Muraro come Don Magnifico non convince a causa dei fiati corti e a qualche incertezza che compensa con la presenza scenica, incluso un numero da avanspettacolo di fronte al sipario chiuso. Roberto Tagliavini, Alidoro dall’aspetto messianico, occhi cerulei e lunghi capelli biondi, è l’unico a smuovere il letargico pubblico parigino che dimostra di apprezzarne i bassi profondi e l’intensità con cui espone la sua aria. Meno perfide del solito le due sorellastre (Chiara Skerath e Isabelle Druet), anzi simpatiche, anche loro vittime del padre che le vede solo come occasione di ricchezza e potere. Non sorprende che si sfoghino con atti di bullismo sulla sorella minore.
⸪