The Rake’s Progress (La carriera di un libertino)

Locandina dell’Opéra de Nice

Igor’ Stravinskij, The Rake’s Progress

★★☆☆☆

Nizza, Opéra, 1 marzo 2019

A Nizza una sbiadita Carriera

Come il libertino protagonista delle otto incisioni di William Hogarth che hanno ispirato l’opera, anche Igor’ Stravinskij ha frequentato tutte le mode e le correnti della musica del Novecento suggellando nel suo progress la fase neoclassica con un lavoro che può essere definito un esercizio di stile: geometria della struttura (un preludio, tre atti di tre scene ciascuno e una morale finale, il taglio rigoroso in arie con da capo e recitativi), reminiscenze tematiche (con citazioni dall’Orfeo di Monteverdi, da Gluck, Bach, Rossini), stilistiche (la cabaletta donizettiana di Anne Trulove, la händeliana ‘aria di furore’ di Baba the Turk), musicali (dissonanze, ritmi e accenti irregolari), timbriche e strumentali (ad esempio il clavicembalo associato alla figura del diavolo).

Opera non facile, ha bisogno di un direttore che sappia mettere in luce questo gioco di distaccato recupero degli stilemi settecenteschi e di virtuosistica costruzione artificiale del dramma vissuto con assoluta e ricercata inespressività. Con Roland Böer e l’Orchestre Philharmonique de Nice l’impresa è riuscita solo in piccola parte: le lucide armonie della partitura stravinskiana hanno avuto una resa sbiadita e ben poco si è rilevato della sulfurea ironia di cui è intrisa l’opera. Un’esecuzione poco più che didascalica, con momenti di stanchezza, in cui latitava un’idea che desse significato all’operazione.

In tutto questo non è stato d’aiuto l’allestimento velleitario di Jean de Pange che ha ambientato il lavoro in epoca moderna e del metateatro insito nell’opera ha fornito una banale e mal riuscita realizzazione. La prima scena ha come sfondo una pittura di stile fiammingo sull’età dell’oro in cui tutte le specie animali convivono felici, una raffigurazione quasi fuorviante delle intenzioni sarcastiche dell’autore. Nella seconda scena il bordello di Mother Goose è un raffazzonato teatrino di varietà con due ballerine di pole dance, due satiri di cui uno sovrappeso, coriste poco convinte con piume in testa e coristi in canottiera. Un quadro da recita scolastica con lo sfondo di un enorme pendolo che oscilla inesorabile invece di fermarsi e tornare indietro come vorrebbe il libretto. La scena della vendita all’asta è un omaggio al blu dell’artista Yves Klein, gloria della città, mentre quella del cimitero sarebbe teatralmente efficace con la superficie del camposanto che scende dall’alto con le sue croci e la buca della tomba, se non fosse realizzata poveramente e con un telo bianco di fondo che annulla ogni senso di spazialità. Unico momento riuscito è quello della ‘morale’, intonata come se fosse un encore dopo gli applausi finali.

Accanto a un coro di livello estremamente modesto, la compagnia di canto è invece accettabile: Julien Behr, il Pamino del Flauto di Carsen a Parigi e l’Arbace dell’Idomeneo di Michieletto, ha un bel timbro e dimostra ottima presenza scenica come Tom Rakewell di cui evidenzia soprattutto i momenti lirici di ripiegamento su sé stesso al pensiero dell’amata. Amélie Robins è una sensibile Anne Trulove, anche se l’aria del finale primo culminante in quell’acuto con cui Elisabeth Schwarzkopf aveva conquistato il pubblico della Fenice l’11 settembre 1951, qui non ha la stessa luminosità. Mezzi vocali un po’ appannati quelli di Vincent le Texier, un troppo gesticolante Nick Shadow a cui manca l’insinuante eleganza diabolica del personaggio. Accettabile il papà Trulove di Scott White, mentre non centra il lato grottesco la Baba the Turk di Isabelle Druet, ascoltata recentemente come sorellastra nella Cenerentola al Palais Garnier di Parigi, a cui il regista fa incomprensibilmente togliere la barba a metà dell’opera.

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