foto © Judit Horvath
∙
Henrik Ibsen, Hedda Gabler
regia di Kriszta Székely
Torino, Teatro Carignano, 12 gennaio 2023
Ibsen ungherese
Nell’Ottocento la donna è sempre vittima: della società, degli uomini (marito, amante, fratello…). Non Hedda Gabler nel 1890. Lei è vittima di sé stessa, del suo egoismo, della gelosia, della noia. Ossia della sua libertà, che pagherà a caro prezzo. Prima della Lulu di Wedekind anche Hedda distrugge gli uomini, ma volutamente: avendo nelle sue mani il destino di un uomo, invidiosa dell’influenza positiva che un’altra donna ha avuto su di lui tanto da riuscire a redimerlo e a farne quasi un uomo nuovo, decide di agire esattamente al contrario portandolo alla rovina e istigandolo al suicidio.
Seconda incursione nel teatro di Ibsen nella stagione del Teatro Stabile di Torino dopo Spettri, Hedda Gabler ora al Teatro Carignano non viene messa in scena nella traduzione italiana, ma neanche nell’originale norvegese, bensì in quella strana lingua, dolce e del tutto impermeabile alla nostra comprensione, che è l’ungherese. Si tratta infatti di una produzione affidata a Kriszta Székely, regista di Budapest che ritorna a Torino dopo la sua rielaborazione di Casa di bambola sempre di Ibsen e dello Zio Vanja di Čechov di tre anni fa nella traduzione italiana. Ora invece è la lingua della regista che ascoltiamo dalle bocche degli attori Barna Bányai Kelemen (Jørgen Tesman), Béla Mészáros (Ejlert Løvborg), Júlia Mentes (Thea Elvsted), Péter Takátsy (Brack), Eszter Kiss (Julle Tesman) e ovviamente Adél Jordán (Hedda). Sei personaggi (qui manca la domestica Berthe), tre donne e tre uomini, alla ricerca della felicità: Jørgen perché ha bisogno del posto all’università per pagare i debiti; Ejlert perché nonostante il successo del suo ultimo libro è corroso dentro dall’inadeguatezza di vivere ed è irrimediabilmente infelice; Thea perché ha sposato un uomo da cui fugge; la zia Julle perché vive solo per la sorella malata che ora è morta; Hedda, annoiata da una vita priva di passioni. Forse solo l’assessore Crack (qui giudice) nel suo cinismo si può ritenere non-infelice.
Nella sua drammaturgia Armin Szabó-Székely riscrive il testo per adattarlo a un’ambientazione contemporanea che esalta la modernità del personaggio di Hedda – «portamento nobile, carnagione pallida, carattere calmo e freddo», 29 anni dice l’autore, qui la figura minuta dell’attrice Adél Jordán, scalza, irrequieta – che ha un solo interesse: le pistole del padre generale. «Comunque ho sempre qualcosa con cui divertirmi… le mie armi!» risponde al marito che le nega i suoi capricci.
La scenografia di Juli Balázs e i costumi di Dóra Pattantyus connotano il freddo ambiente in cui si svolge la vicenda e la recitazione abbandona la “dizione” teatrale per uno stile più cinematografico, sussurrato, introverso, che richiede molta attenzione da parte dello spettatore. Un microfono a un lato del palcoscenico è talora usato ironicamente per alcuni interventi dei personaggi mentre da un giradischi arrivano le musiche struggenti di Flora Lili Matisz. I quattro atti originali sono condensati in uno spettacolo senza intervalli che ha un ritmo in crescendo fino al drammatico finale con il suicidio di Hedda risolto con tecnica cinematografica: fermo immagine, ralenti. Un effetto che ha scatenato gli applausi di una sala gremita in ogni ordine di posto.
Lo spettacolo arriva dal Katona József Színház di Budapest dove Orban ha fatto approvare un provvedimento per il quale le direzioni dei teatri diventano di pertinenza governativa… La voce di un’artista e donna come Kriszta Székely è così ancora più preziosa. Hedda Gabler dura solo fino al 15 gennaio. Affrettarsi, è un’occasione da non mancare.
⸪