Spettri

Henrik Ibsen, Spettri

regia di Rimas Tuminas

Torino, Teatro Carignano, 16 dicembre 2022

Una moderna tragedia antica

Nonostante si trovasse in Italia e in un ambiente solare quale quello di Roma e Sorrento, per il suo nuovo dramma il drammaturgo norvegese non rinunciò alle atmosfere cupe e ai forti toni drammatici con cui scandagliava la famiglia borghese del suo tempo. Gli spettri del titolo (Gengågare) sono le ombre del passato che sorgono a turbare i protagonisti di questo dramma. I segreti famigliari, i fantasmi che vivono dentro tutti noi.

Helene Alving per onorare la memoria del marito scomparso finanzia la costruzione di un asilo con l’assistenza di un suo vecchio amico, il pastore Manders. Helene ha un solo figlio, Osvald, appena rientrato da Parigi e ancora inebriato dalla vita passata in quella città. Helene ha sempre nascosto a Osvald la vera personalità del padre, il capitano Alving: un uomo corrotto che la donna aveva sposato senza provare amore e aveva abbandonato per un certo lasso di tempo per rifugiarsi nelle braccia del pastore Manders, il quale ora la respinge. Il suo difendere l’onorabilità del marito sino a sfociare nella menzogna non salva il destino di Osvald: egli è minato da un male inguaribile che lo porterà alla pazzia. Il giovane è innamorato di Regine, frutto dell’avventura del padre con una domestica, che gli è quindi sorella. Quando Osvald dichiara di volerla sposare, solo allora Helene è costretta a rivelare l’orribile verità. Corroso dal suo male, Osvald chiede alla donna di propinargli un veleno nel momento in cui sarà colto dalla pazzia.

Spettri è un’opera in cui prevale una negatività completa, la contemplazione cinica e amara di una vita che consuma sé stessa alla ricerca di un proprio senso, alla fine impotente e confinante col vuoto, con l’assenza e la morte. Il testo è indubbiamente influenzato dalle correnti positivistiche del tempo e dal naturalismo francese, ma strutturalmente si collega anche alla tragedia classica antica fornendone una versione rinnovata e attuale.

Prodotto col Teatro Stabile Veneto, Spettri è ora messo in scena per il Teatro Stabile di Torino dal regista lituano Rimas Tuminas. L’adattamento in italiano di Fausto Paravidino si prende molte libertà col testo originale alludendo a temi quali quelli delle unioni civili o del diritto di decidere della propria vita, non esattamente espressi in questi termini ma comunque non assenti nel dramma di Ibsen che, ricordiamo, è del 1891 e che provocò allora grande scandalo e fu osteggiato dalla critica che lo definì «un concentrato di oscenità scritte in stato di delirio o di ubriachezza». Solo dieci anni dopo venne preso in considerazione dai principali teatri prima in Norvegia e poi nel resto del mondo. Dramma non tra i più frequentati sulle tavole dei palcoscenici italiani – si ricordano invece due versioni televisive nel 1954 (regia di Mario Ferrero) e 1963 (di Vittorio Cottafavi, con Sarah Ferrati, Umberto Orsini e Tino Carraro) – ora al Teatro Carignano si avvale della partecipazione di Andrea Jonasson. Capelli fulvi, presenza magnetica, un uso sapiente del corpo e dello spazio, una recitazione scarna ma intensa che si ricorda dello stile del marito Giorgio Strehler e l’incancellabile accento tedesco danno quel tocco in più alla parte della vedova Helene Alving, una donna che non ha saputo ribellarsi alla menzogna e che sconta il peccato di non aver abbracciato la verità subito, fin da giovane. La donna è però anche una vittima: la logica sociale ha privato la sua vita di ogni pienezza e di ogni felicità, tutta la sua esistenza è stata un sacrificio. Ha subito l’umiliazione inflittale dal marito animalesco, ha rinunciato al sesso e all’amore, ha vissuto per gli altri, soprattutto per il figlio, e ha continuamente soffocato il suo concreto presente per un irreale futuro altrui, destinato a distruggere lei stessa e il suo mondo.

Gianluca Merolli è il figlio Osvald, personaggio tormentato che nel poco tempo in scena – i tre atti sono condensati in un atto unico di un’ora e 30 minuti e il testo originale è più che dimezzato – riesce a rappresentare la tragica evoluzione di un uomo che scopre in sé le tare del padre che lo destinano alla demenza, al «rammollimento del cervello». La trasformazione è resa sapientemente dal giovane attore che ha il momento più intenso nel finale quando, dopo aver dato alla madre una dose di morfina, in preda a un attacco le chiede delirando: «mamma, il sole… dammelo, dammi il sole».

Eleonora Panizzo veste i panni di Regine, la domestica che scopre di far parte anche lei della famiglia, ma non vuole finire a fare la infermiera al fratellastro, «non mi sento di restar qui in paese a perder tempo o magari a sfacchinare e a sputar l’anima per dei malati» dice, e fugge da quella casa. La voce della società e del dovere è quella del Pastore Manders, Fabio Sartor, mentre Giancarlo Previati è Jacob Engstrand, il padre adottivo della ragazza, entrambi convincenti nei loro ruoli.

Le scene severe, un interno nordico in cui non entra la luce ma la nebbia dell’esterno, e gli altrettanto severi costumi sono di Adomas Jacovskis, il sobrio disegno luci di Fiammetta Baldisseri. Le musiche di Sibelius, Bizet e di compositori lituani connotano efficacemente l’atmosfera un po’ onirica creata dal settantenne regista Rimas Tuminas, figlio di padre russo e madre lituana. Fondatore del Piccolo Teatro Statale di Vilnius e dal 2007 direttore artistico del Vakhtangov, un popolare teatro di Mosca, ha messo in scena drammi di Čechov e opere russe al Bol’šoj. Il suo approccio registico è caratterizzato da una recitazione cadenzata da molte pause piene di tensione, tensione che subisce un crescendo drammatico a mano a mano che la devastante verità viene ammessa.

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