Aleksandr Puškin

La dama di picche

Pëtr Il’ič Čajkovskij, La dama di picche

★★★☆☆

Nizza, Opéra, 28 febbraio 2020

È noir Čajkovskij per Py

Quattro città del sud della Francia uniscono le loro forze per attuare un dispositivo di sostegno alla produzione lirica: i teatri d’opera di Nizza, Marsiglia, Tolone e Avignone allestiscono congiuntamente uno spettacolo che andrà in scena in tutte e quattro le sedi. L’esperimento inizia dal capoluogo della Costa Azzurra con il penultimo capolavoro per il teatro di Pëtr Il’ič Čajkovskij.

Ad allestire La dama di picche viene chiamata quella singolare figura di regista, scrittore e performer che è Olivier Py, autore di spettacoli singolari e di particolare impatto visivo. Del racconto di Puškin egli accentua il colore nero, che il librettista, Modest Čajkovskij aveva diluito con la storia d’amore tra Hermann e Liza, colore che è ben presente invece nella musica del fratello Pëtr. Il tono sulfureo della vicenda, che gli era riuscito in spettacoli notevoli come i suoi Contes d’Hoffmann del 2008 o la più discutibile Gioconda dell’anno scorso, qui ha un che di greve che non sempre è convincente, soprattutto nella prima delle due parti in cui è suddiviso lo spettacolo. La produzione di Py trabocca di idee, anche troppe, ambientandosi nella Russia del dopoguerra, con gigantografie degli squallidi condominii stalinisti sul fondo di un impianto scenografico, del solito Pierre-André Weisz, che con le sue vetrate rotte ricorda una fabbrica abbandonata di presenza incombente ma poca profondità, sviluppandosi principalmente in altezza con i suoi due piani di praticabili. Una singolare miscela di tecniche antiche e moderne caratterizza la scenografia, come il cielo nuvoloso che sembra il risultato di una proiezione video e invece è un telo disegnato e semitrasparente che scorre su due rulli. Le luci che disegnano questo ambiente indistinto tra reale e onirico si devono a Bertrand Killy, i costumi neo-gotici allo stesso Weisz.

A parte il risultato estetico, la scelta scenica sembra contrastare con l’idea registica di fare di Hermann il doppio di Čajkovskij – idea non inedita perseguita con quasi ossessiva determinazione da Stefan Herheim nella sua produzione londinese – il compositore che «ha conosciuto tutte le delusioni amorose, tutte le violenze della gloria, tutti i paradisi artificiali, tutti gli scherzi della fortuna», come scrive Py nelle sue note di regia dove indica nella presenza della vecchia contessa la pulsione di morte sempre presente nel personaggio giocatore. Il tono funereo è affrontato con un umorismo macabro che si concentra nella figura di un mimo-ballerino onnipresente, probabilmente l’amante di Hermann, che dopo aver danzato la “Morte del cigno” sulla bara della vecchia ne prenderà il posto – la contessa non è affatto morta infatti, il funerale è una farsa e la ritroveremo al tavolo da gioco (ancora la sua bara) per assistere alla rovina del giovane a cui ha indicato la carta sbagliata. Altri due ballerini si uniscono in momenti coreografati di Daniel Izzo di sottile sarcasmo, come quando il trio si esibisce in una pantomima delle danze in perfetto stile Complesso Accademico di Canto e Ballo dell’Esercito Russo, da noi conosciuto come Coro dell’Armata Rossa. Seppure godibili, questi momenti, come altri, non sembrano coerenti con la vicenda dove contesse, principi, fanciulle virtuose e sale da gioco risultano elementi del tutto estranei alla scelta visiva.

Su tutto però vince la musica di questo pastiche che affianca agli struggenti temi sinfonici un divertissement settecentesco e impasti strumentali e tematici che fanno presagire il futuro Šostakovič – lui sì degli stessi anni dell’ambientazione scenica. Il direttore György Györiványi Ráth si trova a gestire una musica di grande complessità e raffinatezza con uno strumento che non è tra i più blasonati, ma il risultato è nel complesso positivo e l’equilibrio sonoro dell’orchestra ben realizzato, complice anche la buona acustica dell’intimo teatro. Non sempre invece i cantanti si rendono conto delle dimensioni ridotte della sala e il volume sonoro risulta quindi eccessivo, soprattutto quando il timbro ha una componente un po’ metallica come è il caso della Liza di Elena Bezgodkova, soprano dalla bella linea vocale e intensamente espressiva. Miglior equilibrio di volumi e colori si incontrano nello Hermann del tenore Oleg Dolgov che porta con agio alla fine una parte di grande impegno vocale. Nella sua unica ma bellissima aria si fa distinguere per bellezza di suono ed esattezza di fraseggio la Polina di Eva Zaïcik, mezzosoprano rivelazione lirica alle recenti Victoires de Musique Classique. Marie-Ange Todorovitch, l’interprete più nota a livello internazionale, presta il suo temperamento attoriale alla parte della vecchia contessa e la sua resa della romanza di Grétry «Je crains de lui parler la nuit» ha un tono nostalgico e assieme spettrale che dà i brividi. La straniante pagina di Čajkovskij ancora oggi si conferma come un momento teatrale di straordinaria intensità e audacia. L’interprete è qui avvantaggiata dalla scelta registica di fare della contessa un personaggio di grande teatralità: le pulsioni erotiche della vecchia qui sono tutt’altro che sopite, anzi chiaramente esplicitate, gettando nuova luce sulle parole del libretto. Questa sì è una delle idee vincenti di Py!

Tra gli altri interpreti si segnalano l’autorevole ma un po’ monocorde principe Eleckij di Serban Vasile e il più vivace Tomskij del baritono Alexander Kasyanov. Efficaci gli altri.

Il pubblico della prima ha manifestato qualche dissenso verso la messa in scena alla fine della prima parte, ma le contestazioni sono scomparse, assorbite nei calorosi applausi, alla fine della recita.

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La dama di picche

Pëtr Il’ič Čajkovskij, La dama di picche

★★★★☆

Londra, Royal Opera House, 22 gennaio 2019

(diretta streaming)

Il delirio prende forma

Terza delle trasposizioni operistiche del racconto di Puškin dopo La dame de pique (1850) di Fromental Halévy e Pique Dame (1864) di Franz von Suppé, La dama di picche (Пиковая дама, Pikovaia dama) di Čajkovskij è la penultima delle opere del compositore russo.

Il lavoro è di straordinaria compattezza e coesione nonostante i materiali musicali eterogenei modernamente prelevati “all’esterno”: temi delle sue due ultime sinfonie (la Quinta e la Sesta); richiami alla Carmen (il coro dei bambini-soldati della prima scena e l’ultima aria di Hermann nel terzo atto); gli echi mozartiani che si sprecano in tutta la scena del ballo; il tema del minuetto da un coro de Il figlio rivale di Bortnjanskij e l’arrivo dell’imperatrice accompagnato dall’inno ‘Tuoni di vittoria’ di Kozlovskij. Per non parlare dell’aria della contessa che cita apertamente il Richard coeur-de-Lion di Grétry.

Nell’intrigante e intelligente allestimento del norvegese Stefan Herheim, ora alla Royal Opera House di Londra, l’ossessione per il gioco del protagonista viene quasi messa in ombra dal tormento di Čajkovskij per la sua sofferta omosessualità. Veri o presunti, alcuni dati della biografia del musicista hanno un ruolo decisivo in questa produzione nata ad Amsterdam nell’estate del 2016, quali l’infatuazione per il tenore primo interprete della sua opera e la morte per aver volutamente bevuto acqua infettata dal colera. Nella drammaturgia di Alexander Meier-Dörsenbach la vicenda è popolata da figure che prendono vita durante la febbrile composizione dell’opera scritta tra il gennaio e il marzo del 1890 al tempo del soggiorno del musicista a Firenze. La scena è dunque ambientata nella sua stanza all’Hotel Washington. Qui vi troneggia un pianoforte e le pareti vengono spesso sostituite da specchi nella scenografia di Phill Fürhofer, suoi anche i bei costumi.

Ad apertura di sipario, prima che inizino le trascinanti note dipanate da Pappano con veemenza e passione, assistiamo alla fellatio eseguita dal musicista su un giovane che poi lo tratta con disprezzo. L’umiliazione subita spinge il compositore a gettarsi nella creazione artistica: da questo momento lo vedremo al pianoforte e chino sui fogli di musica che inonderanno la scena o immedesimarsi e vestire i panni del principe Eleckij, personaggio del tutto assente dal racconto di Puškin e introdotto nel libretto del fratello Modest Čajkovskij quasi a equilibrare con una figura positiva il numero di quelli, ipocriti e fatui, della storia. La regia di Herheim scava a fondo nel personaggio e si adatta, con la sua oniricità, al tono della vicenda, con solo qualche effetto di troppo, come l’arrivo della zarina al ballo con il coro in platea che a luci accese invita il pubblico ad alzarsi in piedi e cantare l’inno all’imperatrice – che dietro il ventaglio si scoprirà essere Hermann grottescamente en travesti. Le fattezze del compositore che si ritrovano in tutti i coristi danno un tono di incubo a una vicenda priva di una logica razionale e il regista mette così in evidenza il taglio modernissimo dell’opera.

Dallo streaming non sembra che Pappano metta in difficoltà con la potenza sonora dell’orchestra e i suoi tempi trascinanti gli interpreti in scena, i quali si rivelano di qualità eccellente. Per l’indisposizione di Alexandrs Antonenko (che sembra abbia molto deluso alla prima) la parte di Hermann viene affidata all’ultimo momento a Sergej Poliakov, tanto che neanche sul sito on line del teatro ne viene riportato il nome. Uscito dalla fucina della Novaia Opera, il teatro che a Mosca sta facendo concorrenza al blasonato Bol’šoj, il tenore russo dai trasparenti occhi di ghiaccio dimostra una padronanza vocale e scenica eccezionali nella parte estenuante e impegnativa che gli affida Čajkovskij. Il soprano di formazione olandese Eva-Maria Westbroek sembra non aver fatto altro tutta la vita che cantare in russo tanta è la sicurezza con cui crea il personaggio della sfortunata Liza, suicida e angelo della morte. La tecnica ineccepibile e la potenza vocale ammirate in tante sue performance sono qui ampiamente confermate. Come confermata è l’eleganza e la maestria del bulgaro Vladimir Stoyanov, nei panni attoriali di Čajkovskij e in quelli vocali del principe Eleckij quando incanta nella famosa dichiarazione d’amore della prima scena del secondo atto. Perfetta Anna Goriačëva (Goryachova nella traslitterazione inglese) nel duplice ruolo di Polina e Milzvor. Del mezzosoprano russo si erano già ammirate le qualità del timbro e della tecnica vocale quale Edoardo nella Matilde di Shabran del ROF e marchesa Melibea nel Viaggio a Reims di Montanari/Michieletto a Roma. Il passaggio da Rossini a Čajkovskij conferma l’eccellenza della sua padronanza vocale. Anche il Tomskij di John Lundgren si distingue per la finezza interpretativa dell’aria in cui, raccontando della vecchia contessa, introduce quel tema delle «tre carte» che, ripetuto sempre tre volte, ritornerà come un’ossessione in tutta l’opera. Una gloria del teatro lirico inglese quale Felicity Palmer incarna una contessa decrepita e indimenticabile. La sua resa dell’aria «Je crains de lui parler la nuit», con quella voce flebile di chi ha il rimpianto di una vita dietro a sé, varrebbe da sola la serata. Pappano si conferma qui un meraviglioso accompagnatore. Ottimi gli interpreti degli altri ruoli e il coro del teatro, istruito da William Spaulding, in cui tutti hanno esibito notevoli doti sceniche oltre che vocali.

La dama di picche

Pëtr Il’ič Čajkovskij, La dama di picche

★★★☆☆

Salisburgo, Großes Festspielhaus, 16 agosto 2018

(streaming video)

Tre carte e la morte

Nel libretto de La dama di picche il fratello di Čajkovskij, Modest, aggiunge una storia d’amore che manca nella vicenda di Puškin. Nel racconto originale  Hermann, un giovane ufficiale del Genio, pur essendo estremamente attratto dal gioco d’azzardo, non osa praticarlo fino a che la sua lucidità non viene sconvolta dal racconto del suo commilitone Tomskij che gli riferisce dell’aneddoto riguardante il passato di sua nonna, una nobildonna ormai decrepita, un tempo giocatrice appassionata. Secondo il racconto di Tomskij la donna sarebbe in possesso del segreto per vincere al gioco, segreto che custodisce gelosamente. La storia della vecchia contessa impressiona profondamente Hermann, che da quel momento sarà ossessionato dal desiderio di conoscere il segreto. Seducendone la giovane dama di compagnia, riesce ad introdursi nella stanza della contessa, e la implora di svelargli le tre carte. Terribilmente spaventata, la contessa muore sul colpo, lasciando Hermann senza risposta e in preda all’ossessione. Dopo aver assistito al funerale dell’anziana donna, Hermann rincasa e cade in un sonno profondo dal quale si sveglia bruscamente. Un rumore gli annuncia l’ingresso di qualcuno che si rivela essere il fantasma della contessa la quale promette ad Hermann di farlo vincere al gioco grazie a tre carte: il tre, il sette e l’asso. Quando Hermann ha finalmente occasione di giocare, le parole della contessa sembrano rivelarsi profetiche: il tre lo fa vincere e così il sette, ma come terza carta, invece dell’asso vincente, Hermann si ritrova una donna di picche nella quale crede di riconoscere il volto beffardo della contessa. La delusione porta Hermann alla follia.

La dama di compagnia della contessa qui ha un ruolo molto più importante nella trasposizione di Čajkovskij che debutta nel 1890 e che arriva dopo quella di Halévy (La dame de pique, 1850) e di von Suppé (Pique Dame, 1864). «Ben poco del testo puskiniano è rimasto nella versione dei fratelli Cajkovskij: nel racconto Hermann non è innamorato di Lisa, e finge di corteggiarla per poter avere accesso alla contessa; Lisa è la pupilla, non la nipote della contessa, e non si suicida bensì va sposa, al termine della vicenda, a un simpatico impiegato; nemmeno Hermann si suicida, ma finisce in manicomio e continua a borbottare ‘Tre, sette, asso; tre, sette, donna’. Puskin non ha scritto una vicenda di passione e di morte, come risulta essere l’opera cajkovskiana, ma l’inquietante storia di un’ossessione, di un’idea fissa. Al centro dell’opera di Cajkovskij c’è invece la travolgente passione di Hermann per Lisa, che diventa appunto la nipote della contessa ed è felicemente fidanzata con il principe Yeletskij, personaggio nuovo, assente nel racconto. Hermann diventa così ‘l’uomo del destino’ sia per Lisa che viene travolta dalla sua passione sia per la contessa, che sente in lui, nel suo sguardo di fuoco, una volontà malefica e distruttiva». (Fausto Malcovati)

Oltre ai grandi motivi conduttori dell’opera (le tre carte, l’amore e il destino), molte sono nella partitura le affinità musicali con le ultime sinfonie, la Quinta e la Sesta. Ci sono poi espliciti imprestiti e richiami: «a Carmen (opera amatissima da Cajkovskij) si rifanno il coro dei bambini-soldati della prima scena e l’ultima aria di Hermann nel terzo atto. Una serie di citazioni è tutta la scena del ballo: qualche eco mozartiana (dal Quintetto in do minore KV 406) nel duetto dei pastori, mentre il tema del minuetto viene da un coro del Figlio rivale di Bortnjanskij; l’arrivo dell’imperatrice è accompagnato dall’inno ‘Tuoni di vittoria’ di Kozlovskij, scritto nel 1791 per una vittoria militare di Caterina. Anche nell’aria della contessa c’è una celebre citazione: “Je crains de lui parler la nuit” proviene dal Richard coeur-de-Lion di Grétry». (Fausto Malcovati)

La musica de La dama di picche trova nel lèttone Mariss Jansons l’interprete ideale: la morbidezza dei violini, la dolcezza dei legni, i motivi appassionati sostenuti da viole e violoncelli rifulgono di sensualità con l’orchestra dei Wiener Philharmoniker qui a Salisburgo. Ed è l’incomparabile esecuzione musicale a dare unità di senso a quest’opera frammentata in molti quadri.

I momenti della messa in scena del 77enne Hans Neuenfels si susseguono con più o meno efficacia, essendo due i più convincenti: la morte di Lisa che strappa la sua ombra e crolla a terra, e quella di Hermann che viene letteralmente inghiottito dal tavolo verde. L’ingresso della zarina, raffigurata da uno scheletro dalle braccia allungate, e la camminata di Hermann per le strade di San Pietroburgo mentre sullo sfondo vengono proiettate facciate di case in movimento non sono idee proprio originali e neppure l’uso continuo di diversi nastri scorrevoli per far entrare coristi e mobili. Il nero-grigio delle scenografie di Christian Schmidt lascia spazio al bianco abbagliante della stanza della contessa – che anche in punto di morte non disdegnerebbe le attenzioni del giovane che le chiede insistentemente delle tre carte – e alla cornice dorata dell’intermezzo pastorale. Ma sono gli stravaganti e continui cambi di costumi, disegnati da Reinhard von der Thannen, a rendere la produzione visualmente stravagante e oltremodo costosa.

Chi non cambia mai d’abito è Hermann, qui Brandon Jovanovich in uniforme rossa eternamente sbottonata sul petto villoso a dispetto delle intemperie baltiche che inducono i suoi commilitoni a indossare enormi pellicce nere. Il tenore americano ha una vocalità generosa, spesso spinge con forza negli acuti che alterna a mezze voci ben gestite, ma è la presenza scenica spesso sopra le righe a portare presto alla noia: smorfie e barcollamenti, rotolamenti per terra e gesti inconsulti non portano ad immedesimarci con lui e a commuoverci al suo dramma.

Più contenuta, al limite della freddezza, la prestazione di Evgenia Muraveva, Lisa vocalmente di gran classe. Più sanguigna la Polina del mezzosoprano Oksana Volkova. Il ruolo della Contessa, generalmente appaltato a glorie in fine carriera, è affidato qui alla 75enne Hanna Schwarz il cui flebile tono ha spinto sul patetico la sua prestazione. Sicuri ed efficaci i baritoni Igor Golovatenko (Yeletskij) e Vladislav Sulimskij (Tomskij) così come gli altri interpreti nelle parti secondarie.

 

Boris Godunov

Modest Petrovič Musorgskij, Boris Godunov

★★★★★

Parigi, Opéra Bastille, 7 giugno 2018

(diretta streaming)

Boris messo a nudo

L’aveva già fatto, tra gli altri, Calixto Bieito cinque annni fa a Monaco di Baviera. Ma ora a Parigi Ivo von Hove è andato ancora oltre nella scarnificazione nella drammaturgia dell’opera di Musorgskij: come la musica della sua prima versione, anche in scena abbiamo una rappresentazione essenziale, quasi una lettura oratoriale, ma una lettura visivamente intensa come quella del Saul di Kosky o del Messiah di Guth, per citare il caso di due recenti oratorii händeliani che hanno trovato una loro dimensione teatrale. Le sette scene di cui è composto il Boris Godunov, lavoro sperimentale del 1869 in cui il compositore russo dimostra di volersi affrancare completamente dalla scuola operistica tedesca e italiana, vengono eseguite senza soluzione di continuità, stabilendo una fortissima tensione narrativa.

Molte le eccellenze di questa produzione. Per prima la conduzione di Vladimir Jurovskij, che dà una lettura lucidamente impressionante di una partitura tra le più sconvolgenti del teatro ottocentesco e nettamente proiettata verso l’avvenire, anticipando molti aspetti dell’opera del Novecento. Le preziosità orchestrali sono affrontate e risolte dal geniale direttore russo con una competenza e una sensibilità che lasciano senza parole. Le pause sono altrettanto cariche di tensione quanto le sonorità di questa opera senza arie, senza duetti, senza concertati, in cui il coro è personaggio quanto e come lo sono i singoli. Opera di dialoghi è stata definita, e l’unico pezzo musicale chiuso è costituito dalla “canzone” di Varlaam, così definita già nel dramma di Puškin.

La seconda eccellenza è quella di Il’dar Abdrazakov, che debutta nel ruolo titolare. Mai debutto poteva essere più fortunato: pochi sono gli interpreti non russi che hanno reso al meglio il personaggio dello zar consumato dal rimorso – recentemente si ricorda il Boris di Bryn Terfel con Pappano a Londra che aveva fatto dello zar una specie di Re Lear – ma qui l’immedesimazione diventa miracolosa per la famigliarità con la lingua e per la capacità interpretativa di un cantante che ogni volta vince la sfida che si impone. La parola russa in Abdrazakov è tutt’uno con la musica, la potenza sonora è sempre messa al servizio della verità del personaggio e la presenza scenica ineguagliabile.

Eccellenti si sono rivelati anche gli altri interpreti di un cast quasi completamente russo, molti nomi noti, altri meno. Sarebbe imperdonabile dimenticarne qualcuno poiché tutti indistintamente hanno contribuito all’esito del successo della serata: Evdokia Malevskaya (Fëdor), Ruzan Mantashyan (Ksenija), Alexandra Durseneva (nutrice), Maxim Paster (Šuiskij), Boris Pinkhasovič (Andrej Ščelkalov), Ain Anger (Pimen), Dmitrij Golovnin (Grigorij Otrepev), Evgenij Nikitin (Varlaam), Peter Bronder (Masail), Elena Manistina (ostessa), Vasilij Efimov (Innocente), Mikhail Timoshenko (Mitjucha), Maxim Mikhajlov (capo delle guardie), Luca Sannai (un boiardo).

Una menzione a parte merita il coro del teatro che ha dimostrato una volta di più non solo una eccellente qualità vocale, ma anche una capacità attoriale senza pari. Ma su questo ritorneremo.

Le scene e le luci di Jan Versweyeld assecondano la lettura del regista Ivo von Hove che si focalizza sulla figura dello zar Boris. L’allestimento contemporaneo mette in evidenza la modernità della vicenda: il potere ottenuto con ogni mezzo, anche per buone intenzioni, ma che alla fine si rivolta contro. Non sono però migliori quelli che il potere lo sostengono per fini politici o personali, talora abietti.

La scenografia non potrebbe essere più essenziale: una scala rossa sale dal basso e si perde in alto per significare la scalata al potere. Boris vi sale con fatica, neanche fosse la scala di un patibolo in cui espiare la sua colpa. Tre pareti racchiudono l’ambiente e su di esse si proiettano le immagini del coro in scena per farlo diventare popolo, o particolari espressivi di volti, o l’uccisione dello zarevič che sta ad antecedente della vicenda.

Molte volte ci si è lamentati delle regie video che insistono impietosamente sui primi piani dei cantanti, ma la ripresa di Don Kent qui è funzionale alla drammatica psicologia dei personaggi e i primissimi piani, il taglio delle inquadrature formano uno spettacolo visivo che ha una qualità estetica propria e che dà allo spettacolo una dimensione inedita negata a chi se lo gode in teatro dal vivo. La macchina da presa ravvicinata esalta le espressioni più minute dei volti, qui tutti attori straordinari sia gli interpreti principali, sia quelli secondari, sia i membri del coro che si ritagliano, ognuno e personalmente, un ruolo magnificamente recitato. Enorme merito della regia contemporanea e della sua captazione video è infatti proprio quello di aver reso consapevole della sua attorialità ogni personaggio in scena. Questo è il teatro, oggi.

Un tempestivo e autorevole resoconto di chi era presente all’Opéra Bastille è questo di Stéphane Lelièvre.


fotografie © Agathe Poupeney

Mazepa

★★★☆☆

Una strana coppia

Anche Mazepa (Мазепа) si basa su un lavoro di Puškin, il poema Poltava. Il libretto è di Viktor Petrovič Burenin e la composizione iniziò nel 1881. Settima opera di Pëtr Il’ič Čajkovskij, fu presentata nel febbraio 1884 a Mosca.

Sul guerriero cosacco Mazepa – che nel 1696 combatté con lo zar Pietro contro i Turchi, ma che in seguito contro di lui si alleò col sovrano svedese Carlo XII e fu sconfitto nella battaglia della Poltava – sono state scritte molte pagine letterarie (Byron, Hugo, e appunto Puškin) e di musica, la più famosa essendo il poema sinfonico Mazeppa di Liszt. Mentre in Liszt predomina l’eroe romantico legato nudo su uno stallone che percorre tutta l’Ucraina prima di stramazzare al suolo, in Puškin, e quindi in Čajkovskij, si ha invece un vecchio ambizioso e traditore che fa innamorare di sé la giovane Marija e le tortura e uccide il padre. Due compositori italiani, Fabio Campana e Carlo Pedrotti, gli intitolarono opere liriche, rispettivamente nel 1850 e nel 1861.

L’azione ha luogo in Ucraina all’inizio del XVIII secolo. Atto I. Scena prima. La residenza di Kočubej sulle rive del Dnepr. Un gruppo di ragazze canta e getta nel fiume ghirlande di fiori. Arriva Marija e le ragazze le chiedono di unirsi a loro, ma lei non può rimanere perché a casa ci sono ospiti: è arrivato l’Atamano Ivan Mazepa. Il suo amico d’infanzia Andrej le rivela di essere da sempre innamorato di lei e Marija risponde che vorrebbe poterlo amare a sua volta, ma il destino non lo permette. Andrej corre via disperato. Vasil’ Kočubej e Ljubov’, i genitori di Marija, arrivano con i loro ospiti: subito iniziano canti e balli. Mazepa chiede all’incredulo Kočubej la mano della figlia: Mazepa, oltre a essere molto vecchio, è anche padrino di Marija e la chiesa ortodossa non permetterebbe le nozze. Mazepa insiste e la situazione inizia a degenerare in uno scontro fino a che Marija si mette in mezzo ai due e, tra la sorpresa generale, decide di seguire Mazepa, di cui è innamorata. Scena seconda. Una stanza in casa di Kočubej. Ljubov’ piange la perdita della figlia, le donne di casa tentano invano di consolarla. Lei le manda via e chiede a Kočubej di convincere i cosacchi a far guerra a Mazepa, ma egli ha un piano migliore: mentre erano ancora amici, Mazepa gli aveva accennato alla sua idea di stipulare un’alleanza con gli Svedesi per liberare l’Ucraina dal dominio di Pietro il Grande. D’accordo con Iskra, amico fidato di Kočubej, Andrej viene pertanto incaricato di portare allo zar il messaggio dell’imminente tradimento di Mazepa. Atto II. Scena prima.  Una segreta del castello di Mazepa, di notte. Il piano non è riuscito: Pietro il Grande non ha creduto alla delazione e ha consegnato Kočubej a Mazepa. Sotto tortura, Kočubej ha reso una falsa confessione, incolpandosi di tutto ciò di cui veniva accusato. Arriva Orlik, uomo di fiducia di Mazepa: vuole sapere dove Kočubej ha nascosto i suoi tesori. Egli risponde di mandare Marija, che mostrerà loro ogni cosa, e di lasciarlo pregare prima dell’esecuzione, ma ciò non basta a Orlik, e la tortura ricomincia. Scena seconda. Una terrazza del castello di Mazepa, quella stessa notte. Mazepa pensa al terribile colpo che riceverà Marija quando saprà che cosa egli ha fatto al padre. Arriva Orlik: Kočubej non ha rivelato niente. L’esecuzione è fissata per l’alba e Mazepa manda Orlik a fare i preparativi. Arriva Marija che è scura in volto: perché Mazepa ultimamente passa così tanto tempo lontano da lei? Mazepa tenta di calmarla e dopo un po’ ci riesce. Le rivela i suoi piani per ottenere l’indipendenza dell’Ucraina, in modo che egli diventerà re e Marija regina. La mette poi alla prova su suo padre, chiedendole se tenga di più a suo marito o alla sua famiglia. Marija gli risponde dicendo che ha già lasciato tutto per lui ed egli, rassicurato, se ne va. Arriva Ljubov’, che supplica la figlia di intercedere presso Mazepa per salvare Kočubej. La ragazza, ignara di tutto, ha bisogno di un po’ di tempo per capire cosa sta succedendo, poi, inorridita, sviene. Ljubov’ la fa rinvenire e le due corrono via nell’estremo tentativo di supplicare Mazepa affinché risparmi la vita a Kočubej. Scena terza. Presso i bastioni della città. I poveri della città si radunano per assistere al supplizio. Un cosacco ubriaco canta una canzone. Arrivano Mazepa e Orlik, mentre Kočubej e Iskra sono condotti al patibolo. Marija e Ljubov’ giungono proprio nel momento in cui i due vengono decapitati. Ljubov’ respinge Marija, che scoppia in lacrime. Atto III. Le rovine della dimora di Kočubej, nei pressi del campo di battaglia. La battaglia di Poltava è finita, Pietro ha sconfitto Mazepa e gli Svedesi. Andrej ha preso parte alla lotta, ma non è riuscito a trovare Mazepa. Mentre vaga sopraggiungono dei cavalieri e si nasconde. Mazepa e Orlik sono in fuga: l’Atamano, un tempo potente, ha perso tutto. Mazepa manda Orlik a preparare il campo e Andrej esce allo scoperto e lo sfida: lo carica con la spada sguainata, ma Mazepa gli spara. Arriva Marija, completamente impazzita. Non riconosce Mazepa, che cerca di confortarla. Orlik torna avvertendo che le truppe si stanno avvicinando: Mazepa vorrebbe portare con sé Marija, ma Orlik si oppone, in quanto li rallenterebbe troppo. Mazepa a malincuore lascia Marija. Marija trova Andrej coperto di sangue. Il giovane si muove ancora e le chiede di guardarlo per l’ultima volta, ma lei non capisce e gli canta una ninna nanna, credendolo un bambino. Andrej muore mentre Marija continua a cullarlo e a cantare persa nel vuoto.

«Occorsero due anni a Čajkovskij per scrivere un’opera che, confesserà, “mi è costata molta fatica” e che venne accolta con freddezza dal pubblico e dalla critica. Il modello che qui si tenta di seguire è quello del grand opéra, ambientato in una Russia epica e arricchito da frequenti citazioni di temi popolari e ballate; ma il risultato rivela spesso una certa discontinuità drammatica. Per lo più esteriore rimane il tentativo di descrivere in musica il colore locale. Il preludio strumentale al terzo atto va ricordato perché raffigura la battaglia di Poltava, utilizzando un tema della tradizione russa (Slava Bogu na nebe, Slava) già usato da Beethoven nel trio dello scherzo-allegretto del quartetto opera 59 n° 2 in mi minore (“Razumovskij”), da Musorgskij nel quadro dell’incoronazione di Boris, nonché da Rimskij-Korsakov ne La fidanzata dello Zar. In certa misura convenzionali le scene della processione e della decapitazione, nelle quali il punto di riferimento è il Meyerbeer del Prophète. Ancora una volta – il modello di Tatiana nell’Eugenio Onegin insegna – il personaggio più riuscito è quello di Marija, lacerata tra l’amore paterno e quello per Mazepa, la cui individualità spicca soprattutto nella toccante scena finale nella quale l’autore le affida una delicata berceuse». (Susanna Franchi)

Della meritoria opera di Valerij Gergiev di recupero del repertorio russo al di fuori del suo paese fa parte questa registrazione video dello spettacolo al Mariinskij di San Pietroburgo del 1996. Mentre il direttore trae dall’orchestra i colori più sfumati ed evidenzia della partitura gli aspetti più “decadenti”, ossia moderni, in scena regista (Irina Molostova) e cantanti sembrano maggiormente legati a uno stile di canto di tradizione con una presenza scenica da realismo popolare russo, soprattutto per la Marija di Irina Loskutova, dalla figura troppo matronale per essere l’ingenua adolescente che si infatua di un “vecchio”. Vocalmente poi l’emissione è dura e gli acuti non sempre intonati. Modesto l’Andrei di Viktor Lutsiuk e stentoreo il protagonista Nikolaj Putilin. Eccellenti invece Sergej Aleksaškin (Kočubej) e soprattutto Larisa Diadkova (Ljubov’).

Il cavaliere avaro

★★★★☆

Incubo misantropico sull’avidità

Molto intrigante il double bill presentato al Festival di Glyndebourne nel luglio 2004: separati da pochi anni per la composizione, ma distanti anni luce nello spirito, Il cavaliere avaro di Sergej Rachmaninov e Gianni Schicchi di Puccini si basano però entrambi sul tema dell’avidità e sulla morte. Nonostante le brevità, i due atti unici che formavano lo spettacolo sono presenti su due diversi DVD della Opus Arte.

Tratto dalle Piccole tragedie di Aleksandr Puškin (1), Il cavaliere avaro (Скупой рыцарь, Skupoj rycar’) fu presentato nel gennaio 1906 a Mosca assieme alla Francesca da Rimini dello stesso compositore: quella sera i padri della lingua russa e di quella italiana, Puškin e Dante, si trovarono assieme in due drammi psicologici di grande potenza.

Luogo dell’azione: Inghilterra medievale. Scena I: Albert è un giovane cavaliere dedito a giochi e divertimenti, e per questo è pieno di debiti. Suo padre, un Barone molto ricco e avaro, si rifiuta di dargli denaro per mantenere il suo stile di vita. Albert perciò cerca di ottenere soldi altrove: si rivolge ad un usuraio, che gli nega il prestito, ma gli offre un veleno per avvelenare il padre. Il giovane è atterrito dalla proposta e decide di chiedere aiuto al Duca. Scena II: Il Barone scende nei suoi sotterranei esultante, perché ha accumulato tanto oro da riempire il suo sesto forziere. Tuttavia, è colto dal pensiero che, se dovesse morire presto, suo figlio Albert potrebbe reclamare quella fortuna e sperperarla per i suoi piaceri. Scena III: Albert si è appellato al Duca perché lo aiuti ad ottenere denaro dal padre. Albert si nasconde, mentre il Duca convoca il Barone per un incontro in cui gli chiede di aiutare il figlio. Il Barone però accusa Albert di volerlo derubare. Albert allora rivela la sua presenza ed accusa il padre di mentire. Il Barone sfida allora il figlio a duello, e questi accetta. Il Duca rimprovera il Barone, e scaccia Albert dalla sua corte. Provato dagli eventi, il Barone ha un malore fatale: mentre sta morendo la sua ultima richiesta è di avere le chiavi dei suoi forzieri colmi d’oro.

Opera tutta al maschile e senza coro, doveva debuttare con Fëdor Šaljapin nella parte del protagonista, ma il grande basso si ritirò: la musica era troppo moderna per i suoi gusti e il ruolo troppo impegnativo. Infatti, secondo Vladimir Jurovskij, intervistato negli extra del disco, il ruolo titolare condensa in sé Wotan, Alberich e un po’ di Fafner, per restare in un campo dove l’avidità per l’oro è motore primario dell’azione.

Il libretto è basato parola su parola sul testo del poeta russo di cui utilizza poco più della metà: Rachmaninov non chiede l’aiuto di un librettista e nel suo taglio drammatico l’opera è di una grande modernità: la seconda scena è un monologo di oltre venti minuti in cui non succede nulla – Erwartung di Schönberg sarebbe arrivato tre anni dopo e il Barbablù di Bartók ancora più tardi – ma con un’orchestrazione lussureggiante che ha come modello Čajkovskij e le oscure sonorità del suo Mazeppa la cui partitura era ben conosciuta da Rachmaninov come si evince da una lettera da lui scritta in quegli anni.

Nella regia di Annabel Arden l’avidità è impersonata da una acrobata, una specie di essere che abita le oscurità delle cantine che celano il tesoro del barone. Ma tutto oscuro è il mondo del Cavaliere avaro, e la regista risolve efficacemente i problemi posti dalla messa in scena di un’opera che sembrerebbe più adatta all’esecuzione in forma di concerto. Lo spettacolo di Glyndebourne ci fa ammirare un pezzo di teatro del Novecento che sarebbe un peccato non conoscere. Grande merito va agli interperti: Vladimir Jurovskij è la persona più adatta a sottolineare le raffinatezze orchestrali e i toni drammatici di questo lavoro esaltati dagli strumentisti della London Philharmonic Orchestra. I cinque cantanti portano, ognuno a modo suo, a un livello eccellente l’interpretazione dei cinque personaggi molto ben delineati dal compositore. Sergej Leiferkus nel ruolo titolare non si risparmia vocalmente e scenicamente lascia un’impronta difficile da dimenticare; Richard Berkeley-Steele si dimostra a suo agio nella tessitura del figlio Albert; Albert Schagidullin definisce in poche battute il gelido Duca; Viacheslav Voynarovskiy, l’usuraio, e Maksim Michajlov, il servo, completano questo cast tutto al maschile. L’inquietante acrobata è l’unica presenza se non femminile, per lo meno non maschile in scena e compensa con una efficace espressività facciale l’essere muta.

(1) Dalla stessa raccolta di microdrammi in versi provengono il Mozart e Salieri di Rimskij-Korsakov, Il banchetto durante la peste di Cezar Kjui e Il Convitato di pietra di Aleksandr Dargomyžskij.

Evgenij Onegin

Pëtr Il’ič Čajkovskij, Evgenij Onegin

★★★★☆

New York, Metropolitan Opera House, 26 aprile 2017

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Trionfo americano per Anna Netrebko

Il Metropolitan riprende il fortunato allestimento con la stessa Tat’jana, Anna Netrebko. Il previsto Dmitrij Hvorostovskij ha dovuto rinunciare per le avverse condizioni di salute che conosciamo e al suo posto si avvicendano due illustri voci baritonali del momento ossia Mariusz Kwiecień e Peter Mattei. Nella recita trasmessa live il 26 aprile il ruolo titolare è stato sostenuto dal cantante svedese dal timbro sontuoso ed elegante. Mattei ha privilegiato il lato cinico del personaggio di Onegin, che solo alla fine esplode nello slancio passionale, mancando però nella sua lettura l’insinuante e più sfacciata personalità di Kwiecień.

Bella performance è quella di Alexey Dolgov, un Lenskij efficace che rende credibile la sua sofferta gelosia che lo porta alla morte nel duello. Altrettanto eccellente è il terzo interprete maschile, Štefan Kocán principe Gremin. Il terzetto femminile è sostenuto da tre grandi cantanti russe: Elena Maximova, vivace Olga, un’ex Olga come Elena Zaremba (Larina) e soprattutto Larisa Diadkova, intensa Filipp’evna.

Di Anna Netrebko, fatta segno di un tripudio di ovazioni da parte del pubblico del teatro, non si può che confermare l’impressione avuta già nella precedente produzione: tre anni dopo la maturità vocale è ancora più stupefacente, l’immedesimazione col personaggio totale. La sua evoluzione da fanciulla sprovveduta e sognante a principessa piena di dignità che riesce a nascondere la passione giovanile che cova ancora in petto trova nel soprano russo un percorso perfettamente realizzato.

La regia di Deborah Warner non intralcia questo progetto che viene illustrato con mezzi tradizionali ma efficaci grazie anche alle scenografie di Tom Pye ben diversificate nei quattro ambienti in cui si svolge la vicenda posticipata in epoca čekoviana.

Altra star della serata si è dimostrato il giovane Robin Ticciati, la cui direzione appassionata ma precisa e sempre rispettosa dei cantanti è stata particolarmente apprezzata.

Il gallo d’oro

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Nikolaj Rimskij-Korsakov, Il gallo d’oro

★★★★☆

Bruxelles, Palais de la Monnaie, 23 dicembre 2016

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Pelly vira in nero la fiaba musicata da Rimskij-Korsakov

Se si guarda la data c’è da restare strabiliati: nel 1909, quando Il gallo d’oro debutta a Mosca, un anno dopo la morte di Rimskij-Korsakov, regnava ancora lo zar Nicola II Romanov. Questa durissima satira politica travestita da fiaba prendeva di mira un regime autocratico che aveva represso nel sangue i tumulti del 1905 e che nel 1913 avrebbe celebrato i trecento anni della sua dinastia – prima di collassare definitivamente poco dopo, come si sa. Sulle vicende di quest’ultima opera del compositore russo si può leggere la recensione del DVD in cui viene ampiamente citato quanto sapientemente scritto al proposito da Franco Pulcini, musicologo esperto dell’opera slava.

La musica del Il gallo d’oro non fa che confermare la strabiliante maestria orchestrale del compositore russo: i colori cangianti, la voluttà delle invenzioni melodiche, l’armonia e i ritmi inafferrabili, i toni popolari e i cromatismi wagneriani. Qui tutto è reso con amore e competenza dal direttore Alain Antinoglu che tra il secondo e il terzo atto si trasforma in pianista e assieme al primo violino dell’orchestra, Saténik Khourdoian, offre un delizioso entracte musicale: la Fantasia sul Gallo d’oro di Efrem Zimbalist & Fritz Kreisler, pezzo in cui rifulge ancor più la purissima linea melodica della fascinosa aria della regina di Šemacha, qui una seducente Venera Gimadieva. Pavlo Hunka è l’oblomoviano zar Dodon, Alexander Kravets sfoggia il registro acutissimo dell’astrologo mentre gli altri interpreti, anche loro quasi tutti di lingua russa, e l’eccellente coro, personaggio principale dell’ultimo atto, portano alla buona riuscita uno spettacolo che sarà ripreso a Nancy e a Madrid.

Nella messa in scena qui al Palais de la Monnaie di Bruxelles, Pelly fa assistere al pubblico «la follia senile di un despota imbecille che assomiglia a tutti gli uomini». Non c’è nessuna fantasia orientale nella lettura di di Pelly (1): la sua è una fiaba in nero, presaga dei guai che apporterà il nuovo secolo XX. Un sogno (la parola più ripetuta nel testo) o meglio un incubo ben sostenuto dall’impianto scenografico di Barbara de Limburg – uno scenario definito «brutal, absurde et rêveur» dallo stesso regista. Il suolo è formato da una spianata di carbone che tinge dal basso i candidi costumi dei nobili, essendo quelli del popolo e dei soldati già neri per sé. Uniche concessioni al colore sono il rosso del pappagallo e il giallo oro del gallo, gli unici esseri viventi estranei alla vicenda umana, a parte il nero esercito di scimmie della regina. L’inetto zar Dodon, sempre in pigiama, non si separa mai dal letto troneggiante in scena salvo che per partire controvoglia per la guerra su un ronzino quale novello Don Chisciotte, mentre un vecchio termosifone funge da posatoio per il gallo. Nel secondo atto una struttura conica è la tenda della regina di Šemacha, certo ben lontana dalla «tenda di broccato ricoperta di ricami variopinti» del libretto, ma comunque con un che di onirico. Nel terzo atto il fondo della scena è la gigantografia di una folla che moltiplica quella inginocchiata ai lati del letto imperiale, ora montato su cingoli da carro armato. L’immagine è di chiara lettura: la sottomissione servile di un popolo (2) a un tiranno la cui autorità ha salde basi militari. L’ultima immagine dell’epilogo ci mostra il gallo che zampetta indifferente su un terreno cosparso di cadaveri. Un finale tragico che non stona con lo humour nero della fiaba rappresentata fino a quel momento in cui gli aspetti comici hanno preso sempre più intenzioni politiche.

(1) «Comincia davanti al Palazzo un corteo trionfale. Dapprima, a piedi, a cavallo, in carri, i soldati del re, con facce gonfie di sussiego, quindi il seguito della regina di Šemacha variopinto e bizzarro, come uscito da una fiaba orientale. Ci sono nani e giganti; uomini con un solo occhio in mezzo alla fronte, con le corna, con la testa di cane; arabi e arabetti; schiave velate che recano scrigni e suppellettili preziose. Il curioso splendore del corteo disperde per un po’ la pesante attesa. Tutti si divertono come bambini» recitano le didascalie del libretto del terzo atto.

(2) «Noi siamo vostri, corpo ed anima. Se veniamo battuti, è perché ce lo meritiamo […] Noi siamo felici di servirti, di fare i pagliacci per divertirti nei giorni di festa, di abbaiare, di strisciare a quattro zampe, e di prenderci a pugni per farti passare giorni felici e dormire un sonno placido […] Che cosa ci riserva il giorno che verrà? Come faremo senza lo zar?» canta il coro.

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Boris Godunov

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Modest Petrovič Musorgskij, Boris Godunov

★★★★★

Londra, Royal Opera House, 21 marzo 2016

(live streaming)

Il Lear Godunov di Terfel

A cinquant’anni il basso-baritono gallese Bryn Terfel si è sentito pronto per il ruolo di Boris Godunov, una delle figure più grandi del teatro di tutti i tempi. Nella sua interpretazione lo zar che ha fatto uccidere il giovane pretendente al trono assurge a personaggio scespiriano, come Lear tormentato da un rimorso che lo porta alla morte o come un Macbeth senza lady. Nella regia di Richard Jones il momento dell’assassinio che ossessiona la mente di Boris è iterato ben sei volte nella lunetta soffusa di luce dorata che forma la parte superiore della scenografia di Miriam Bluether: in alto l’appartamento dello zar, in basso la piazza con il popolo cencioso, uno spazio scuro con campane scolpite alle pareti e icone che rappresentano lo zar. Sempre presente fin dal sipario l’immagine della trottola insanguinata del piccolo zarevič assassinato.

La prima versione del Boris Godunov del 1869 possiede una struttura narrativa concentrata e una saldezza teatrale straordinaria che pongono al centro del racconto l’ascesa e la disintegrazione mentale di Boris, piuttosto che l’epica nazionale russa. La seconda versione si arricchirà di scene e interventi per personaggi che qui sono ridotti all’osso, senza un grande carattere femminile, e con un taglio di una modernità sorprendente che pone il lavoro di Musorgskij in anticipo di quasi cinquant’anni. La sua musica qui è fatta di grandi blocchi accordali asciutti e grezzi, quasi clusters sonori – quelli che Rimskij-Korsakov cercherà di levigare, accordare nella sua orchestrazione. Pappano evidenzia ogni timbro di questa versione con un’unità di lettura perfetta e un’adesione mirabile al canto degli interpreti in scena.

Come nella versione di Kent Nagano a Monaco anche qui le sette scene sono eseguite senza intervallo, ma Richard Jones non attualizza costumi e scenografie, bensì scava nella psicologia dei personaggi che vengono ripresi con intensissimi primi piani dalle luci quasi cinematografiche di Mimi Jordan Sherin e dal regista video Jonathan Haswell.

Capace di tutte le sfumature dinamiche estreme, dal sussurro al ruggito, Bryn Terfel è per la prima volta nel ruolo e in lingua russa. Non ho la competenza per giudicare se la pronuncia è corretta, ma ogni parola è scolpita e significante nel lavoro del cantante, quanto mai distante dagli esempi del passato, ma modernamente efficace grazie anche al suo timbro più chiaro rispetto agli storici Christoff e Ghiaurov che l’hanno preceduto nel ruolo.

Il cast è formato prevalentemente da interpreti inglesi di altissimo livello: dalla subdola figura del principe Šujskij di John Graham-Hall, alla sanguigna figura di Varlaam di John Tomlinson (veterano del ruolo di Boris qui alla ROH), al Grigorij di David Butt Philip, al santo folle di Andrew Tortise e al bravissimo giovane Ben Knight nella parte di Fëdor, generalmente affidata a un mezzosoprano. Estone è invece il Pimen del basso Ain Anger e lituano lo Ščelkalov di Kostas Smoriginas. Sorprendente il coro qui impegnato in pagine ardue e in una lingua ostica.

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La locandina dello spettacolo

Il gallo d’oro

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★★★☆☆

La favola ultima di Rimskij-Korsakov

«Insieme alla stesura delle memorie, Rimskij fece ancora in tempo a scrivere il suo testamento operistico, composto soprattutto nel biennio 1906-07 a un anno dalla morte. I tempi erano molto cambiati nella Pietroburgo di quegli anni, soprattutto dopo la sconfitta subita dalla Russia da parte del Giappone e dopo la rivoluzione del 1905, repressa dal potere nel sangue. Sono tempi difficili per Rimskij, sospettato dalla polizia zarista di collaborazionismo rivoluzionario. Puškin aveva scritto in versi una Storia del galletto d’oro (1) nel 1834, per criticare l’indolenza degli zar di allora, ma la parodia è efficace anche nel 1906. La fiaba del tirannico zar Dodon, che pretende di regnare dormendo, diviene molto allusiva: il paese era appena andato incontro alla distruzione della flotta e dell’esercito durante la guerra russo-giapponese. La rappresentazione dell’opera sollevò un clamoroso caso di censura: gli addetti volevano far tagliare numerose parti, ma l’autore si oppose e fece preparare una produzione francese per far eseguire l’opera a Parigi. Non tutto venne appianato e Il gallo d’oro divenne, prima ancora di essere eseguita, un simbolo della rivolta antizarista. Rimskij, innervositosi per le incertezze e l’atmosfera minacciosa, fu colpito da un attacco di angina pectoris, del quale morì senza veder rappresentata la sua ultima fatica operistica: un’inquietante fiaba malefica.» (Franco Pulcini)

Su libretto di Vladimir Ivanovič Bel’skij (lo stesso de La leggenda della città invisibile di Kitež), l’opera andò in scena il 7 ottobre 1909 al teatro Solodovnikov e il 6 novembre al Bol’šoj.

Prologo. Un astrologo annuncia al pubblico che sta per essere rappresentata una favola di fantasia, ma con una sua morale valida e attuale.
Atto I. Lo zar Dodon non riesce a dormire per i problemi che affliggono il suo regno. I figli e i consiglieri non sanno che dare suggerimenti insensati, finché l’astrologo si presenta con un gallo d’oro che segnala i pericoli. Lo zar potrà finalmente dormire tranquillo e riconoscente promette all’astrologo tutto quello che desidererà. Ben presto il sonno dell zar è interrotto dal chiccirichì del pennuto. Ad affrontare i nemici lo zar stesso si mette a capo dell’esercito.
Atto II. Tra le sventure della guerra lo zar scopre la morte dei suoi figli che si sono dati la morte a vicenda. Da una tenda appare la bellissima regina di Šemacha che seduce facilmente Dodon.
Atto III. La processione dell’ingresso dello zar e della promessa sposa è interrotta dall’astrologo che chiede come ricompensa la donna stessa. Lo zar rifiuta e lo colpisce. Il gallo d’oro fedele al suo padrone becca lo zar alla gola. Il cielo si oscura e il gallo e la regina scompaiono.
Epilogo. L’astrologo risuscitato torna in scena ricordando al pubblico che quello cui hanno assistito è solo illusione.

«Il gallo d’oro è dunque una satira politica del regime autocratico, svolta con sottile demonismo burlesco: il feticcio iettatorio e vendicativo del galletto crea infatti un clima infido, molto distante dal mondo dei balocchi infantili tipico dello Zar Saltan, precedente fiaba puškiniana. La ferocia della satira è resa acuminata dalla musica sottoposta a questa rissosa schermaglia fra marionette crudeli. In piena polemica antisentimentale, questi personaggi stilizzati cantano con forte tecnicismo strumentale: la freddezza del canto si coglie in quella bambola meccanica che è la regina di Šemacha, il cui orientalismo astratto esprime mirabilmente gli aspetti seducenti della malvagità femminile. Il libretto, di asciutto rigore ritmico, viene sorretto da uno stile musicale altrettanto pungente; l’orchestra è capace di durezze ben poco fiabesche, che già annunciano l’avvento dei grandi allievi di Rimskij destinati a maggior gloria: Stravinskij e Prokof’ev. Il gallo d’oro è pertanto opera di transizione fra il vecchio e il nuovo, nonché punto di arrivo in termini di modernità per un autore che si dimostra conservatore a parole e innovatore nella pratica.» (Franco Pulcini)

Nel 2002 molto tempo è passato dal debutto a Mosca e allo Châtelet di Parigi l’opera viene messa in scena da un giapponese, Ennosuke Ichikawa III, attore di teatro kabuki. E di origini giapponesi è pure il maestro concertatore, Kent Nagano. Questa produzione è stata creata nel 1984, a settant’anni dalla prima parigina dei Ballets Russes dove, con le scene di Alexandre Benois, l’azione era mimata da dei ballerini mentre i cantanti stavano fermi ai lati della scena.

Qui invece con i ricchissimi costumi di Tomio Mohri e la nuda scenografia di Setsu Asakura, la lettura atemporale e straniante voluta dal regista giapponese è pienamente convincente essendo la storia dell’inettitudine dei potenti sempre attuale: Puškin pensava agli zar del suo tempo (1834), Rimskij a Nicola II e alla sua pessima gestione del conflitto russo-giapponese, ma esempi di altre epoche e paesi non mancherebbero.

L’atmosfera da film di Kurosawa non stona con la musica così piena di echi orientaleggianti sia in orchestra sia nelle voci. L’impervio ruolo della regina di Šemacha richiede una tessitura tesa e molto alta, piena di melismi e vocalizzi. Olga Trifonova ha una bella voce, ma sforza negli acuti ed evita il mi del finale d’atto secondo. Cosa che non fa invece l’astrologo di Barry Banks: tutte le note sono rispettate e quelle più alte sono prese con sicurezza da questo eccellente cantante che dimostra potenza e facilità negli acuti. Molto bravi anche gli altri interpreti, compreso il gallo del titolo affidato a Yuri Maria Saenz. Kent Nagano alla guida dell’Orchestre de Paris mette magistralmente in luce i colori talora lividi della sontuosa partitura.

Nessun extra nei DVD, ma sottotitoli in italiano.

(1) Il titolo originale infatti, Золотой петушок (Zolotoj petušok), si riferisce a un galletto (петушок) non a un gallo (петух).