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In scena un Messiah molto umano
Händel ha scritto 42 opere e 26 oratorii i quali hanno una tale teatralità (1) che da tempo vengono spesso presentati in forma scenica. Dopo la Theodora di Sellars, la Semele di Carsen, lo Hercules di Bondy, anche il popolare Messiah nel 2009 viene portato da Claus Guth sul palcoscenico del Theater an der Wien in occasione dei 250 anni della morte del compositore di Halle.
Oratorio sacro su testo di Charles Jennes tratto dalla Bibbia, il Messiah fu eseguito la prima volta il 13 aprile 1742 a Dublino e un anno dopo a Londra. Scritto inizialmente per risorse ridotte, fu nel tempo adattato a mezzi più cospicui con un grande coro e orchestra amplificata – Mozart fu tra gli autori di queste revisioni e adattamenti. Solo in tempi recenti si è ritornati a una versione più fedele alle intenzioni dell’autore.
La struttura in tre parti dell’oratorio ricalca quella delle sue opere in tre atti suddivisi in scene che contengono recitativi, arie, duetti e cori. Nella prima parte la venuta del messia è predetta dai profeti del Vecchio Testamento mentre l’annunciazione della nascita di Cristo è nelle parole del Vangelo di Luca. La seconda parte tratta della passione, morte, resurrezione e ascensione di Cristo e della diffusione del Vangelo. Nella terza c’è la promessa della redenzione e del giudizio finale con la vittoria sul peccato e la morte.
La produzione viennese è tutt’altro che festosa ed è ben lontana dal kitsch natalizio di molte esecuzioni (2). Guth trasforma il lavoro di Händel in una vicenda moderna in cui tutti i personaggi sperimentano una crisi esistenziale. L’oratorio viene dal regista suddiviso in ‘funerale’ («Comfort ye, comfort ye my people») e ‘flashback’, diviso a sua volta in ‘battesimo’ («For unto us a Child is born»), ‘una vita di sofferenza’ («Behold the lamb of God, that taketh away the Sin of the Worl.»), ‘solitudine, solidarietà, morte’ («Thy Rebuke hath broken his Heart») e ‘dopo il funerale’ («I know that my Redeemer liveth»). Il protagonista, ai cui funerali assistiamo all’inizio e attorno al quale ruota il dramma, non ha voce ed è interpretato da un ballerino, come muta è l’artista segnante che usa il linguaggio dei segni per commentare, forse, a modo suo e in un’astratta danza del corpo quanto avviene in scena. I suoi segni sono in certo modo ripresi e amplificati dalla gestualità del coro.
Ma cosa vedrebbe uno spettatore che non sente la musica?
Vedrebbe che si inizia con il funerale di un uomo. Tra i partecipanti in lutto c’è la moglie, il figlio, altri parenti. Uno di questi in preda all’agitazione apre la cassa e solleva il braccio del morto il cui polso è percorso da una ferita. Da ciò capiamo che si è suicidato. C’è anche un prete che sembra in lotta coi suoi demoni. Segue un flashback con il battesimo del figlio e la frustrazione dell’uomo d’affari in un momento di fallimento professionale. Il rapporto matrimoniale entra in crisi e mentre in una stanza l’uomo si uccide, in un’altra la moglie lo tradisce col cognato (o un amico?) per poi portarne il peso della colpa. La famiglia cercherà di ricomporsi al funerale, ma non è certo ci riesca.
La scenografia di Christian Schmidt rappresenta quello che sembra un albergo di cui vedremo, ruotanti su una piattaforma, i corridoi, alcune stanze, un ufficio e una cappella funeraria. Tante porte, ma nessuna finestra. L’ambientazione ha un che di inquietante e claustrofobico con i rapporti tra i personaggi sempre molto tesi. I lunghi corridoi ricordano il film Shining – non manca infatti un bambino su un triciclo…
Anche se la drammaturgia che vediamo in scena non sembra servire il testo letteralmente, Guth affronta drammaticamente i temi della vita e della morte, delle passioni e dei rimorsi. È un tipo diverso di sacralità, quella che coinvolge il destino di ogni uomo.
La lettura del regista tedesco costringe ad ascoltare con un orecchio nuovo pezzi musicali che davamo per scontati. È il caso ad esempio dell’aria «I know that my redeemer liveth» cantata dal soprano come un atto di accusa della moglie tradita, o, sempre del soprano, «How beautiful are the feet» in cui l’oggetto sono proprio i piedi dell’amante. O ancora, l’aria del basso «Why do the nations so furiously rage together?» quando scopre il cadavere del suicida.
Superlativa la parte musicale con il magnifico coro Arnold Schönberg in una prova difficilissima e pienamente riuscita. Eccezionali gli interpreti sia per proprietà vocale sia per presenza scenica: i soprani Susan Gritton e Cornelia Horak, il tenore Richard Croft, il basso Florian Boesch e il controtenore Bejun Mehta, sempre perfettamente in stile eppure magnificamente espressivi.
A capo dell’Ensemble Matheus Jean-Christoph Spinosi mette da parte la concitazione nervosa di certe sue letture per adottare un passo che si adatta perfettamente alla rappresentazione scenica. Anche il famoso «Halleluja» che conclude la seconda parte ha un carattere estremamente rilassato e solenne. I tempi dilatati portano a oltre 150 minuti l’esecuzione del suo Messiah (a confronto dei 130 di Hogwood, ad esempio).
(1) Per eludere il divieto del 1698 di papa Innocenzo XII di rappresentare opere a Roma – divieto che fu revocato solo nel 1709 da Clemente XI – molti lavori che sarebbero stati previsti per la scena furono travestiti nella forma oratoriale. Così ad esempio si può intendere un’opera a tutti gli effetti l’“oratorio morale” Il trionfo del Tempo e del Disinganno (1707), in questi giorni alla Scala (gennaio 2016) dove viene allestito dai registi Jürgen Flimm e Gudrun Hartmann.
(2) Su YouTube c’è un’incredibile versione pop con 15 mila luci led sincronizzate alla musica e uno schermo gigante di un’installazione in Oklahoma.
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