Lucrezia Borgia

Gaetano Donizetti, Lucrezia Borgia

★★★☆☆

Valencia, Palau de les Arts Reina Sofía, 1 aprile 2017

(live streaming)

La principessa Negroni e il suo cocktail speciale

Invece del solito soggetto romantico, nel 1833 Donizetti si rivolge alla figura della famosa femme fatale dal veleno facile, qui in veste di mamma. Nella Lucrezia Borgia che debutta alla Scala il 26 dicembre di quell’anno non c’è molta somiglianza tra il personaggio del libretto di Felice Romani, tratto dall’omonimo dramma di Victor Hugo (1) uscito nel febbraio dello stesso anno, e la vera Lucrezia Borgia, nata nel 1480 e morta di parto nel 1519. Figlia illegittima di Rodrigo Borgia, futuro papa Alessandro VI, e sorella di Cesare Borgia, ebbe come terzo marito il duca di Ferrara Alfonso d’Este. Si ha notizia di un precedente figlio, Giovanni, frutto incestuoso della violenza subita dal padre o, secondo altre fonti, dal fratello.

Nell’opera Lucrezia è l’unico personaggio femminile in un universo dominato dal testosterone maschile. Gennaro è il figlio da tempo ritenuto scomparso che non sa della madre, che egli venera e pensa sia stata uccisa dalla Borgia stessa. Il duca Alfonso crede che il giovane, cui la moglie prodiga così tante cure, sia un suo amante e progetta di ucciderlo costringendo la donna a versargli del vino avvelenato. Così avviene, ma un antidoto prontamente fornito dalla stessa Lucrezia salva Gennaro dalla morte. Nel frattempo un gruppo di compari, capeggiati dall’amico del cuore Maffio Orsini, stacca per disprezzo dalla facciata del palazzo la lettera B del nome lasciando la parola ORGIA. Offesa, Lucrezia, sotto il falso nome di principessa Negroni, invita il gruppo a far baldoria offrendo il suo cocktail speciale. Troppo tardi si accorge che Gennaro fa parte del gruppo dove il giovane ha bevuto anche lui il veleno, per la seconda volta! Rifiutato l’antidoto, insufficiente per salvare anche gli amici, Gennaro vorrebbe uccidere la donna prima di morire, ma lei gli rivela finalmente di essere la madre. Dimenticandone le nefandezze, Gennaro spira placato fra le sue braccia.

La vicenda, perfetta per una parodia di Paolo Poli, è messa in musica da Donizetti con la solita professionalità, ma anche con guizzi di genio. All’atmosfera notturna annunciata fin dalle prime note della sinfonia con quel minaccioso rullo di timpani, il compositore alterna episodi falsamente festosi come il brindisi di Orsini «Il segreto per esser felici» alternato al lugubre coro fuori scena «La gioia de’ profani è un fumo passegger».

Valencia, la città che ha dato i natali a due papi Borgia (Alessandro VI e Callisto III) mette ora in scena nel suo Palau de les Arts Reina Sofía il dramma tragico in un prologo e due atti di Donizetti con la direzione del suo direttore musicale Fabio Biondi, violinista e massimo esperto di musica antica su strumenti originali. La sua direzione è piuttosto asciutta e tende a rifarsi alla versione originale del 1833 con poche concessioni a una lettura romantica. Il suo ritornare all’antico è realizzato con suoni secchi e metallici e dal pianoforte per i recitativi.

Il cast è dominato dalla presenza nel ruolo titolare di Mariella Devia. Per lei è stata montata questa produzione. Vicino alla settantina, la Devia si rivela ancora maestra di bel canto e senza nessuna concessione all’effetto la sua linea rimane omogenea nei vari registri. Il fraseggio perfetto e le colorature precise scatenano il delirio di parte del pubblico. Subito dopo per qualità di performance viene Silvia Tro Santafé, un Orsini perfetto per eleganza di emissione, agilità e presenza scenica. Presenza ammirata anche nell’Alfonso d’Este del croato Marko Mimica e nel Gubetta del nostro Andrea Pellegrini. Gennaro è il tenore americano William Davenport, un Pavarotti lirico ma ancora più leggero nel timbro e altrettanto intorpidito in scena. I giovani allievi della scuola di perfezionamento di Plácido Domingo coprono efficacemente gli altri ruoli.

La regia di Emilio Sagi, elegante ed essenziale, riprende la produzione del 2001 a Bilbao. Il regista sottolinea l’ambiguo rapporto tra Gennaro e l’amico Maffio Orsini, mezzosoprano en travesti, tanto che qui ci scappa anche un furtivo bacio tra i due. Vero è che il libretto dà adito a facili congetture quando nel duetto questi si scambiano espressioni come «Ah! Non posso abbandonarti! | Ah! Non io lasciarti vo’. […] Mio Gennaro! Caro Orsino! | Teco sempre… | O viva, o mora. | Qual due fiori a un solo stelo, | qual due frondi a un ramo sol’».

Le scenografie nere e lucide di Llorenç Corbella sono costituite da schermi mobili con proiezioni che definiscono gli ambienti claustrofobici della storia. Capigliature e maquillage completano adeguatamente i costumi di Pepa Ojanguren in total black ad eccezione del rosso di Lucrezia nel secondo atto, unica macchia di colore.

(1) Quando l’opera di Donizetti fu data a Parigi nel 1840, Hugo si oppose all’utilizzo del titolo originale ottenendo il blocco delle rappresentazioni successive alla prima. Il testo venne riscritto e la vicenda ambientata tra i turchi. Venne poi rappresentata nel 1845 con il titolo La rinnegata.

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