Macbeth

Giuseppe Verdi, Macbeth

★★★☆☆

Parma, Teatro Regio, 27 settembre 2018

(diretta televisiva)

Singin’ in the rain

Molto più raramente rappresentata, l’edizione fiorentina del 1847 del Macbeth inaugura il Festival Verdi di Parma, festival doverosamente impegnato a presentare in edizioni non scontate le opere del Maestro a beneficio di una maggiore conoscenza dell’autore che si vuole festeggiare.

Prima incursione del compositore nell’universo scespiriano e ancora senza la mediazione di Boito – lo scapigliato milanese aveva allora cinque anni… – il Macbeth rappresentò un punto d’arrivo nella sua carriera artistica, anche se al Teatro della Pergola quel 14 marzo non fu un successo travolgente, tanto da spingere il compositore a scriverne una nuova versione nel 1865 per Parigi.

Se la versione francese è più centrata sul personaggio della Lady, quella del 1847 dà maggior peso al marito di cui fa avvenire in scena la morte nel finale e a cui affida un ultimo recitativo («Mal per me che m’affidai | ne’ presagi dell’inferno!») che precede il coro finale («Or Malcolmo è nostro re!»). Prima, alla fine del terzo atto, Macbeth aveva cantato «Vada in fiamme e in polve cada», una cabaletta che lascerà posto al duetto dei coniugi nella versione per la «grande boutique». Le altre modifiche riguardano l’aria della Lady nel secondo atto («Trionfal securi alfine») che sarà sostituita da «La luce langue»; l’introduzione dei ballabili nel terzo atto, richiesto dalle consuetudini parigine; un diverso coro al quarto atto sulle parole «Patria oppressa».

Direzione incolore e spenta quella di Philippe Auguin con tempi propizi ai cantanti ma non alla tensione drammatica della vicenda. Quello che ne esce fuori è un Verdi annacquato e senza slanci che non trova mai un momento per commuovere o trascinare. L’Orchestra Filarmonica Arturo Toscanini rafforzata da quella Giovanile della Via Emilia ha dato buona prova, ma in continuazione veniva in mente che cosa avrebbe fatto un Michele Mariotti al posto del direttore francese. Buono il coro del Teatro Regio sotto la direzione di Martino Faggiani.

Molto padano e poco scozzese il Macbeth di Luca Salsi, vocalmente generoso, dal fraseggio scultoreo ma con alcuni eccessi di temperamento che sfociano quasi nel parlato. Qui più che altrove il suo personaggio risulta quasi un tontolone nella mani della moglie, senza avere la grandezza del male che ha in Shakespeare. Temperamento più cinicamente costruito quello della Lady di Anna Pirozzi, voce d’acciaio, acuti sicuri, agilità precise nella sua difficile cabaletta. Anche se rinuncia alla lettura della lettera, uno scoglio su cui spesso si infrangono le velleità attoriali del soprano di turno, dimostra una buona presenza scenica, anche se non sufficientemente messa in evidenza dalla latitante regia. Terzo personaggio della vicenda è Banco, qui un autorevole, nobile, ma vegliardo Michele Pertusi. Antonio Poli esibisce il bel timbro e l’eleganza che gli vengono riconosciute, ma il suo Macduff manca di drammaticità. Limitata la parte di Malcom per poter riconoscere gli eventuali meriti di Matteo Mezzaro.

Regolarmente buato l’allestimento di Daniele Abbado, ma non si capisce se il loggione non abbia gradito la mancanza di regia dimostrata nel novanta per cento della performance – con cantanti lasciati allo sbaraglio in un palcoscenico desolatamente vuoto – o gli eccessi dell’unico momento teatrale della serata, quello del secondo intervento delle streghe nell’atto terzo, realizzato come una grottesca sfilata di mascheroni non dissimile da quanto già visto nell’allestimento zurighese di David Pountney del 2001.

È chiara l’intenzione del regista di lasciare vuota la scena per concentrare l’azione sui singoli personaggi, ma la mancanza di attenzione attoriale sugli interpreti li porta a un gestire convenzionale che non ne evidenza la teatralità. E finisce che le figure si perdono davanti a uno sfondo traslucido su cui vengono proiettate le belle luci di Angelo Linzalata, unico elemento di una scena del tutto vuota sferzata da una pioggia incessante e in cui non esistono interni ed esterni – anche la Lady “rimugina” la lettera del marito all’inclemenza del tempo. Per quanto riguardano poi i movimenti coreografici di Simona Bucci rimane il dubbio se siano ironici.

Dal punto di vista visivo lo spettacolo lascia con ancora maggiore curiosità per quello che farà Michieletto all’apertura della stagione veneziana, con l’opera nella versione più conosciuta.

Pubblicità