Mese: novembre 2020

Marino Faliero

Gaetano Donizetti, Marino Faliero

★★★★☆

Bergamo, Teatro Donizetti, 20 November 2020

 Qui la versione italiana

(live streaming)

From Byron to Donizetti, the political drama of Marino Faliero

In this calamitous year, many opera festivals have had to be abandoned, but Bergamo, the Italian city most affected by the Covid-19 pandemic, refused to give up and its Donizetti Opera, reduced in scale, took place without an audience. Instead of music devotees, cameras and microphones of Donizetti Web TV filled the newly restored Teatro Donizetti.

The festival opened with Marino Faliero, an historical libretto by Giovanni Emanuele Bidera based on Casimir Delavigne’s play which was, in turn, based on Lord Byron’s 1821 tragedy, Marino Faliero, Doge of Venice. The opera represents Donizetti’s French debut, composed in the summer of 1834 for the Théâtre des Italiens, then directed by Rossini, where it was presented on 12th March 1835, just a few months after the triumph of I puritani by his rival, Bellini…

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Marino Faliero

Gaetano Donizetti, Marino Faliero

★★★★☆

Bergamo, Teatro Donizetti, 20 novembre 2020

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(live streaming)

Da Byron a Donizetti, il dramma politico e patriottico di Marino Faliero

In questo anno disgraziato molti festival d’opera hanno dovuto dare forfait. Bergamo, la città italiana più colpita dalla pandemia di Covid-19, non si è invece arresa e non ha rinunciato al suo ambizioso Donizetti Opera che, appena ridotto nelle dimensioni, si svolge in diretta streaming senza pubblico in sala. Nell’appena restaurato Teatro Donizetti invece degli appassionati venuti da tutto il mondo entrano telecamere e microfoni della Web TV.

Si inizia con Marino (o Marin) Faliero, dramma storico di Giovanni Emanuele Bidera basato sul testo omonimo di Casimir Delavigne a sua volta tratta del Marino Faliero, Doge of Venice, tragedia di Byron del 1821. L’opera rappresenta il debutto francese di Donizetti. Era stata infatti scritta nell’estate del 1834 per il Théâtre des Italiens, diretto allora da Rossini, dove fu presentata il 12 marzo 1835 a pochi mesi dal trionfo de I puritani del rivale Bellini. Il libretto venne ritoccato dall’esule politico Agostino Ruffini per la rappresentazione a Parigi, città in cui la censura era meno rigida che in Italia, dove difficilmente sarebbe stato accettato un testo che esaltava il patriottismo. L’opera tanto entusiasmò Mazzini che la citò quale pietra miliare di un teatro musicale nuovo e impegnato nel suo saggio Filosofia della musica. E questo prima che Giuseppe Verdi diventasse il depositario delle speranze risorgimentali del paese.

La vicenda del Marino Faliero è ambientata nella Venezia del XIV secolo, la città per antonomasia degli intrighi, delle delazioni, dei delitti e dei balli in maschera per gli scrittori romantici. Il Doge Faliero è in grande contrasto con i patrizi della città che seminano calunnie nei suoi confronti. Scoperta una cospirazione contro di loro, Faliero non esita a capeggiarla, ma scoperto viene deposto e giustiziato per tradimento. A fianco del tema politico (pubblico) non poteva certo mancare quello amoroso (privato), in questo caso di Elena, la moglie del Doge, che ha una relazione col di lui nipote Fernando. La morte in duello di quest’ultimo risolve la scabrosa situazione troppo tardi per portare pace alla coppia.

Atto primo. Venezia, 1355. I lavoratori dell’arsenale commentano una scritta apparsa a Rialto che accusa Elena, moglie del doge Marino Faliero, di aver tradito il marito. Il loro capo, Israele Bertucci, ricorda l’impresa di Zara alla quale aveva partecipato con Faliero. Arriva Steno, un arrogante patrizio: accusa gli artigiani di non lavorare abbastanza e minaccia punizioni. Israele e i suoi criticano la prepotenza dei nobili. Nel palazzo del doge, suo nipote Fernando, innamorato corrisposto di Elena, ha deciso di lasciare Venezia. Giunge Elena, che gli dona un velo a ricordo del loro amore. Il doge, ignaro del legame tra i due, allontana la moglie e confida al nipote il proprio turbamento per l’infamante accusa a lei rivolta. Faliero è anche amareggiato per l’invito a una festa in maschera del patrizio Leoni, alla quale si sente costretto a partecipare. Rimasto solo, il doge è raggiunto da Israele che gli svela una congiura contro i patrizi. I due si accordano: alla festa di Leoni, Israele indicherà al doge il numero e il nome di coloro che hanno aderito. Nel palazzo di Leoni arrivano Faliero, Elena e Fernando. Il doge si apparta con Israele che gli comunica che i congiurati agiranno la notte stessa, muovendo da San Giovanni e Paolo. Elena è infastidita da una maschera. È Steno, che Fernando sfida a duello: si incontreranno all’alba, a San Giovanni.
Atto secondo. I congiurati si riuniscono a San Giovanni. Arriva anche Fernando che attende l’ora del duello. Quando il campanile suona le tre, si avvia al luogo stabilito. I congiurati escono allo scoperto, raggiunti dal doge. Mentre un temporale si avvicina, si sente un rumore di spade: Fernando è stato colpito a morte e nell’agonia indica Steno come suo uccisore.
Atto terzo. Nel palazzo ducale, Faliero annuncia a Elena la morte di Fernando. In quel momento entra Leoni a reclamare la presenza del doge contro i congiurati. Faliero se ne dichiara capo e si proclama re, ma viene arrestato dagli sbirri, mentre Elena si abbandona alla disperazione. Nella sala del Consiglio dei Dieci, Faliero, Israele e gli altri congiurati vengono condannati a morte. Rimasto solo, il doge deposto viene raggiunto da Elena. Faliero le chiede di essere sepolto con il velo che il nipote portava con sé. Elena lo riconosce e, assalita dal rimorso, confessa di aver amato Fernando. Dapprima furioso, Faliero si placa, perdona la sposa e si avvia al patibolo. Elena prega e, quando i tamburi annunciano l’esecuzione, cade svenuta.

Pur nella sua inconfondibilità, la musica del Marino Faliero dimostra la grande influenza di Rossini, il dominatore del teatro musicale dell’epoca. Rossini stesso aveva chiesto a Donizetti alcune modifiche per la rappresentazione parigina – sostanzialmente il passaggio a tre atti invece di due, una sinfonia iniziale invece del breve preludio previsto originariamente e altri rimaneggiamenti – per meglio adattarsi ai gusti del pubblico. L’opera tuttavia sconcertò ugualmente per alcune scelte che andavano contro la tradizione, come la morte del tenore già nel secondo atto o la mancanza di un’aria di sortita per la prima donna la quale aveva una grande scena per sé solo nel finale.

C’è chi ha paragonato quest’opera a I due Foscari non solo per la stessa ambientazione veneziana e per la comune derivazione byroniana, ma anche per il fatto che entrambe mettono in scena due anziani in lotta tra questioni private e pubbliche. E come l’opera di Verdi anche il Marino Faliero è opera notturna – il termine notte ricorre ben 18 volte nel libretto – la cui atmosfera e il colore cupo sono sottolineati dal direttore musicale del festival Riccardo Frizza. La frequentazione di questo repertorio ha fatto del maestro bresciano, un interprete di riferimento della musica donizettiana e con l’orchestra del teatro riesce a restituire la dimensione inquietante della città lagunare tra duelli e feste, congiure e serenate dei gondolieri. Insolita la disposizione dell’orchestra: il direttore è nel mezzo, davanti ha gli archi, dietro i fiati, separati da schermi di plexiglas, in fondo sul palcoscenico il coro.

Le parti vocali del Faliero sono estremamente impegnative essendo state pensate per dei fuoriclasse dell’epoca: il basso Luigi Lablache (il Doge), il soprano Giulia Grisi (Elena), il tenore Giovanni Battista Rubini (Fernando) e il baritono Antonio Tamburini (Israele), gli stessi solisti de I puritani. Con quel quartetto di eccezione si confrontano qui a Bergamo interpreti non meno eccellenti. Primo fra tutti Michele Pertusi che è un Faliero di enorme autorevolezza e maestro di stile. Il personaggio del Doge sembra tagliato su misura per la sua personalità e sensibilità. Di grande effetto è la parte del generoso plebeo Israele Bertucci, che qui ha in Bogdan Baciu un interprete che non è mai sopra le righe ma risulta comunque efficace e nel Maestoso «Ero anch’io» del primo atto mette in luce le sue grandi capacità espressive.

Quello di Fernando è un ruolo tenorile temibile, che finora ha ostacolato la ripresa di questo titolo e che in questa proposta bergamasca nasce sfortunato. Il previsto Javier Camarena è stato sostituito per motivi di salute da Michele Angelini che però anche lui si è rivelato indisposto, ma che è generosamente salito in scena per salvare lo spettacolo portando a termine la sua performance con evidenti segni di fatica. Peccato, perché avremmo ammirato il timbro luminoso, il fraseggio accurato e la bella linea di canto, doti dimostrate ad esempio nel suo Almaviva del Barbiere parigino di Pelly o nel Riccardo dell’Anna Bolena all’opera di Lituania il mese scorso, il suo debutto in Donizetti. Non si può che augurargli di rimettersi presto e dispiace che ci sia stata solo questa recita.

Serata pienamente positiva invece per Francesca Dotto, Elena di grande temperamento, che nella scena a lei dedicata nell’atto terzo recupera tutto quello che non ha potuto dimostrare nei due atti precedenti, ossia una potenza vocale ragguardevole che le permette di affrontare con agio l’impervia tessitura scritta per la Grisi e gli accenti drammatici di un personaggio tormentato. Ottimi si sono dimostrati gli interpreti degli altri personaggi, soprattutto Christian Federici come perfido Steno e Giorgio Misseri, il gondoliere fuori scena. Impegnato in momenti strategici della vicenda – il coro degli artigiani con cui inizia l’opera, il finale primo, il coro di congiurati («Siamo i figli della notte») e il finale secondo, il coro di damigelle e quello dei patrizi nel terzo – il coro, invisibile dietro l’orchestra, istruito da Fabio Tartari ha dimostrato grande coesione e perfetta intonazione.

Sia Eugène Delacroix (1) che Francesco Hayez (2) hanno ritratto gli ultimi momenti del Doge Faliero sulla scalinata del cortile del Palazzo Ducale, ma è un falso perché il grandioso scalone dei Giganti fu costruito cent’anni dopo. Tuttavia le scale sono presenti in quantità nel progetto creativo del ricci/forte performing art ensemble: tante rampe inserite in una struttura di metallo disegnata da Marco Rossi che occupa tutta la platea del teatro. Nel gioco luci di Alessandro Carletti la luce verdastra della «torbida laguna» inonda questo labirinto tridimensionale che ricorda il dedalo di calli, ponti e scalette della città o i pali su cui sono costruiti i suoi palazzi, ma anche le passerelle che vengono posate per l’acqua alta, come pure la scaffalatura di un un patibolo o infine una gabbia che imprigiona le solitudini dei personaggi e il loro distanziamento. Inquietanti e viscidi figure si aggrappano e abitano questa struttura trasformandosi anche in marionette o marionettisti quando ai loro fili sono legati i personaggi schiavi del destino. I loro movimenti sono coordinati da Marta Bevilacqua. I costumi di Gianluca Sbicca mescolano stili diversi con i loro tagli moderni, i colori insoliti e i tessuti preziosi che sembrano essere usciti dalle botteghe veneziane di sete e broccati. Come si vede molti sono i richiami evocati dall’allestimento di Stefano Ricci e Gianni Forte, da quest’anno direttori artistici della Biennale Teatro di Venezia.

(1) L’exécution du doge Marino Faliero, 1825 – Londra, Wallace Collection

(2) Gli ultimi momenti del doge Marin Faliero sulla scala detta del piombo, 1867 – Milano, Pinacoteca di Brera

Hippolyte et Aricie

Jean-Philippe Rameau, Hippolyte et Aricie

★★★☆☆

Parigi, Opéra Comique, 14 novembre 2020

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Rimorsi superflui

Hippolyte et Aricie, la prima opera lirica di Rameau, è il dramma del rimorso: Aricie si chiede come possa offrire senza rimorsi alla dea Diana un cuore offerto già a un altro; Teseo vuol porre fine alla sua vita per il rimorso di aver fatto uccidere il figlio innocente; Fedra si uccide oppressa dal rimorso di aver amato incestuosamente il figliastro. «Ô remords superflus!» canta il coro alle fine del quarto atto.

Coprodotto con l’Opéra Royal di Versailles, questo dell’Opéra Comique è un altro spettacolo a porte chiuse: delle sei repliche previste solo quella del 14 novembre è sopravvissuta ai protocolli sanitari che hanno sbarrato i teatri anche in Francia. Ripresa dalle telecamere di Arte Concert Hippolyte et Aricie è trasmesso in diretta streaming dalla bellissima Salle Favart vuota ed è difficile abituarsi al silenzio spettrale con cui tutta la compagnia è in piedi nel teatro senza gli applausi al termine dello spettacolo. Una panoramica angosciante.

L’opera è presentata nella terza versione del 1757, quella senza prologo, ma con alcuni elementi della versione originale del 1733. Diciamo subito che l’esecuzione musicale e l’allestimento visivo sono su due piani qualitativi molto diversi. Cominciano dal primo. Il coro e l’orchestra Pygmalion sono affidati al loro direttore e fondatore Raphël Pichon, un giovane entusiasta che alla conoscenza del repertorio unisce un gusto raffinato e una grande sensibilità. «Hippolyte è un’opera che è contemporaneamente terrificante e piena di grazia inimitabile. Espressività dei recitativi, ruolo decisivo dell’orchestra – che diventa attore del dramma –, strumentazione rivoluzionaria ed emancipazione dei fiati dell’orchestra, geniale inventiva dei divertissement, vette di intensità lirica, sperimentazione e audacia armonica: qui tutto è ricchezza e genialità» scrive Pichon nel programma, spingendosi a dire che «Rameau carica la sua partitura con così tanta emozione che sconvolge il paesaggio, sposta i confini. Liberandosi dai codici, detronizza la supremazia lullysta e il suo genio segna per sempre lo stile e l’orchestra francese, aprendo la strada a esperimenti e sviluppi che Berlioz e Debussy proseguiranno in seguito». La ricchezza armonica di Rameau trova nelle sue mani esperte una perfetta realizzazione.

A dispetto del titolo i due personaggi principali di Hippolyte et Aricie sono Phèdre e Tésée, qui affidati a due interpreti sommi. Sylvie Brunet-Grupposo si conferma grande tragédienne oltre che eccellente cantante che sa dosare la sua potenza vocale nel dipingere un personaggio complesso e umano. Combattuti tra ira e pianto, i suoi sono momenti di grande teatro. Tornato nella parte che ha affinato nel tempo, Stéphane Degout è un Tésée difficilmente superabile per intensità ed efficacia di eloquenza, sonorità del registro basso e proprietà di dizione, eleganza nel fraseggio e gamma di sfumature espressive. Come Hippolyte Reinoud van Mechelen esprime il suo registro di haute-contre con voce limpida mentre la sua Aricie è una tenera ma solida Elsa Benoit. Di eccellente livello anche gli altri interpreti: Eugénie Lefebvre (Diane), Edwin Fardini (ironico Tisiphone) e Séraphine Cotrez (Œnone). Nelle parti di Neptune e Pluton il previsto Nahuel di Pierro è sostituito con autorevolezza da Arnaud Richard mentre Lea Desandre ci delizia nelle quattro parti di Prêtresse, Chasseresse, Matelote e Bergère. Ottima come sempre la prova fornita dal coro Pygmalion per precisione, coesione e disinvoltura in scena.

Nell’allestimento di Jeanne Candel, attrice e regista teatrale debuttante nella lirica, è difficile trovare una convincente chiave di lettura e non illuminano le sue note di regia in cui cita il Convivio di Platone e annuncia l’intenzione di sostituire al prologo del Pellegrin un altro costituito da letture di Racine (la Phèdre, ovviamente) e aneddoti raccontati da un’attrice. Di questa intenzione non rimane nulla però nell’esecuzione: durante l’ouverture vediamo Aricie davanti a un sipario bianco indossare una tuta bianca per prepararsi ad entrare nel tempio. Gli adepti di Diana sono anche loro in tuta da imbianchino e usano il fucile per sparare colori sulla tela bianca – dopo nella scena venatoria suoneranno il fucile come un corno da caccia…

I costumi sono l’elemento più spiazzante dell’allestimento: Hippolyte e Tésée indossano improbabili costumi d’epoca con ridicole gorgiere e ancora più ridicole gonne, Phèdre ed Œnone copricapi orientaleggianti, gli dèi maschili sono in giacca e cravatta. La scenografia di Lisa Navarro dell’entrata all’oltretomba del secondo atto consiste in una struttura di cemento e acciaio con scale e nel mezzo un ascensore per scendere nei piani bassi dell’inferno. Tésée percorre senza pace le scale come in una gabbia ed è questo l’unico momento totalmente convincente dell’aspetto visivo. Inutilmente grottesco è invece l’ingresso dei coristi vestiti come donne delle pulizie per asciugare il sangue che cola dai gradini. La stessa struttura è utilizzata per il palazzo di Tésée (atto terzo) e il bosco consacrato a Diane (atto quarto) e il giardino dell’atto quinto, qui un obitorio con il cadavere di Phèdre e i due giovani che si risvegliano chiedendosi dove sono. 

Mancando i balletti, i momenti a questi destinati sono riempiti da pantomime e ingenui tableaux vivants come quello dei cacciatori con i coristi-cani scodinzolanti, un imbarazzante cervo in calzamaglia color carne e corna tenute sulla testa, alberi a loro volta tenuti in piedi da servi di scena e nuvole dipinte che scendono dall’alto. Il balletto dei marinai è invece occasione per inscenare una specie di mascherata di carnevale sulla spiaggia. È chiaro che la regista vuole ricreare lo spirito dello spettacolo barocco, ma le sue scelte non sono sempre felici e comprensibili.  Che Lea Desandre dopo essere apparsa come sirena entri in scena in bicicletta nel finale per cantare «Rossignols amoureux» mentre scuote i tendaggi dell’obitorio non stupisce più di tanto perché a quel punto uno ha smesso di farsi domande.

Manon

Jules Massenet, Manon

★★★☆☆

Vienna, Staatsoper, 6 giugno 2019

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Un debutto che segna una svolta nella carriera di Flórez

Ambientato nella Parigi tra le due guerre, il “film noir” di Andrei Șerban è un classico dell’Opera di Stato viennese che viene ancora riproposto dopo dodici anni. L’idea che sta dietro a questa ambientazione continua a essere non del tutto convincente però: la Manon di Massenet è più settecentesca nello spirito di quella pucciniana e il ritiro in convento e la partenza per le lande sperdute del Nuovo Mondo faticano a trovare collocazione al Moulin Rouge o tra le «comédiennes» del Cours-la-Reine con le banconote nella giarrettiera.

Nella scenografia di Peter Pabst, dopo la stazione del primo atto ci spostiamo nella stanzetta con vista sulla Tour Eiffel, un manifesto de La comtesse aux pied nus (il film con Ava Gardner e Humphrey Bogart è però del 1954!) identifica il quadro del Cours-la-Reine, un rosone e una vetrata gotica per il quadro in chiesa, un bancone da bar per il quadro del gioco. Curiosa l’idea di utilizzare sagome di legno per alcuni personaggi e relegare il coro in buca.

Dopo aver debuttato nella parte in forma di concerto a Parigi al Théâtre des Champs Élysées, Juan Diego Flórez porta Des Grieux in scena a Vienna. Sappiamo quanto il tenore peruviano prepari i suoi ruoli e anche questa volta non fa eccezione: la voce ora è più scura e l’intensità drammatica se ne avvantaggia, ma manca lo spirito da opéra-comique con il suo particolare codice idiomatico, che invece si ritrova nel Lescaut di Adrian Eröd e nei comprimari Michael Laurenz e Clemens Unterreiner, rispettivamente Morfontaine e Brétigny, la cui presenza attoriale è una sfida non del tutto vinta per Flórez. Ma questo non significa nulla per il pubblico viennese che non la smette di acclamarlo confortandolo sulla sua scelta di muovere a un repertorio meno belcantistico. Felice serata anche per Nino Machaidze, Manon sensuale e avvenente, dal timbro chiaro ma non troppo leggero. La dizione è piuttosto approssimativa, soprattutto nei recitativi, ma glielo si perdona. Direzione brillante quella di Frédéric Chaslin con tempi talora sorprendenti.

Aci, Galatea e Polifemo

Georg Friedrich Händel, Aci, Galatea e Polifemo

★★★☆☆

Piacenza, Teatro Municipale, 15 novembre 2020

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Serenata a porte chiuse

Da sempre la gente di teatro ha saputo fare di necessità virtù aguzzando l’ingegno per reagire alle ristrettezze e agli imprevisti. In questi sciagurati tempi se la gente non può andare a teatro è il teatro stesso che sale su un camion e va a portare lo spettacolo per le strade – come ha fatto recentemente Davide Livermore col suo mozartiano Bastiano e Bastiana sul TIR (Teatro In Rivoluzione). Oppure sfrutta la tecnologia per riprendere lo spettacolo a porte chiuse e trasmetterlo in rete così da portarlo gratuitamente in migliaia di case – ma che angoscia quelle file di poltrone vuote e i cantanti che si inchinano nel silenzio a un pubblico inesistente…

Opera Streaming trasmette dunque su Youtube Aci, Galatea e Polifemo di Händel dal Teatro Municipale di Piacenza. La “serenata a tre voci” con cui il Sassone nel 1708 a Napoli aveva celebrato il matrimonio della giovane nipote Sanseverino viene presentata in una versione inedita, quella pensata per il Senesino e la Strada della ripresa napoletana del 1713. È una versione che si basa su frammenti manoscritti della British Library e che Raffaele Pe, Fabrizio Longo e Luca Guglielmi hanno ricostruito effettuando un cambio di registro per due dei protagonisti: Aci passa da soprano a contralto e Galatea da contralto a soprano; Polifemo resta un basso ma perde l’aria «Sibilar l’angui d’Aletto», che passerà al Rinaldo, ma acquista un recitativo e un’aria («Affanno tiranno») con cui inizia il lavoro mentre nell’orchestra qui aumenta il ruolo dei legni. Luca Guglielmi alla guida dell’ensemble barocco La lira d’Orfeo mostra il suo agio in questo repertorio e nella concertazione delle voci evidenzia la maestria compositiva del ventunenne Händel.

Di Raffaele Pe si è sempre ammirato il bel timbro e l’espressività, qui confermati entrambi. In lui non vanno ricercate particolari doti di agilità, la parte di Aci non è quello che richiede, quanto dolcezza di emissione e sensibilità, pienamente realizzate. Talora qualche nota è sforzata e qualche passaggio non perfettamente intonato, ma nel complesso la performance di quello che è tra i migliori controtenori italiani è pienamente soddisfacente. Con Giuseppina Bridelli dobbiamo abituarci a una Galatea più sopranile – nelle orecchie ci era rimasto il timbro di velluto di Sara Mingardo… – ma ben presto il personaggio prende corpo e diventa del tutto convincente anche in questo registro grazie alla personalità e alla sicurezza vocale del mezzosoprano piacentino.

Giubbotto di pelle sulla canottiera a rete, catenaccia d’oro al collo, avambracci tatuati, il Polifemo grunge di Andrea Mastroni si contrappone ai due giovani “per bene” in questo allestimento. Vocalmente è il personaggio al quale Händel affida la parte più stupefacente con quel «Fra l’ombre e gl’orrori» dagli abissali salti di registro, dal Sol#4 al Do#2. Mastroni ha una sonorità possente nelle note sotto il rigo, ma ricorre al falsetto in quelle acute. Dei tre è comunque il personaggio più intrigante e il basso milanese riesce a rendere i suoi duetti con Galatea più interessanti di quelli della ragazza con l’amato Aci. C’è un momento in «Non sempre, no, crudele, mi parlerai così» in cui Galatea quasi sembra cedere al fascino ben più maschio del gigante e forse qui la regia avrebbe avuto buon gioco a rendere ancor più ambiguo il rapporto tra il ciclope e la nereide. La regia di Gianmaria Aliverta è invece un po’ rinunciataria, poco più che una esecuzione in forma di concerto con una scenografia estremamente essenziale, una pedana con tre schermi a led. Il regista punta giustamente  sull’immagine dal momento che il lavoro di Händel manca di una plausibile drammaturgia, ma queste immagini  si rivelano piuttosto banali. Il confronto con la video grafica dell’Aci, Galatea e Polifemo di Livermore non gioca a favore qui della Tokio [sic] Studio Light.

Prima Donna

Rufus Wainwright, Prima Donna

★★★☆☆

Stoccolma, Kungliga Operan, 10 ottobre 2020

(live streaming)

«È strano, è proprio come un’opera» (1)

Sette diverse produzioni e una registrazione con la Deutsche Grammophon: non male per un’opera contemporanea scritta da un outsider quale Rufus Wainwright, un cantautore pop che, come dice il titolo di un suo album, «unfollows the rules» e lascia gli studi di registrazione o le serate con la band per immergersi nella composizione di un’opera neoromantica. Le quattro canoniche voci sono impiegate in un soggetto meta-teatrale: le ansie di una primadonna che ritorna sulle scene dopo anni di silenzio.

Con curiosità si ritorna a vedere Prima Donna ora in scena a Stoccolma. La produzione ungherese del 2017 non aveva molto convinto anche per la modestia della messa in scena e dell’esecuzione musicale. Qui tra gli ori del teatro reale non si è troppo badato a spese con la regia di Mårten Forslund e la ricca scenografia di Sabine Theunissen, uno squarcio di appartamento ancora lussuoso montato su una piattaforma che ruotando ci mostra nel finale i tetti di Parigi illuminati dai fuochi d’artificio del 14 Luglio mentre prima la stanza aveva perso le pareti per la scena notturna del duetto dalla Aliénor d’Aquitaine, l’opera con cui deve ritornare sulle scene Régine de Saint Laurent dopo il disastroso debutto di sei anni prima.

Il canto è un declamato dalla linea prevedibile accompagnato dagli strumenti che raddoppiano la voce, ma la vocalità richiesta ai cantanti è molto impegnativa, soprattutto per i ruoli della cameriera Marie (che nel suo arioso «Paris n’est pas la Picardie» si muove in un registro stratosferico) e del giornalista André, anche lui in una tessitura acutissima.

Diretta da Jayce Ogren l’orchestra è alleggerita a causa del distanziamento richiesto dalla pandemia, così funziona meglio l’equilibrio tra buca e scena,  le voci devono combattere meno con l’orchestra e la musica perde un po’ di densità e turgore, a tutto suo vantaggio. Ma il difetto dell’opera si conferma essere il libretto: né il rapporto di amore/odio di Régine con la sua inaffidabile voce, né l’adorazione delle celebrità da parte degli adulatori possono essere un tema degno di essere drammatizzato su scala operistica e la musica di Wainwright cerca di compensare come può la mancanza di una drammaturgia convincente.

Nel ruolo del «soprano d’un certain âge» Elin Rombo sfoggia una bella voce e una efficace presenza, ma è la Marie di Beate Mordal che vocalmente ruba la scena, come s’è detto. Jeremy Carpenter è l’inappuntabile Philippe che alla fine esprime tutto il suo rancore quando vede il fallimento della carriera della diva a cui ha sacrificato tutta la sua vita. Stralunato ma vocalmente ineccepibile il giornalista André di Conny Thimander.

I cinquanta spettatori ammessi nel teatro sembrano aver gradito lo spettacolo, ma che tristezza quegli sparuti applausi…

(1) Lo cantano i personaggi del quartetto che conclude il primo atto.

 

GARSINGTON OPERA PAVILION

Garsington Opera Pavilion

Wormsley (2011)

600 posti

Garsington Opera è un festival lirico estivo fondato nel 1989 da Leonard Ingrams. Per 21 anni si è tenuto nei giardini della dimora di Ingrams a Garsington Manor nell’Oxfordshire, ma dal 2011 il festival si tiene a Wormsley Park, la casa della famiglia Getty vicino a Stokenchurch nel Buckinghamshire, Inghilterra. Il nuovo spazio è un padiglione da 600 posti, che come quello di Garsington Manor è progettato per essere montato e smantellato ogni stagione. La prima stagione al Wormsley Park ha visto l’esecuzione in prima britannica de La verità in cimento di Vivaldi, Il flauto magico di Mozart e Il turco in Italia di Rossini. Il festival è finanziato da The Friends of Garsington Opera e da sponsorizzazioni aziendali e private.

Dal padiglione è possibile vedere il paesaggio circostante e ciò mantiene il legame con l’esterno, una tradizione alla Garsington Opera. Gli spettacoli iniziano in prima serata, consentendo una lunga cena durante l’intervallo, simile a quanto avviene a Glyndebourne. Anche qui è richiesto l’abito da sera. Nel 2017 la Philharmonia Orchestra è diventata un’orchestra residente al Festival, suonando per una produzione a stagione, con la Garsington Opera Orchestra che continua a suonare tre produzioni all’anno. Dal 2020 la Philharmonia Orchestra sarà affiancata da The English Concert come le due orchestre residenti, condividendo le quattro produzioni ogni anno.

The Turn of the Screw

Benjamin Britten, The Turn of the Screw

★★★★★

Wormsley, Garsington Opera Pavilion, 13 luglio 2019

(live streaming)

«The ceremony of innocence is drowned»

Assieme a Peter Grimes è la più popolare delle opere di Britten per la sua particolare atmosfera, che ricrea magistralmente quella del racconto originario di Henry James, e la mirabile orchestrazione: nel 1954 fu la definitiva conferma di Benjamin Britten quale più importante musicista inglese dai tempi di Purcell e uno dei più apprezzati compositori di teatro del Novecento.

Per la trentesima stagione del Garsington Opera Festival The Turn of the Screw viene messo in scena su quel palcoscenico aperto sulla campagna inglese, con la luce del pomeriggio che filtra attraverso le grandi vetrate. Nella scenografia fissa di Christopher Oram i serramenti arrugginiti suggeriscono un grande e decadente winter garden vittoriano, un ambiente che non è né interno né esterno, una specie di serra che termina su uno specchio d’acqua, il lago del testo, su cui Miles vara la sua barchetta di carta. Su quell’acqua avanza Miss Jessel col suo ampio abito nero lasciando sul palcoscenico una scia bagnata, unica traccia della sua presenza nel mondo fisico.

Dopo un intervallo di un’ora e mezza, il sole è calato e la scena è nella penombra. Assieme alle candele ora entrano in azione le suggestive luci di Malcom Rippeth. Dopo la leggerezza del primo atto con i suoi giochi innocenti sotto la luce del sole, nel secondo si entra nel dramma della vicenda e l’illuminazione vi gioca un ruolo decisivo. Presenze sinistre presto offuscano l’ottimistico inizio e mentre cala la notte nei giardini fuori dall’auditorium, così anche le forze oscure del male vincono i valorosi sforzi della istitutrice e della governante per proteggere i due bambini. La stessa casa si dimostra fragile: una parte del pavimento è crollata ed è stata invasa dall’acqua – il che dà un ulteriore significato a «The ceremony of innocence is drowned» cantato dai due spettri. La regia di Louisa Muller accumula sapientemente la tensione con piccoli particolari inquietanti e gioca abilmente sulla dualità tra mondo fisico e mondo spirituale, tra realtà e teatro. Questi ultimi si mescolano magicamente qui nel padiglione immerso nel verde con i suoi pannelli scorrevoli trasparenti che proteggono ma non isolano completamente dall’esterno.

La partitura meravigliosamente strutturata e piena di suspense è resa con limpida precisione e intensa partecipazione da Richard Garnes a capo della Garsington Opera Orchestra. Magistralmente concertati i sei interpreti si rivelano eccellenti. Intensa e di giusta presenza scenica Sophie Bevan è l’istitutrice, l’unico personaggio senza un nome proprio. Zio dei bambini nel Prologo e poi Peter Quint, Ed Lyon sfodera il suo charme e la sua elegante vocalità, mentre come Miss Jessel c’è una straordinaria Katherine Broderick piena di una passione che la morte non ha sopito. Magnifici i due giovani cantanti Adrianna Forbes-Dorant (Flora) e Leo Jemison (Miles), quest’ultimo fa rimpiangere ancora una volta la mancanza di voci bianche maschili al di qua delle Alpi. Kathleen Wilkinson è un’efficace Mrs Grose.

Spettacolo estremamente intrigante e magnifica la ripreso in video ora disponibile su youtube.

 

Don Carlo

Giuseppe Verdi, Don Carlo

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 17 aprile 2013

Il Regio celebra i suoi primi quarant’anni

Opera che dà la possibilità ai costumisti di sfoggiare le loro creazioni più ricche e sontuose, agli scenografi di allestire i grandiosi e cupi ambienti del Siglo de Oro spagnolo, ai cantanti di affrontare ruoli tra i più leggendari del mondo lirico. Tutto questo è il Don Carlos/Don Carlo, tra i lavori più imponenti di Verdi e uno dei vertici della sua gloriosa carriera.

A questo si aggiunge però il problema di quale delle tante versioni scegliere. Per celebrare i quarant’anni dalla sua apertura il (Nuovo) Teatro Regio di Torino ripropone lo spettacolo di Hugo de Ana già visto nel 2006. La versione è quella nella traduzione italiana e in quattro atti, mancano quindi l’episodio di Fontainebleau e i ballabili del terzo atto, ma ci guadagnano concisione e forza drammatica. Gianandrea Noseda mantiene in perfetto equilibrio l’orchestra e il palcoscenico, privilegiando le atmosfere più rarefatte e cameristiche rispetto a quelle più enfatiche suggerite dalla partitura. La sua è una lettura di una certa asciuttezza e come sempre attenta è la concertazione delle voci che qui formano un cast non del tutto omogeneo. Accanto alle prove maiuscole di Il’dar Abdrazakov e Ludovic Tézier – rispettivamente un Filippo imponente ma credibile sia nei monologhi sia nei numeri di insieme e un Rodrigo di grande eleganza – si sono sentite sulla scena voci non pienamente convincenti come quelle di Ramón Vargas, un Don Carlo un po’ manchevole nel registro acuto; Daniela Barcellona qui non a fuoco come Principessa d’Eboli; Barbara Frittoli Elisabetta cui manca più potenza; Marco Spotti Grande Inquisitore un po’ spento. Di buon livello le altre parti con Roberto Tagliavini (un frate), Erika Grimaldi (una voce dal cielo), Dario Prola (Conte di Lerma).

Lo spettacolo di Hugo de Ana, che firma regia, scene e costumi, è così descritto da Giancarlo Landini: «Fedele al tempo dell’azione, De Ana costruisce una scena grandiosa che rivive con raffinato gusto visivo la monumentalità oppressiva dell’Escorial. Mentre la illustra con soluzioni di singolare fascino, la eleva a correlativo-oggettivo della claustrofobia morale dei personaggi, vittime di contrapposte tensioni, a cominciare da Filippo stesso prigioniero prima che signore della reggia e del sistema che egli ha voluto. Le grandi colonne, che fungono da quinte e che muovendosi modificano la prospettiva, incombono sul palco. Creano gli enormi spazi del Convento di San Giusto, dove i personaggi si muovono smarriti in un’atmosfera arcana, percorsa da cori en coulisse e da misteriose presenze. Si ritraggono per lasciare spazio alla gran piazza, chiusa dalla grande facciata marmorea di Nostra Signora d’Atocha, concepita secondo lo stile architettonico di un Rinascimento fiammeggiante, che fa da vetrina allo splendore di una monarchia indiscutibile. Si fanno incombenti nello studio di Filippo e nella scena del carcere. Le luci sapienti di Sergio Rossi avvolgono la scena in una penombra che, con l’ovvia eccezione del Finale del III Atto, contribuisce a rendere il clima dell’opera. Proprio per la capacità di ricondurre ogni elemento alla sua funzione drammatica, sarebbe ingiusto e decisamente sbagliato ritenere lo spettacolo di De Ana meramente illustrativo, come se la regia debba necessariamente ridursi all’applicazione di soluzioni alternative al teatro di tradizione. Al contrario il regista è sempre presente. Lo si coglie nello scavo dei personaggi e nel disegno dei loro rapporti. Basterà qualche esempio: Eboli che spia l’incontro tra Posa e Filippo; la consumata abilità con cui Posa distoglie Eboli che con caparbia determinazione vuole avvicinarsi alla regina intenta a scorrere la segreta missiva di Carlo; l’episodio della contessa d’Aremberg. Il risultato è una lettura fluida, sempre efficace». Il pubblico torinese ha dimostrato con gli applausi di aver apprezzato.

Il matrimonio segreto

Domenico Cimarosa, Il matrimonio segreto

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 19 marzo 2013

Un Matrimonio tradizionale e prevedibile

Lo spettacolo di Michael Hampe si era già visto a Torino nel 2002 ed è qui ripreso dal fido Borrelli. La scena unica di Jan Schlubach vede una struttura architettonica a esedra che si apre sull’azzurro di un esterno indefinito. I costumi sono d’epoca e i movimenti per fortuna non affettati per i protagonisti della vicenda, interpretati da cantanti-attori attenti alla dizione e alla vivacità scenica, elementi essenziali in un’opera come questa.

Le litigiose sorelle Carolina ed Elisetta trovano in Barbara Bargnesi ed Erika Grimaldi due cantanti dai timbri differenziati ma entrambe tendenti a cantare troppo forte e a forzare negli acuti. Meglio la Fidalma di Chiara Amarù, ben caratterizzata sia vocalmente sia scenicamente. Sul fronte maschile anche Emanuele d’Aguanno, Paolino, sforza un po’ nel registro acuto, ma si dimostra ottimo tenore per intensità espressiva e timbro. Come Geronimo abbiamo un Paolo Bordogna in stato di grazia dove qualità vocale e recitazione fanno a gara per delineare il personaggio con efficacia. Elegante e sornione il Conte Robinson di Roberto de Candia. Il duetto del secondo atto che li vede entrambi impegnati è tra i pezzi forti della serata.

Francesco Pasqualetti alla testa dell’orchestra del teatro opportunamente ridotta predilige la chiarezza del suono alle sfumature e alla sensualità e la sua lettura risulta un po’ piattamente risolta sullo stesso peso sonoro.

La tradizionalità e prevedibilità dell’allestimento è piaciuta al pubblico torinese cui vengono raramente proposte opere settecentesche al di fuori di quelle di Mozart.